La recente nuova sentenza della Corte costituzionale in materia di fine vita, e segnatamente di suicidio assistito, è stata già variamente commentata, ma credo valga la pena di sottolinearne alcuni aspetti assai rilevanti, soprattutto in una prospettiva legislativa. La Corte è stata chiamata ad esprimersi sulla conformità ai principi costituzionali del requisito dei trattamenti di sostegno vitale per i pazienti che chiedono di essere aiutati a togliersi la vita, una delle condizioni che essa stessa aveva posto con la sentenza del 2019 con cui dichiarò lecito l’aiuto al suicidio.

La consulta avrebbe potuto limitarsi a rigettare la questione, in quanto di fatto una impugnazione non consentita di una sua recente pronuncia, ma invece si è confrontata con il tema, cogliendo l’occasione per ribadire e precisare alcuni principi fondamentali, tanto più rilevanti anche alla luce del dibattito pubblico nel frattempo sviluppatosi sul tema del suicidio assistito.

Anzitutto, ha ribadito la Corte l’impostazione della sua pronuncia del 2019, che fu il risultato di una scelta molto chiara, quella cioè di trovare un adeguato equilibrio tra due principi costituzionali di rango elevato, quello della tutela della vita, e quello del diritto all’autodeterminazione. Un equilibrio che la Corte riafferma necessario, e anche in dichiarato dissenso rispetto a conclusioni diverse cui sono pervenute nel frattempo le Corti costituzionali tedesca, austriaca e spagnola, le quali invece hanno ritenuto prevalente su ogni altro principio la tutela della libertà individuale, di cui è manifestazione essenziale proprio il diritto all’autodeterminazione, anche disponendo della propria vita.

La Corte dissente, e ribadisce che “se è vero che ogni scelta di legalizzazione di pratiche di suicidio assistito o di eutanasia amplia gli spazi riconosciuti all’autonomia della persona nel decidere liberamente del proprio destino, essa crea – al tempo stesso – rischi che l’ordinamento ha il dovere di evitare, in adempimento del dovere di tutelare la vita umana”. Rischi che la Corte individua nella “possibilità che, in presenza di una legislazione permissiva non accompagnata dalle necessarie garanzie sostanziali e procedimentali, si crei una ‘pressione sociale indiretta’ su altre persone malate o semplicemente anziane e sole, le quali potrebbero […] decidere così di farsi anzitempo da parte”.

A conferma di questa solido e condivisibile approccio, la Corte ricorda di aver tracciato con due sue recenti sentenze proprio in tema di fine vita i limiti invalicabili per la salvaguardia del diritto alla vita e insieme del diritto all’autodeterminazione. Da un lato con la sentenza con cui nel 2022 ha negato ingresso al referendum proposto dai radicali sull’omicidio del consenziente, che a suo dire avrebbe leso irrimediabilmente e indebitamente la soglia minima di tutela del diritto alla vita, pietra angolare su cui si fonda il nostro patto civile. E poi proprio con la sentenza del 2019 sull’aiuto al suicidio che, dice la Corte, individua il limite invalicabile oltre il quale si registrerebbe un inammissibile “compressione dell’autodeterminazione del paziente”.

Per questo, la Corte ribadisce anche con questa ultima pronuncia la piena validità di tutti i requisiti posti nel 2019 per la liceità dell’aiuto al suicidio, pur ammettendo vi sia un margine di discrezionalità del legislatore, ma alla condizione che non si superino quei limiti non valicabili. Ciò posto, e per venire al tema tanto discusso dei trattamenti di sostegno vitale intesi come requisito necessario a rendere lecito l’aiuto al suicidio, la Corte coglie l’occasione per precisare che, secondo lo spirito e la ratio della pronuncia del 2019, per trattamento di sostegno vitale deve intendersi “qualunque trattamento la cui omissione o interruzione determinerebbe prevedibilmente la morte del paziente entro un breve lasso di tempo”, incluse quelle procedure “che sono normalmente compiute da personale sanitario, e la cui esecuzione richiede certo particolari competenze oggetto di specifica formazione professionale, ma che potrebbero essere apprese da familiari o ‘caregivers’ che si facciano carico dell’assistenza del paziente”. E cita come esempi l’evacuazione manuale dell’intestino del paziente, l’inserimento di cateteri urinari, l’aspirazione di muco dalle vie bronchiali, tutte procedure che “possono essere legittimamente rifiutate dal paziente, il quale ha già per tal via il diritto a esporsi a un rischio prossimo alla morte”. Una interpretazione che mi pare non confligga con l’esigenza che sta alla base di questo requisito, e cioè che il sacrificio della vita umana possa essere giustificato solo nei casi in cui la patologia sia particolarmente grave, laddove il parametro della gravità è individuato proprio dalla necessità di un “trattamento” per garantire la sopravvivenza.

