Nel giustificare l’attacco di Israele all’Iran, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha affermato che l’operazione era una misura preventiva necessaria per contrastare quello che ha descritto come un tentativo segreto dell’Iran di sviluppare armi nucleari che, a suo avviso, costituiscono una minaccia esistenziale per Israele. Egli ha affermato che l’Iran aveva già raggiunto la capacità di produrre fino a nove bombe nucleari. Tuttavia, i critici di Netanyahu sostengono che l’attacco sia stato motivato da ragioni politiche, volto cioè a prevenire un possibile accordo diplomatico tra gli Stati Uniti e l’Iran sul programma nucleare civile iraniano, o addirittura a scongiurare il crollo del governo Netanyahu sempre più in difficoltà. Per anni Israele ha sostenuto che l’Iran fosse sul punto di acquisire un’arma nucleare, anche durante i periodi in cui gli impianti nucleari iraniani erano sottoposti a regolari ispezioni da parte dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA). Netanyahu, in particolare, è stato una figura molto attiva e insistente nei forum internazionali, mettendo in guardia dalla minaccia iraniana e facendo campagna contro qualsiasi accordo diplomatico. I suoi critici sostengono che questa attenzione rasenti una crociata personale, modellata da quella che alcuni percepiscono come una lunga ossessione ideologica volta a minare il regime iraniano. La sua speranza dichiarata è quella di portare le masse iraniane a rovesciare gli ayatollah.

Una guerra popolare in Israele

L’attacco del 13 giugno 2025 ha ricevuto un sostegno schiacciante da parte dell’opinione pubblica israeliana e la copertura mediatica interna ha ampiamente fatto eco alla narrazione del governo presentando l’operazione militare come necessaria e giustificata. L’entusiasmo dell’opinione pubblica per la guerra è stato alimentato dalla percezione dell’Iran come il nemico più pericoloso di Israele negli ultimi decenni. Questa percezione è stata plasmata nel corso degli anni dalla retorica politica e dall’immagine mediatica che spesso ha disumanizzato l’Iran, dipingendolo come una minaccia esistenziale. Il concetto di “asse del male”, secondo una narrazione rafforzata nel corso di molti anni da Israele, si è alla fine rivelato più retorico che sostanziale. Ciononostante, è stato utilizzato dai leader israeliani per giustificare una serie di azioni militari e politiche.

Detto questo, l’antagonismo tra le due nazioni è reciproco. La Repubblica islamica dell’Iran ha sempre rifiutato di riconoscere la legittimità di Israele, definendo il sionismo un movimento coloniale e illegittimo. Teheran è stata anche uno dei principali sostenitori della causa palestinese, sia a livello diplomatico che materiale, contribuendo a una rivalità ideologica e geopolitica profondamente radicata che continua ad alimentare le tensioni in tutta la regione. Gran parte della rivalità e della guerra in corso è alimentata a mio avviso da una lotta di lunga data per il dominio regionale che si protrae da decenni e che coinvolge anche le potenze occidentali. Il 21 giugno 2025 gli Stati Uniti sono entrati formalmente in guerra lanciando attacchi contro gli impianti nucleari iraniani. Questo intervento formale segna un significativo cambiamento strategico, le cui conseguenze rimangono assai incerte e potenzialmente di amplissima portata.

Al di là della narrazione ufficiale promossa dai canali governativi israeliani, che descrivono l’attacco preventivo contro l’Iran del 13 giugno 2025 come un’azione necessaria per impedire a Teheran di acquisire armi nucleari, gli analisti che conoscono bene le complessità della politica israeliana hanno suggerito una serie più ampia di motivazioni sottostanti. Queste motivazioni non ufficiali sono raramente discusse dalle autorità militari o politiche e sono in gran parte assenti dai principali media israeliani, saturi di commenti di ex generali ed esperti di sicurezza. Tale copertura mediatica spesso mette in risalto la brillantezza strategica delle azioni militari di Israele, le minacce esistenziali che il paese deve affrontare e il ruolo di vittima del pubblico israeliano, omettendo o minimizzando il fatto che è stato Israele a iniziare la guerra e le sofferenze della popolazione di Gaza.

