Tutto come abbondantemente previsto dai sondaggi che le hanno precedute. Anche oltre le aspettative della maggioranza di governo. Le elezioni amministrative per il governo del Lazio (così come per la Lombardia) sono state stravinte dall’alleanza di destra che sosteneva Francesco Rocca. Con un margine di voti rilevante (53% circa contro il 33 circa di Alessio D’Amato), e in modo coerente anche per le coalizioni di sostegno. Segno, tra l’altro, che il voto disgiunto, in fondo, non funziona quasi per nulla. Lezione per non farvi più ricorso neppure nei messaggi in campagna elettorale, non fosse altro per non dare un chiaro segno di sfiducia del rapporto giunta/consiglieri eletti.

Ma ciò che ha colpito di più è l’altissima quota di astenuti, soprattutto nel Lazio: più del 60 per cento dei chiamati alle urne non è andato a votare. Come se due cittadini su tre avessero ritenuto del tutto ininfluente la propria partecipazione alla democrazia. È un dato che conferma i tanti segnali già dati nel recente passato e che ora è enfatizzato e reso clamoroso. Una deriva che continua e segna una disaffezione che può aprire le porte a esiti spiacevoli. L’indifferenza, che fa male quanto e forse più delle aspre critiche.

Astensione? prima, durante e dopo la campagna

A “risuonare” in modo assolutamente anomalo era stato già il clima politico nel quale si è svolta la campagna elettorale: pochi incontri, pochi dibattiti, manifesti, volantini, messaggi digitali e persino posta cartacea, che generalmente affollavano, e indispettivano, i destinatari/elettori. Eppure, nel Lazio si trattava di una competizione che doveva decidere se dare continuità ad una amministrazione che, sia pure con qualche incertezza, ostacolo e pausa, aveva comunque affrontato il dramma epidemia/lockdown in un modo dignitoso, con un sistema sanitario che prima delle giunte Zingaretti era prossimo al tracollo. Eppure, risanato il Bilancio, proprio l’assessore alla Sanità ha riportato risultati eccellenti: alto il numero delle vaccinazioni, e relativamente basso il numero dei dati più negativi (si veda il completo report dato da la Banca dati di GEDI Visual https://lab.gedidigital.it/gedi-visual/2020/coronavirus-i-contagi-in-italia/lazio.php), che – oltre ad altri aspetti positivi – colloca il Lazio tra gli ultimi posti per Tasso di letalità, regione per regione. E a candidarsi alla presidenza, dopo il doppio mandato di Nicola Zingaretti, è stato proprio l’ex assessore alla sanità, Alessio D’Amato. Subito partito in salita perché da alcuni (anche all’interno del suo partito, il PD) veniva visto come un candidato scelto (senza l’operazione delle primarie) per indicazione del Terzo Polo. Calenda, che nella capitale alle elezioni per il sindaco aveva avuto un risultato di rilievo, e che aveva colto l’opportunità di contrapporsi ai 5 stelle, che nonostante gli ultimi anni di co-gestione per il governo della Regione, avevano rotto l’alleanza presentando una propria candidata, la giornalista Rai Donatella Bianchi.

Schema diverso dalla Lombardia, quindi, e che nei pochi dibattiti pubblici e nelle interviste, mostrava il fianco alle critiche di chi palesava un certo disorientamento, denunciando la confusione. Non che un fronte compatto di centro sinistra avrebbe di per sé mutato l’esito, ma forse avrebbe potuto costituire una base di partenza per lavorare per il futuro. Ora mettere insieme i cocci, è complicato. Anche se non impossibile dicono alcuni: augurandosi che questa possa essere la strategia politica da intraprendere per non consegnarsi per anni alla destra vincente.

