È iniziata da poco ma è già in pieno svolgimento la corsa del disegno di legge governativo che prende nome dal volitivo ministro Calderoli. Con questo si vuole dare attuazione al terzo comma dell’articolo 116 della Costituzione: una innovazione inserita nella Carta nel 2001, quando il centrosinistra (che di lì a poco avrebbe perso le elezioni politiche ed inaugurato il primo ciclo del governo di Berlusconi) riuscì a farlo passare nelle Camere per pochi voti, ottenendo peraltro, pochi mesi dopo, una conferma nel referendum costituzionale popolare.

Con la nuova disposizione si rendeva possibile alle Regioni a statuto ordinario che lo richiedessero e si sentissero capaci di realizzarle “nuove forme e condizioni particolari di autonomia” per arrivare a quella che viene pertanto denominata “autonomia differenziata”, rispetto a quella delle Regioni speciali e ordinarie semplici. Insomma una sorta di tertium genus.

Diversi tentativi poco pregnanti e mal preparati furono effettuati nel ventennio che abbiamo alle spalle da Governi e ministri del centrosinistra: Prodi-Lanzillotta nel 2007, Gentiloni-Bressa nel 2018, nel mentre il centrodestra si arrampicava sulla parete verticale di un “federalismo fiscale” tutto e solo scritto sulla carta, nella legge numero 42 del 2009, dei cui effetti gli italiani non si sono neppure accorti e che è stato lasciato impaludarsi nella sua parte e funzione principale. Che sarebbe poi quella di disboscare un groviglio di imposte, accise, procedure, lacciuoli, balzelli eccetera e di abilitare gli enti politici territoriali di maggior spessore – Regioni e Comuni – a porre anche tributi propri e a non lamentarsi soltanto, restando a galleggiare su sovrattasse e addizionali erariali, ma acquisendo risorse da parte della ricchezza prodotta nei propri territori ed assumendosi la responsabilità e l’impopolarità anche della esazione diretta. Ma codeste entità politiche – che non si percepiscono come vere comunità regionali o locali – non lo vogliono fare: come il cavallo davanti all’ostacolo recalcitrano.

Così, tutta la disputa ideologica e la rissa nella presentazione dei pareri e dei numeri pro e contro l’autonomia differenziata si riduce a come scegliere le materie da trasferire e come spartire diversamente la torta delle, praticamente uniche, entrate fiscali statali, inducendo – secondo i critici apocalittici – la “secessione dei ricchi”: uno slogan tanto fortunato quanto distorcente; ovvero, al contrario, secondo gli integrati, inserendo il “vero regionalismo” nel corpaccione Italia. La verità a mio avviso è che non hanno ragione né i primi né i secondi.

L’assegnazione di nuove materie alle Regioni – per adesso a quelle del nord – che lo hanno richiesto perché vogliono per così dire emanciparsi, si tradurrà, sgonfiandosi, nella mera scrittura di listoni di funzioni amministrative, che andranno ad iscriversi nei libri mastri dei decreti del presidente del Consiglio dei ministri: i famosi DPCM stile Conte che abbiamo cominciato a frequentare con l’emergenza Covid.

Essi dovranno fissare i livelli essenziali delle prestazioni (LEP) relativi ai diritti civili e sociali che debbono essere garantiti in modo uniforme sull’intero territorio nazionale. Ma se si riuscisse davvero per questa via ad ottenere lo stesso livello (parola sgangherata) di tutela effettiva del diritto alla salute in Calabria o Campania come in Lombardia o Veneto, avremmo già vinto la tombola, perché raggiungere tale eccellente risultato a finanza invariata e con spese non aumentate, cioè senza toccare i tasti dolenti della tassazione – come la legge impone – è impresa semplicemente impossibile.

Coloro che, come chi scrive, credono nel sano regionalismo sarebbero favorevoli ad attivare una certa autonomia differenziata, ma cominciando non dall’articolo 116 bensì dal 119, che è dedicato al reperimento delle risorse e alla loro corretta distribuzione tra Stato, Regioni e Comuni. Per ragioni di spazio non posso qui, adesso, argomentare nei dettagli, ma voglio dire che l’autonomia differenziata è per sé sana se si basa sulla crescita e riesce a incrementare lo sviluppo; è malata se liscia il pelo agli egoismi territoriali.

