Il dibattito sul fine vita, seppur apparentemente accantonato con la fine della XVIII Legislatura, insiste nella sua drammatica attualità. Recenti i suicidi assistiti in Svizzera di Massimiliano, 44enne affetto da sclerosi multipla, e di Romano, 82enne con Parkinsonismo atipico. Secondo gli ultimi dati pubblicati da Eurispes, nel 2022 il 74,9% degli intervistati si è espresso favorevolmente per l’eutanasia mentre quattro italiani su dieci (41,9%) per il suicidio assistito con l’ausilio di un medico. Sono dati che, significativi di per sé nonché contraddittori al loro confrontarsi, stimolano un approfondimento. Almeno limitatamente ad alcuni aspetti fondativi.

Il tema è particolarmente complesso e conflittuale. Molteplici le implicazioni bioetiche. Sotto il profilo politico, poi, le posizioni dei partiti sembrano abbastanza ben definite. Ma non possono essere accantonate espressioni divergenti al loro stesso interno, prevedibili e giustificate su tematiche così eticamente sensibili.

La Corte Costituzionale, con la sentenza sul caso DJ Fabo in merito all’aiuto o istigazione al suicidio, ha riconosciuto la libertà di autodeterminazione del malato nel “congedarsi dalla vita” con l’assistenza di terzi “come unica via d’uscita per sottrarsi, nel rispetto del proprio concetto di dignità della persona, a un mantenimento artificiale in vita non più volute e che egli ha il diritto di rifiutare”. La Corte ha ritenuto non punibile ai sensi dell’articolo 580 del Codice penale, a determinate condizioni, chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, ma solo a ben precise condizioni: persona affetta da una patologia irreversibile e fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che trova assolutamente intollerabili; tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale; pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli. Nel rispetto della normativa sul consenso informato, le cure palliative e la sedazione profonda continua; con la verifica delle condizioni che rendono legittimo l’aiuto al suicidio e delle relative modalità di esecuzione affidata, in attesa dell’intervento legislativo, a strutture pubbliche del SSN e sentito il parere del Comitato Etico territorialmente competente.

Risulta comunque opportuna una qualche riflessione bioetica per favorire dialogo e discernimento soprattutto nel dibattito politico. Tra queste, che ci interpellano nell’epoca definita della “globalizzazione del paradigma tecnocratico”, un particolare rilievo deve essere riservato al limite in situazioni di inguaribilità. Filo conduttore è la prospettiva etico-assistenziale in cui alla inguaribilità corrisponde sempre la doverosità della curabilità ovvero del prendersi cura (aspetti fisici, psicologici, relazionali, spirituali) accompagnando fino all’esito terminale senza anticipare la morte.

Aiutare nel morire è un dovere umano e cristiano che si contrappone all’aiutare a morire cioè causare la morte di una persona sofferente sia con l’assistenza al suicidio sia con l’eutanasia del consenziente.

Come ha ricordato Papa Francesco al Meeting regionale europeo della World Medical Association nel novembre 2017, “se sappiamo che della malattia non possiamo sempre garantire la guarigione, della persona vivente possiamo e dobbiamo sempre prenderci cura, senza abbreviare noi stessi la sua vita, ma anche senza accanirci inutilmente contro la sua morte.”

Nella visione di una prossimità responsabile, prendersi cura riveste un grande rilievo sul piano culturale e politico, impegnandosi a combattere il dolore e la sofferenza e tutto ciò che rende il morire più angoscioso, mantenendo sino alla fine la migliore qualità di vita possibile.

 Uno snodo bioetico cruciale è il principio della proporzionalità terapeutica che rappresenta il giusto contrasto alle opposte derive dell’accanimento in nome del valore della vita umana o dell’eutanasia/suicidio assistito in nome del diritto assoluto all’autodeterminazione.

La proporzionalità terapeutica è un principio di giustificazione etica e giuridica che risulta lecito quando i benefici attesi sono superiori, o almeno uguali, ai rischi previsti. Richiede il discernimento, nell’ottica dell’integrazione, tra il valore della vita umana e il valore del diritto a morire degnamente. La proporzionalità terapeutica rappresenta, nella sua dimensione oggettiva, un criterio prioritario e immediatamente condivisibile nonché sempre attuale.

Come ribadito nella Lettera Samaritanus bonus della Congregazione per la Dottrina della Fede sulla cura delle persone nelle fasi critiche e terminali della vita, “nell’imminenza di una morte inevitabile è lecito in scienza e coscienza prendere la decisione di rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere le cure normali dovute all’ammalato in simili casi.”

È una norma, questa, che aiuta a dirimere situazioni drammatiche e tormentate nella dura effettività della singolare situazione clinica, cercando di eliminare le sofferenze ma non eliminando i sofferenti.

Ma l’interrogativo sostanziale è il seguente: come definire un intervento proporzionato? Un trattamento può essere definito proporzionato/sproporzionato secondo la valutazione di vari parametri quali il trattamento e l’effetto atteso che, a sua volta, può caratterizzarsi per una composita diversità: “miglioramento, stabilizzazione, invarianza, peggioramento, destabilizzazione da cui risultano oggettive evidenze di positività, neutralità o negatività dell’intervento terapeutico.”

Tuttavia, anche altri parametri di natura soggettiva o sociale devono essere presi in considerazione. Ad esempio, la valutazione sulla qualità o la quantità residuale della vita del paziente.

Questi parametri, che possono coagire nel discernimento sulla proporzionalità/sproporzionalità del trattamento, possono anche imporsi in forme di predeterminazione. Vale a dire che, in quest’ultima accezione, non è più l’obiettiva condizione che, dall’incontro tra medico e paziente nel bilanciamento tra oggettività del trattamento e dignità del paziente, porta a una decisione condivisa nella cura. È, invece, il prevalere di una predeterminata valutazione sociale sul valore vita.

È questo il c.d. funzionalismo. Cultura che determina il valore vita in base alla sua sola espressione di funzionalità che parametra la dignità del vivere e del vivente in ragione delle funzioni in grado o meno di esprimere. Risulta evidente che sul parametro della funzionalità o della quantità residuale della vita si giustificherebbe, secondo alcuni, anche il non ricorso o la sospensione di ogni trattamento per quanto di cura e sostegno vitale.

In sintesi, il discernimento in merito alla proporzionalità/sproporzionalità richiede un bilanciamento che coniughi la valutazione clinica e la tutela della vita, evitando gravose sofferenze (ortotanasia).

 Le malattie possono essere inguaribili ma tutte sono curabili, vale a dire che è dovere biomedico, etico e delle politiche sanitarie prendersi sempre cura della persona sofferente. Il prendersi cura è manifestazione concreta dell’alleanza da cui il giustificato ricorso a terapie del dolore, cure palliative, sedazione profonda continua in imminenza di morte, sostegni vitali. Insomma, prendersi cura della persona inguaribile fino all’ultimo istante della sua vita senza ostinazione irragionevole. Senza resistere né desistere.

(Foto di Jon Tyson su Unsplash)

  • Lucio Romano

    Medico Chirurgo e docente di Bioetica. Componente Comitato Scientifico “Centro Interuniversitario di Ricerca Bioetica”. Senatore della Repubblica nella XVII Legislatura. https://lucioromano.it