I motivi non dichiarati di Israele per la guerra

Diversi fattori non dichiarati sembrano aver influenzato la decisione di Netanyahu di entrare in guerra:

  1. La decisione di attaccare l’Iran è seguita a una serie di sviluppi militari e geopolitici che sembravano spostare l’equilibrio regionale a favore di Israele. Tra questi vi erano il successo percepito da Israele nel contenimento di Hezbollah in Libano, l’indebolimento dell’influenza della Siria a causa del conflitto interno, un precedente scontro con le forze iraniane in Siria e il duro colpo inferto a Hamas durante la guerra di Gaza del 2023-2025.
  2. La guerra ha rafforzato notevolmente la popolarità del primo ministro Netanyahu. Ampiamente percepito come cauto o addirittura esitante nelle crisi passate, Netanyahu è stato elogiato dall’opinione pubblica per aver dimostrato una leadership decisa. La sua narrazione di aver impedito all’Iran di acquisire armi nucleari ha contribuito a ridefinirne la fama di “salvatore della patria”.
  3. La guerra ha spostato l’attenzione dal conflitto irrisolto di Gaza, dove circa 53 ostaggi israeliani rimangono in cattività. Con oltre 55.000 palestinesi uccisi, circa 6.000 sepolti sotto le macerie e 125.000 feriti, oltre a massicci sfollamenti e fame, la catastrofe umanitaria a Gaza è scomparsa dall’agenda pubblica. A Gaza le operazioni militari israeliane hanno provocato continue vittime civili e gravi condizioni umanitarie, tra le quali la fame diffusa.
  4. La guerra serve poi a distogliere l’attenzione interna e internazionale dalle azioni in corso di Israele in Cisgiordania. In Cisgiordania continua l’espansione di quello che è stato descritto da numerose organizzazioni per i diritti umani come un regime di apartheid, caratterizzato dallo sfollamento dei palestinesi e da violenti attacchi perpetrati dai coloni ebrei, spesso con il sostegno o la protezione dell’esercito israeliano.
  5. Sebbene sia stato Israele a iniziare il conflitto in corso e a prendere di mira siti civili in Iran (molti dei quali ricevono una copertura mediatica limitata), la sofferenza degli israeliani è presentata prevalentemente attraverso una lente di vittimizzazione. I leader politici, insieme ai media principali e ai social media, sottolineano spesso le vittime civili israeliane e la distruzione delle infrastrutture residenziali, omettendo spesso di menzionare gli attacchi iraniani contro obiettivi militari o di sicurezza israeliani. Questa rappresentazione ha una particolare risonanza nella coscienza storica ebraica, plasmata dall’eredità della diaspora, dal trauma dell’Olocausto e dalle dinamiche durature del conflitto arabo-israeliano. Di conseguenza, le narrazioni della vittimizzazione suscitano reazioni emotive, cognitive e comportamentali distinte sia all’interno della società israeliana che nella più ampia diaspora ebraica, in particolare sotto forma di disimpegno morale, diritto morale e silenziamento morale. Il disimpegno morale si riferisce al processo psicologico attraverso il quale individui o gruppi sospendono le norme morali per giustificare azioni dannose. Il diritto morale alimenta la convinzione che le azioni, comprese quelle che causano danno, siano ammissibili se percepite come necessarie per proteggere il popolo ebraico. Il cosiddetto moral silencing implica che le critiche esterne siano illegittime, sulla base della convinzione che gli altri non abbiano l’autorità morale per giudicare o condannare le sofferenze degli ebrei o le azioni intraprese in loro difesa.
  6. La guerra ha generato un raro momento di consenso politico in tutto lo spettro politico israeliano, dalla sinistra sionista all’estrema destra, con oltre l’80% degli ebrei israeliani che, secondo i media, ha sostenuto la campagna militare. Solo una parte marginale della popolazione ha messo pubblicamente in discussione la necessità o l’opportunità della guerra.
  7. La guerra ha contribuito a distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dal fallimento di Netanyahu nel prevenire il devastante attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, per il quale ha costantemente rifiutato di assumersi la responsabilità o di far avviare un’inchiesta formale da parte dello Stato. Il senso di umiliazione e vulnerabilità seguito all’attacco è stato sostituito da un rinnovato sentimento di orgoglio nazionale e resilienza.
  8. Prima della guerra, Netanyahu doveva affrontare una forte opposizione interna alla Knesset, in particolare sulla controversa questione dell’esenzione dal servizio militare per la comunità ultraortodossa. Alla fine, ha ceduto ai partiti ultraortodossi sulla questione dell’esenzione dal servizio militare, riuscendo a malapena a sopravvivere al voto di fiducia della Knesset su questo tema. La guerra gli ha permesso di riposizionarsi e consolidare la sua leadership.
  9. Il conflitto ha creato le condizioni favorevoli per portare avanti la controversa agenda del governo in materia di riforma giudiziaria e trasformazione più ampia del regime. Le misure includono la limitazione dell’indipendenza della Corte Suprema, la restrizione della libertà della società civile e della stampa, l’aumento del controllo statale sull’istruzione e la riorganizzazione delle principali istituzioni pubbliche.
  10. La guerra, sebbene rischiosa, ha dimostrato le capacità militari e di intelligence di Israele su scala globale. Per molti governi occidentali scettici sulle intenzioni dell’Iran, l’operazione israeliana ha servito interessi strategici comuni, indebolendo le infrastrutture nucleari e militari dell’Iran.
  11. Con l’avvicinarsi della pausa estiva del Parlamento (la Knesset sospenderà le sedute dal 27 luglio al 19 ottobre 2025), Netanyahu ha di fatto lanciato una campagna elettorale informale per la rielezione. Presentandosi come “padrone della sicurezza”, ha trasformato la sicurezza nazionale nel tema centrale del dibattito pubblico, distogliendo l’attenzione dalle sfide socio-economiche e dall’instabilità della coalizione.
  12. Netanyahu ha presentato la guerra non solo come una difesa tattica, ma come parte di una visione più ampia di ridefinizione del panorama geopolitico mediorientale, un’estensione dei continui sforzi di normalizzazione e delle partnership strategiche di Israele nella regione.
  13. Il lungo processo per corruzione a carico di Netanyahu, accusato di corruzione, frode e abuso di fiducia, ha subito ripetuti ritardi dal suo inizio, il 24 maggio 2020. Durante la fase difensiva, iniziata nel dicembre 2024, Netanyahu secondo i resoconti avrebbe dichiarato oltre 1.700 volte di non ricordare gli eventi. Lo scoppio della guerra ha fornito un’altra giustificazione per il rinvio del processo, un modello già osservato in precedenza durante le crisi nazionali.
  14. La guerra ha anche distolto l’attenzione dalle delicate inchieste che coinvolgono l’ufficio di Netanyahu, in particolare in relazione al cosiddetto “caso Qatar”. Le accuse includono legami finanziari impropri e influenza politica da parte di uno Stato noto per il suo sostegno ad Hamas. Secondo fonti di stampa al momento dell’inizio della guerra era in corso un’indagine interna dello Shin Bet su queste accuse.
  15. Netanyahu infine ha visto nella guerra un’occasione per ripristinare la deterrenza israeliana, gravemente danneggiata dagli attacchi di Hamas dell’ottobre 2023. Affrontando direttamente l’Iran, ha cercato di ristabilire il dominio strategico di Israele e di ridefinire le regole di ingaggio nella regione.