In questa parte della pronuncia la Corte ribadisce e precisa, inoltre, che tra quei trattamenti sanitari che possono essere rifiutati dal paziente, e che dunque rientrano a pieno titolo nel requisito di cui si tratta, devono essere ricompresi anche l’idratazione, l’alimentazione e la ventilazione artificiali. E’ una precisazione molto importante, perché mette finalmente fuori gioco ogni tentazione di un passo indietro su principi consolidati nella letteratura scientifica, ma che un approccio fortemente ideologizzato e perciò pericoloso cerca ancora di mettere in discussione, come dimostra la proposta di legge in materia depositata da Forza Italia al Senato in questa legislatura, con la quale si dispone che nutrizione e idratazione artificiali, quand’anche garantite da ausili tecnici, non costituiscono trattamenti sanitari, e dunque non sono liberamente rifiutabili dal paziente. Un salto indietro di decenni, contro cui le più autorevoli e importanti società scientifiche hanno già levato gli scudi, e che questa sentenza per fortuna contribuisce a vanificare.

La Corte equipara poi del tutto ragionevolmente i pazienti che già sono sottoposti a trattamenti di sostegno vitale a quelli che ne avrebbero necessità, per sottolineare che in entrambi i casi si deve ritenere soddisfatto il requisito che, in concorso con gli altri, consente di ritenere lecito l’aiuto al suicidio. Tali requisiti, precisa la Corte, devono ricomprendere non solo l’esistenza di una patologia incurabile e la permanenza di condizioni di piena capacità del paziente, ma anche “la presenza di sofferenze intollerabili (e non controllabili attraverso appropriate terapie palliative), di natura fisica o comunque derivanti dalla situazione complessiva di intensa ‘sofferenza esistenziale’ che si può presentare, in particolare, negli stati avanzati delle patologie neurovegetative”.

Il richiamo alle cure palliative appare particolarmente calzante, e viene ripetuto anche nella parte finale della sentenza, laddove si ribadisce “lo stringente appello” a garantirne la piena disponibilità su tutto il territorio, pena il rischio che il suicidio assistito divenga l’unica possibilità per sottrarsi a gravi sofferenze che sarebbero invece diversamente trattabili.

In sintesi, più che introdurre rilevanti innovazioni o allargare il perimetro di liceità del suicidio assistito, come taluno ha sostenuto, la sentenza a me pare che sia invece una solida e robusta conferma dei principi posti della pronuncia del 2019, a partire proprio da quell’esigenza di bilanciamento tra tutela della vita e libertà personale che deve necessariamente costituire il faro anche per qualunque iniziativa legislativa. E le conclusioni della Corte, laddove ribadisce “con forza” l’auspicio che il legislatore intervenga prontamente per “assicurare concreta e puntuale attuazione ai principi fissati da quelle pronunce, oggi ribaditi e ulteriormente precisati dalla presente decisione”, costituiscono un importante incoraggiamento a proseguire nel complicato e difficile tentativo di dare una adeguata disciplina legislativa nazionale al tema, nel solco della proposta legislativa a mia prima firma che a quei principi si è deliberatamente ispirata e il più possibile attenuta.

(Foto di Alexander Grey su Unsplash)

  • Alfredo Bazoli

    Alfredo Bazoli, avvocato, 53 anni, senatore del Partito democratico, capogruppo in commissione giustizia e in giunta delle autorizzazioni.