Un’elezione del Parlamento europeo (Pe) con tanti vincenti, forse troppi. Innanzitutto, cinque donne. Sono pure equamente distribuite nell’arco politico, dall’estrema destra all’estrema sinistra del Pe. Marine Le Pen (Identità e Democrazia) ha doppiato il proprio presidente, al cui governo potrebbe accedere dopo le elezioni anticipate tramite il fido Jordan Bardella. Giorgia Meloni (Conservatori e Riformisti europei, Ecr) ha condotto Fratelli d’Italia oltre il consenso delle passate politiche, mentre Ecr, di cui è presidente, è divenuto la terza forza politica nel Pe. Ursula von der Leyen brilla, al centro, della luce riflessa del successo del Partito popolare europeo (Ppe). Elly Schlein (Socialisti e Democratici, S&D) ha ottenuto per il Partito democratico un risultato al di là delle aspettative, ma S&D ha perso tre seggi nel Pe. Infine, Ilaria Salis (Sinistra europea) ha trascinato l’Alleanza verdi e sinistra a passare la soglia del 4 per cento. Ma vi è anche una donna sconfitta, Emma Bonino, icona della politica italiana. La lista Stati Uniti d’Europa per la quale si era candidata e i cui eletti avrebbero dovuto confluire nel gruppo Renew Europe, si è fermata sotto il minimo. Le divisioni nel campo liberale italiano hanno sortito l’effetto di disperdere quel 7 per cento raccolto dalle liste Stati Uniti d’Europa e Calenda, si è così azzerata la presenza italiana in Renew, quando avrebbe potuto essere di 6-7 eurodeputati. Una perdita netta per il fronte europeista. Quest’ultimo gruppo, voluto da Emmanuel Macron, ha subito una cocente sconfitta, in gran parte proveniente proprio dalla Francia dove ha visto la propria rappresentanza scendere da 23 a 13.
Ai vincenti va aggiunto il premier polacco Donald Tusk la cui rappresentanza nel Ppe è passata da 16 a 20 eurodeputati. Sorride anche il leader di popolari spagnoli Alberto Feijóo coi 22 seggi conquistati, quasi il doppio di quelli della legislatura appena conclusa. Anche il greco Kyriakos Mitsotakis è tra i vincenti. I tre hanno contribuito a quel +13 seggi giunto assolutamente inaspettato, il Ppe era infatti dato in calo, assieme a S&D e a Renew.
A risultati appena acquisiti si è aperto il negoziato sulla governance dell’Ue per il prossimo quinquennio. Al Consiglio europeo informale del 17 giugno i leader del Ppe e S&D si sono presentati con la proposta di quattro nomi per le istituzioni: Ursula von der Leyen per la Commissione europea, Antonio Costa per il Consiglio europeo, Roberta Metsola per il Parlamento europeo (il quale comunque deciderà in autonomia) e Kaja Kallas come Alto rappresentante della politica estera. La decisione è stata rimandata alla riunione formale di fine giugno. La maggior partita si svolge per la presidenza della Commissione. La personalità designata dovrà vedersela con il voto del Pe. Se la ratifica arriverà, ossia se otterrà almeno 361 voti a suo favore, allora potrà procedere, in stretto accordo con i governi dei Paesi membri, a trovare i ventisei commissari e assegnare loro un portafoglio. Per questi è prevista una prova d’accesso alla carica; esaminatrice la commissione del Pe competente nella materia del commissario designato. Non una formalità, ma un confronto sulle linee programmatiche proposte. Se non dovesse superare l’esame (in passato è accaduto), il Consiglio europeo dovrà avanzare un’altra candidatura. Successivo passo, l’intera Commissione si presenterà alla plenaria del Pe per la ratifica collegiale. Infine, la nomina formale del Consiglio europeo.