La visione strategica di Netanyahu e la geopolitica del conflitto perpetuo

Il percorso della leadership del primo ministro Benjamin Netanyahu sembra profondamente radicato in una dottrina che considera il conflitto perpetuo essenziale per la sopravvivenza di Israele, una visione del mondo plasmata dalla convinzione che lo Stato debba “vivere con la spada”. In questo contesto, la guerra con l’Iran rappresenta non solo una campagna militare, ma anche una pietra miliare strategica nella visione più ampia di Netanyahu di rimodellare l’ordine regionale e interno di Israele.

Questa campagna non avrebbe potuto procedere senza il sostegno esplicito e implicito degli Stati Uniti. Secondo i media l’ex presidente Donald Trump avrebbe dato il “via libera” all’attacco israeliano contro l’Iran del 13 giugno 2025, mentre i servizi segreti e i sistemi d’arma statunitensi hanno svolto un ruolo fondamentale nel rendere possibile l’operazione. Inoltre dei velivoli statunitensi per il rifornimento in volo sostengono le operazioni aeree israeliane. Pertanto, sia in termini materiali che strategici, questa guerra può essere vista come un’impresa congiunta, con gli Stati Uniti che condividono un interesse acquisito nel neutralizzare le capacità nucleari dell’Iran e potenzialmente destabilizzare o addirittura rovesciare il regime teocratico della Repubblica Islamica.

Il 21 giugno gli Stati Uniti hanno lanciato un attacco contro l’Iran, diventando così formalmente parte diretta della guerra. La situazione attuale presenta molteplici incertezze: le capacità strategiche residue dell’Iran, già significativamente ridotte dagli attacchi israeliani, sono difficili da valutare; la risposta interna della popolazione iraniana agli attacchi sia di Israele che degli Stati Uniti rimane oscura; l’apparente determinazione di Israele a rovesciare il regime iraniano solleva gravi implicazioni regionali; e gli obiettivi finali degli Stati Uniti, insieme al loro impegno a perseguirli, non sono ancora del tutto chiari. A mio avviso questo segna l’inizio di una nuova fase della guerra potenzialmente trasformativa, che potrebbe degenerare in un conflitto globale, a seconda delle risposte di altri attori internazionali chiave come Russia, Cina e Pakistan. La situazione è quindi caratterizzata da profonda incertezza e da gravi pericoli.

Israele da solo non ha la capacità di sostenere una campagna militare di questa portata senza il sostegno degli Stati Uniti. L’alleanza rimane indispensabile e, sotto la guida del presidente Trump, la cooperazione bilaterale appare non solo assicurata, ma anche ideologicamente allineata. Non è quindi un caso che Trump abbia chiesto la resa incondizionata dell’Iran e sia arrivato al punto di minacciare la vita della Guida Suprema iraniana. In questo senso, la guerra riflette la famigerata logica espressa da George Orwell: «La guerra non è fatta per essere vinta, è fatta per essere continua». Il conflitto perpetuo sostiene il potere politico, sopprime il dissenso e riorganizza l’agenda politica sia interna che internazionale.