La destra vince, mandando a casa una buona amministrazione

Non è che dall’altra parte, in verità, le cose siano state più trasparenti e chiare. Il candidato Francesco Rocca è stato scelto direttamente da Giorgia Meloni. All’ombra del mantra “scegliamo un candidato civico”, è stato emarginato e messo all’angolo il numero uno del partito regionale, Fabio Rampelli, guida storica (dal chiaro e netto passato di destra) e che per anni ha atteso questa possibilità per fare un salto verso la amministrazione della sua terra (come lo è stato, in anni passati, un altro suo glorioso predecessore, Francesco Storace). Eppure, niente: la leader, ormai forte del suo vasto consenso personale, ha preso in mano le redini del partito che già guidava con decisione anche quando i consensi non erano così alti. I megamanifesti che apparivano sugli autobus e sui muri cittadini raffiguravano il suo volto (sorriso ammiccante) e il nome per richiamare un voto che, i pochi consapevoli della tornata elettorale distrattamente attribuivano al suo traino diretto, e molto poco al candidato Rocca. È così, normale, e alzi la mano chi si stranisce … Ora? Si ricompatteranno nel nome del potere (22 consiglieri su 30 in Regione sono di FdI), e non molleranno la presa su enti (piccoli e grandi) legati direttamente alla PA e fonte di quella base clientelare che nel medio e lungo termine crea consensi solidi. Cosa da cui, d’altronde, neppure il centro sinistra è stato totalmente immune.

E ora, chi farà l’opposizione?

La debolezza delle opposizioni nel Lazio sembra essere ancora più evidente di quella nazionale. Il Pd tiene a livello di percentuali e lenisce le ferite, ma la classe dirigente del partito locale, ingarbugliata in competizioni interne, fatte di un combinato di vecchie appartenenze con scontri ideologici ormai vetusti e incapacità di innovare linguaggi e metodi di conduzione delle organizzazioni, mostra francamente una palese inettitudine alla guida. Nelle chat di attivisti politici, circolano voci ripetute di sconforto, delusione e soprattutto di un forte e radicato desiderio di cambiamento. Il Pd tiene? Forse, ma al di là dei numeri la definisce una magra consolazione chi si dice sfiduciato senza un netto e radicale cambiamento per costruire le basi di un futuro agibile.

Cosa accadrà ora nel confronto (dialettico? competitivo?) tra sindaco e presidente regionale, su fronti opposti? La questione rifiuti su tutte, ma poi anche le diverse attribuzioni di competenze in vista del Giubileo 2025, ormai prossimo, e la possibilità che Roma candidata all’Expo 2030, vinca la sfida, sono due appuntamenti che – seppure non direttamente – alimentano tensioni e confronti.

Ma l’astensionismo politico e culturale che la cittadinanza ha mostrato (non solo i singoli, ma anche l’associazionismo sociale e – diciamolo chiaramente – anche quello laico ecclesiale), lancia segnali assai allarmanti. Qualche fiammella accende fievoli speranze di rinascita (si veda l’approvazione del Regolamento per l’amministrazione condivisa dei Beni comuni, recentemente approvato a Roma, dopo anni di attesa): successo delle associazioni che ci hanno creduto sulla base di esperienze diffuse in gran parte d’Italia e che la giunta Zingaretti prima (a livello regionale) e quella Gualtieri dopo (a livello comunale) hanno colto. Sono segni che alla cosiddetta società civile attiva e impegnata si può e si deve dare ascolto. Ma a lasciare basiti è il tenore stanco e poco entusiasta con cui molti cittadini accolgono e giudicano queste risorse non come parte integrante della rigenerazione cittadina (e di conseguenza anche regionale, siamo nel Lazio), ma come una ribadita manifestazione dell’antipolitica.

Poco più di un anno fa, in occasione dell’elezioni per il sindaco c’era stata una sostanziosa ripresa per il centrosinistra, anche nei municipi (che, ricordiamolo, nella capitale sono 15 e con ognuno un numero di abitanti superiore a molte medie città italiane capoluogo). Segno di una diffusa convinzione che la gestione di Roma deve avere un profilo alto, mortificato invece, da una precedente gestione, a dir poco grigia. Ebbene: al centrodestra oggi andrebbero ben 11 municipi su 15. Dopo appena un anno.

Certo: sono elezioni di stampo completamente diverso (la presenza sul territorio di candidati e temi trattati, fanno la differenza). Ma per chi governa (a qualsiasi livello) e poi ripensa al suo rapporto con i cittadini, le analisi nel dettaglio non possono essere trascurate. Ogni scusa che si trinceri dietro la parziale (e tutta da verificare) conferma della propria tenuta, quando i tratti globali della situazione politica sono tutt’altro che positivi, ecco, un ragionamento del genere non solo lascia il tempo che trova ma, in tempi brevi, presenta il conto. Salato, indigeribile, e pronto a causare altre conseguenze nefaste.

  • Vittorio Sammarco

    Giornalista pubblicista, docente di Comunicazione politica e Opinione Pubblica, Università Pontificia Salesiana.