In altre parole le Regioni più intraprendenti, e con una storia alle spalle con qualche non trascurabile successo, dovrebbero chiedere per loro un ruolo nello svolgimento delle politiche pubbliche, piuttosto che rivendicare stantii elenchi di materie, adatti solo a generare controversie da portare davanti alla Corte costituzionale. Faccio l’esempio delle politiche attive del lavoro, nelle quali ha – dovrebbe avere grande spazio – l’istruzione e la formazione professionale. Questo comparto dovrebbe spettare per intero alle Regioni.

L’esempio virtuoso si colloca nella Provincia Autonoma di Bolzano (e per trascinamento in quella trentina) dove funziona bene (ad es. col metodo del sistema di formazione duale), e comunque meglio del troppo poco che è stato fatto nei territori delle Regioni ordinarie, comprese quelle che, per vocazione tradizionale, potrebbero senza difficoltà fare meglio di adesso. E penso a Lombardia, Veneto, Emilia- Romagna ecc. Mi fermo all’uso virtuoso, responsabile, della differenziazione perché non mi lascio scandalizzare da un differente corso di studi e pratica di lavoro svolto nel distretto automotive di Fiorano o in quello specializzato nel vino di S. Michele all’Adige o nel distretto dello scarpone da sci di Montebelluna o nel distretto Kilometro zero di Bergamo. È del tutto indifferente che il diploma di fine studi rechi il bollo statale o uno stemma regionale. Conta solo chi sa fare di più e meglio. La concorrenza tra scuole statali e regionali in questo campo sarebbe una buona terapia per l’anchilosato sistema scolastico della Repubblica, particolarmente nella sua dimensione professionale di alto artigianato corroborato da expertise innovative, nei metodi, nei mezzi e nelle joint ventures con le imprese. Oltre l’art. 33 Cost. ci incoraggia in tal senso anche l’art. 14 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

Si apre adesso, dunque, il difficile e controverso tema dell’attuazione dell’autonomia differenziata per le Regioni che lo propongano, avendone i requisiti, e nei limiti delle competenze ulteriori stabilite nel 116, c. 3, Cost. Come anticipavo, non è questo il luogo per uno studio specialistico a tale riguardo. Tuttavia, in estrema sintesi: una volta che fossero salvaguardati i livelli essenziali delle prestazioni relative ai diritti civili e sociali (in primis per quanto concerne istruzione, sanità e assistenza) e garantito in capo allo Stato l’esercizio di poteri sostitutivi efficaci (modulabili con task forces, missioni specifiche ecc.) non vedo ragione di conservare l’attuale status quo che, non da solo ovviamente, ha provocato un progressivo depauperamento materiale, spirituale e morale delle Regioni meno sviluppate del Mezzogiorno. Per prima cosa le Regioni del sud debbono mostrare di essere capaci di rialzarsi da sole e di rifuggire da un contesto prevalentemente assistenzialistico, refrattario a una innovazione metodologica che potrebbe riuscire a sfruttare al meglio risorse pubbliche e private, che debbono solo essere inventariate, scoperte e valorizzate. Il PNRR è, a tal riguardo, un’occasione irripetibile.

Perché insisto sul tema della tassazione e con l’inversione dell’ordine di attuazione delle norme sulle Regioni cominciando dall’art. 119 piuttosto che dal 116? Perché sono convinto che la soluzione “ai limiti del federalismo”, che si avvicina al modello tedesco che funziona, è l’unica che può dare, attraverso un recupero di efficienza, e in via derivata, un incremento del gettito fiscale, respiro ad un plus di autogoverno regionale e locale che sappia affrontare le sfide economico-sociali che si pongono in campo europeo e globale.

E se sarà necessario, per ridare competitività al nostro sistema, imporre una tassazione sugli immobili – compresa la prima casa, visto che gli italiani ne sono proprietari ormai all’80% – ebbene si abbia il coraggio di stabilirla. Questa – e non vuote parole – sarebbe la politica giusta a favore delle generazioni future. Insieme, se necessario, ad una revisione della tassazione sulle successioni.

Se le parole e gli argomenti che ho citato possono far alzare il sopracciglio a qualche apocalittico di sinistra, che vorrebbe definirle solo come parole liberali e mercatiste, prendo a mio conforto la testimonianza di Ermanno Gorrieri, il quale poneva la questione in questi termini: “non chi può si rivolga al mercato, ma chi può concorra nei costi delle prestazioni dello Stato”.

Io sono d’accordo; soltanto cambierei la parola Stato con Repubblica, che è termine più ampio, comprensivo delle Regioni, degli enti locali, delle imprese e del Terzo settore. Anche su ciò si dovrà tornare.

 

  • Enzo Balboni

    Già professore di Diritto costituzionale, Università Cattolica di Milano.