Una dimensione orwelliana è evidente nel discorso ufficiale delle potenze globali, esemplificato dalla dichiarazione rilasciata dai leader del G7 il 17 giugno 2025. In una dichiarazione caratterizzata da un’inquadratura selettiva e da cinismo diplomatico, hanno affermato: «Noi, leader del G7, ribadiamo il nostro impegno per la pace e la stabilità in Medio Oriente. In questo contesto, affermiamo che Israele ha il diritto di difendersi. Ribadiamo il nostro sostegno alla sicurezza di Israele… L’Iran è la principale fonte di instabilità e terrorismo nella regione». Questa dichiarazione sottolinea la narrazione asimmetrica promossa dalle potenze occidentali, che enfatizzano la sicurezza di Israele oscurando o ignorando il contesto geopolitico più ampio e le conseguenze umanitarie del conflitto.

La strategia geopolitica di Netanyahu mira a elevare Israele allo status di potenza regionale dominante, libera dal conflitto israelo-palestinese di lunga data. Il suo governo rifiuta la creazione di uno Stato palestinese e abbraccia sempre più politiche volte all’annessione de facto della Cisgiordania. Anziché perseguire una pace negoziata, Netanyahu cerca la normalizzazione con i regimi autoritari arabi, aggirando le richieste palestinesi di uno Stato e di giustizia. È importante ricordare che nel 2002 è stata presentata l’Iniziativa di pace araba (Arab Peace Iniative), conosciuta anche come Iniziativa di pace saudita. Questa proposta offriva la piena normalizzazione delle relazioni tra gli Stati arabi e Israele in cambio del ritiro completo di Israele dai territori occupati, una soluzione giusta della questione dei rifugiati palestinesi in conformità con il diritto internazionale e la creazione di uno Stato palestinese indipendente. L’iniziativa è stata ribadita dalla Lega araba in diverse occasioni, recentemente nel 2023. Israele però non ha ancora mai risposto formalmente: piuttosto l’ha ignorata.

Allo stesso tempo, Netanyahu ha portato avanti un programma interno che minaccia di trasformare Israele in uno Stato illiberale o addirittura autoritario. La sua coalizione, dominata da partiti ultraortodossi e nazionalisti religiosi, immagina un futuro teocratico, un Israele sempre più governato dalle norme religiose, con libertà civili ridotte, l’indipendenza della magistratura indebolita e spazi sempre più ristretti per il dissenso, il pluralismo e i diritti delle minoranze. La coalizione esercita già il controllo sulla polizia, l’esercito, i mass media e altre istituzioni formali cruciali. Per certi versi segue un percorso simile a quello dell’Iran.

È fondamentale sottolineare che questa visione non è priva di un sostegno popolare. I sondaggi suggeriscono che circa il 40% dei cittadini ebrei israeliani sostiene con forza la leadership di Netanyahu e il suo più ampio progetto ideologico. Un ulteriore 30% esprime un sostegno moderato o un accordo con parti della sua visione. Solo circa il 15% dimostra un’opposizione seria e coerente. In un tale clima politico, non sembra più improbabile la trasformazione dell’identità interna e regionale di Israele da una democrazia impegnata nella coesistenza a uno Stato definito dal militarismo, all’annessione e dal nazionalismo religioso.

L’esito della guerra avviata contro l’Iran da Israele e dagli Stati Uniti rimane altamente incerto. Il primo ministro Netanyahu ha pubblicamente promesso di rovesciare il regime iraniano, sollevando serie preoccupazioni circa la sua volontà di rinunciare a quello che sembra essere un obiettivo
strategico a lungo termine. Al contrario, gli obiettivi del presidente Trump nel conflitto rimangono ambigui, privi di una strategia finale articolata in modo chiaro. L’Iran dal canto suo potrebbe compiere un passo costruttivo affermando apertamente che non ha intenzione di sviluppare armi
nucleari e che non mira alla distruzione dello Stato di Israele: si tratterebbe di una posizione che forse già sostiene, ma che deve essere affermata esplicitamente per contribuire a creare le condizioni per un cessate il fuoco e per una de-escalation delle ostilità.

(Traduzione dall’inglese di Manuela Borraccino)

(Foto di Hanay da wikimedia.org)

  • Docente emerito di Psicologia politica all’Università di Tel Aviv (città in cui vive), ha indagato i meccanismi socio-psicologici dei conflitti irrisolvibili. Ha guidato il Walter-Lebach Institute per la coesistenza arabo-ebraica.