Nelle scorse settimane, il Veneto è tornato ad essere teatro di conflitti interni alla Lega, riconducibili, in ultima analisi, alla necessità di definire chi sarà il successore di Luca Zaia alla guida della regione, ma che, secondo alcuni osservatori, si spiegherebbe con un ritorno di fiamma dello spirito venetista della prima ora. Martina Zambon – specialista di Lega per le pagine venete del “Corriere della Sera” – ha intervistato Franco Rocchetta, per riflettere sui motivi dei contrasti emersi tra le componenti venete e quelle lombarde del partito (“Corriere della Sera” – edizione veneta, 17 gennaio 2025). In effetti, portare l’attenzione su Rocchetta è un’operazione assai utile per trovare il senso di quanto sta accadendo. Rocchetta è la personalità più rilevante nella storia del leghismo delle origini. Già nel 1977, fu tra gli animatori della “Società filologica veneta”, veicolo di alcuni dei contenuti su cui si strutturò il primo embrione della Liga Veneta che, dopo avere partecipato alle elezioni europee del 1979 in appoggio alla lista “Europa federalismo autonomie”, si costituì formalmente nel gennaio del 1980. I militanti di quella piccola formazione ritenevano che le forze politiche italiane avessero sempre trattato la loro regione come un “territorio di colonizzazione”, sfruttandone le risorse economiche senza riconoscerne i caratteri identitari e le specificità culturali. Nei loro materiali di propaganda invitavano i cittadini veneti a riscoprire le verità sepolte dalle menzogne e dalle falsificazioni storiche imposte dal governo centrale al termine del processo di unificazione: con la stampa e la scuola romane, secondo i militanti “lighisti”, 3500 anni di storia regionale erano stati cancellati o riscritti, per negare l’esistenza di una nazione veneta, ridurne la lingua a dialetto, la cultura a folclore.
Alle elezioni del 1983, la Liga conquistò 123 mila voti. Furono sufficienti per mandare in parlamento il senatore Graziano Girardi e il deputato Achille Tramarin, divenuto segretario del partito. Dopo le elezioni, si scatenò una disputa tra quest’ultimo e Rocchetta. Il conflitto tra i due si concluse a favore di Rocchetta che, negli anni successivi, lavorò con Umberto Bossi alla costituzione della Lega Nord, federazione delle leghe autonomiste settentrionali. Bossi e Rocchetta, che rappresentavano le due anime regionali della federazione, ricoprirono le cariche di segretario e di presidente federale, cercando per alcuni anni di mantenere un equilibrio. L’impresa, però, non era elementare, in quanto la Liga e la Lega – pur avendo prospettive comuni e condividendo alcune parole d’ordine – erano portatrici di visioni e pulsioni parzialmente distinte. La Liga di Rocchetta concepiva davvero il Veneto come nazione e dava grande valore alle questioni linguistiche e culturali, sostanze di una elaborazione ideologica pensata nel quadro delle lotte per i diritti delle minoranze etniche. Molto diverso era l’approccio di Bossi che diede da subito priorità alla dimensione economica, concepì il federalismo come una carta per ripensare il sistema fiscale e trasferire risorse da Sud a Nord, lasciò in secondo piano le questioni culturali e linguistiche, delle quali fece un uso variabile e spesso strumentale alle esigenze della sua scalata al potere. L’allontanamento di Rocchetta dalla Lega Nord, a partire dal 1995, non maturò da soli dissapori personali, ma dall’imporsi di un modello di gestione del partito e da una gerarchia di priorità che non lasciavano più spazio al suo modo di concepire la lotta politica. Da quel momento, la Liga restò la componente della Lega Nord più caratterizzata e differenziata dal modello lombardo, ma si mantenne in una posizione subalterna sui temi cruciali, mediando l’irrilevanza nelle decisioni di politica nazionale con il controllo delle dinamiche territoriali venete, grazie soprattutto a personalità di spessore, come Luca Zaia e Flavio Tosi.
È in questo quadro che sembra opportuno guardare alle tensioni emerse in queste settimane, interpretate da molti osservatori come il desiderio di tornare agli spiriti delle origini da parte dei veneti nella Lega. Torneranno i manifesti contro il colonialismo romano? Sicuramente no, anche perché le istanze venetiste proposte a inizio anni Ottanta non risulterebbero oggi nemmeno decifrabili a gran parte della popolazione. Invece, con la fine del secondo mandato di Zaia, si pone per la componente veneta della Lega – oggi rappresentata in primo luogo da Alberto Stefani, giovane deputato padovano, segretario della Liga e vicesegretario federale di Matteo Salvini – la necessità di contrastare qualsiasi tentativo di sottrarle il controllo del territorio, dal momento che è stato proprio quel controllo la sua vera ragion d’essere negli ultimi venticinque anni. Se, alla luce dei risultati delle politiche del 2022, Salvini accettasse un candidato di Fratelli d’Italia per le regionali, il mondo della Liga vedrebbe sgretolarsi il pilastro su cui si è retto il suo compromesso con il conseguente equilibrio. Per di più, Salvini è un segretario indebolito da numerosi errori commessi e da cinque anni di pessimi risultati elettorali, per quanto abbia ancora a disposizione gli strumenti per controllare il partito. Lasciare il Veneto ai leghisti veneti diventa quindi la condizione necessaria per contenere l’intensificarsi di uno scontro che potrebbe incrinarne ancora di più la sua leadership.
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