Se il fronte europeista ha retto l’urto della crescita sovranista, conserva (e ancor di più includendo i Verdi) la maggioranza numerica, il problema va oltre, estendendosi alle scelte strategiche del prossimo quinquennio. Diventa, così, cruciale il programma del presidente designato. Infatti, sulla carta la maggioranza numerica, composta da popolari, socialisti e liberali, è forte dei 399 seggi conquistati (a questi potrebbero aggiungersi alcuni deputati provenienti dal gruppo dei non-iscritti), ma i franchi tiratori sono in agguato, difficile quantificarli. In soccorso, potrebbero arrivare i voti di una parte del gruppo Ecr.
La trasformazione dello scenario geopolitico, considerando anche un minor impegno degli Stati Uniti sul fronte ucraino sia per motivi interni (eventuale elezione di Donald Trump) sia per le crescenti tensioni con la Cina, rende non più dilazionabile la questione sicurezza e difesa. Il tutto richiede forti investimenti. A livello degli Stati membri, tanto della Nato quanto dell’Ue, la ricerca della sicurezza di fronte alla minaccia della Russia di Putin, il 2 per cento del Pil di investimenti per la difesa sottoscritto come impegno nell’Alleanza atlantica, potrebbe non bastare. La situazione è ancor più complessa a livello Ue. Le risorse del bilancio europeo sono scarse, tra un anno cominceranno i negoziati per il nuovo periodo di bilancio 2028-2034, ma è da escludere un suo arricchimento. L’Ue inevitabilmente si troverà di fronte a un trade-off tra investimenti nel Green deal e quelli nel sostegno all’industria della difesa. Sarà capace di trovare una maggioranza in grado di scegliere di quanto mantenere del Green deal nella speranza di un vicino buono, e quanto accrescere la sicurezza-difesa nella consapevolezza di un vicino non ben intenzionato? All’interno dei gruppi della maggioranza esistono convinzioni diverse su questi due temi.
In tale situazione, a prescindere dal nome delle personalità designata alla presidenza della Commissione, tutto dipenderà dai contenuti del programma. In un’ottica in vista delle prossime elezioni del 2029, la maggioranza numerica per non rischiare di ritrovarsi in minoranza (un rischio ben concreto) non potrà far come se nulla fosse successo. Se l’avanzata dei sovranisti non è stata travolgente il messaggio per l’europeismo è chiaro: vi sono cose da cambiare nelle politiche dell’Ue. Le priorità della prossima Commissione, quelle sulle quali il Pe sarà chiamato a pronunciarsi, non potranno non contenere un’apertura verso le richieste e le posizioni di quanti stanno crescendo. Insomma, il Pe dovrà evitare, proprio guardando al futuro dell’Ue, di scivolare nella “tirannia della maggioranza”.
Quali, dunque, dovrebbero essere le nuove priorità della prossima Commissione? Come dovranno cambiare rispetto a quelle della Commissione uscente. Il primo grande cambiamento dovrà riguardare il Green deal. Costituì l’asso nella manica di Ursula von der Leyen nel 2019. Le aspirazioni erano nobili: fare dell’Europa “il primo continente a impatto climatico zero”. Metterlo in atto ha tuttavia implicato politiche industriali e agricole dalle quali è scaturito tanto scontento, si sia trattato della produzione dei motori a scoppio o dell’uso di diserbanti, per fare due esempi. Gli agricoltori aspettano sul piede di guerra. I produttori di auto non scenderanno in piazza, ma non sono disposti a rinunciare a tanta tecnologia. Poi vi è il fronte dell’immigrazione. Tanta parte della crescita delle destre estreme, la più clamorosa è quella dell’Afd tedesca, trova alimento negli innegabili problemi di sicurezza e culturali legati a un’immigrazione fuori controllo e restia a cercare un’integrazione nella società e nei valori europei. Per contro priorità poco sviluppate quali la “Promozione dello stile di vita europeo” per “proteggere i nostri cittadini e i nostri valori”, potrebbero essere oggetto di richieste, da parte della minoranza, di maggior attenzione e impegno per il prossimo quinquennio.
In conclusione, ciò di cui vi è bisogno è di una maggioranza politica sensibile alle varie richieste ed esigenze del popolo europeo. Perché un principio base (ma tanto disatteso) di una democrazia liberale è proprio quello di una maggioranza rispettosa della minoranza.
Crediti Foto di Christian Lue su Unsplash