L’esito delle ultime primarie del PD (impropriamente chiamate così sebbene siano più una elezione diretta e allargata del Segretario/a del partito) ha segnalato una presunta “anomalia”: la scelta prodotta da simpatizzanti ed elettori nei cosiddetti Gazebo, ha ribaltato il risultato stabilito giorni prima dagli iscritti nei circoli. A questo punto la sorpresa (mai avvenuta nelle precedenti primarie) fa sorgere in particolare due domande. Le abbiamo rivolto ad alcuni politologi – Antonio Floridia, Salvatore Vassallo, Nadia Urbinati, Piero Ignazi, Mauro Calise – che esprimono posizioni diversificate, per capire se e in quale misura questo sistema consente di rivitalizzare la partecipazione politica così evidentemente infiacchita negli ultimi anni.

 

La prima domanda: vista la situazione dell’attuale panorama politico, questo meccanismo è ancora coerente con il disegno che prevede (come da statuto Pd) il segretario/a così eletto/a direttamente candidato/a alla Presidenza del consiglio in quanto legittimato/a da un voto popolare più ampio del solo voto degli iscritti?

 

FLORIDIA: Quando nacque il PD il principio delle “primarie aperte” per eleggere il segretario del partito venne giustificato sulla base di uno schema dottrinario che si sarebbe rivelato del tutto irrealistico: ossia che l’evoluzione del sistema politico-istituzionale italiano dovesse andare verso il bipolarismo, verso una “democrazia matura”, sotto il segno dell’alternanza, ecc. Ricordo, tuttavia, quel che disse Pietro Scoppola nella sua relazione al convegno di Orvieto del 6-7 ottobre 2006: “Bisogna dirlo chiaramente: senza una riforma elettorale il partito democratico non può mettere radici”, il che evidentemente non è avvenuto.

Inoltre, con gli anni si è palesata la grave incongruenza di quel modello: l’eventuale identificazione tra il segretario del partito e il candidato premier è un fatto politico. Nulla impedisce che un segretario, eletto solo dagli iscritti, sia il candidato “naturale” del partito alla carica di capo del governo, e non implica che per questo sia meno “legittimo”. E così che accade, ad esempio, in Spagna, dove Pedro Sanchez, è divenuto capo del governo sulla base di una sua elezione come segretario, eletto dagli iscritti PSOE. Certamente, questa previsione statutaria del Pd è oramai anacronistica e andrebbe abrogata, lasciando aperta la possibilità di primarie aperte solo per la selezione di un candidato premier di coalizione. Ma va abrogata anche perché ha prodotto guasti profondi su molti altri aspetti della vita del partito.

 

VASSALLO: La domanda ne contiene due. Se sia utile l’elezione diretta da parte degli “elettori”; se il segretario debba essere il candidato alla premiership. Sulla prima domanda si torna in seguito. Sulla seconda la risposta è semplice.: il Pd può anche decidere di fare diversamente ma in tutta Europa tutti i partiti candidano (virtualmente) alla premiership il proprio leader. Così anche in Italia. La ragione per cui nel Pd esiste da sempre questo singolare dibattito ha radici nella peculiare storia politica italiana del dopoguerra, quando Dc e Pci hanno elaborato per ragioni opposte (essendo rispettivamente condannati a governare e rimanere all’opposizione) la teoria della “separazione”.

 

URBINATI: Ho da tempo sostenuto l’assurdità di questa procedura, – e mi stupisce che si senta solo oggi il bisogno di riflettervi – la validità di una procedura che dovrebbe essere prefigurata immaginativamente prima di metterla in funzione, senza bisogno di ‘esperimentarne’ le conseguenze. Immaginiamo quante poche costituzioni sopravviverebbero se chi le scrive seguisse la logica di chi ha scritto lo statuto del PD. Ma tale assurda procedura non nasce dal caso o dall’imperizia. Nasce da una visione di partito che è a mio parere sbagliata – i fondatori del PD volevano un partito che fosse non-partito o un’associazione che fosse meno possibile un partito. Il PD nacque con la giusta ambizione di conquistare consenso e governare – in questo senso cercare di essere maggioritario ha un senso. Ma interpretò questa giusta ambizione in senso ideologico e quasi religioso, ovvero come il voler espandersi fino a diventare un partito-nazione, un’unità oltre la parte – in questo caso, cercare di essere maggioritario non ha senso, ed è anzi problematico da un punto di vista liberal-democratico che presume pluralismo dei partiti, conflitto politico tra partiti, e netta separazione tra chi governa e chi si oppone al governo. Le cosiddette primarie aperte si adattano alla perfezione a questa visione non-partitica del partito. È sperabile che questa discrasia tra interno ed esterno, tra militanti ed elettori venga a finire. Ma dubito che così sarà, anche perché la strada – quasi obbligata a questo punto — di rilanciare il tesseramento proprio per portare gli elettori a diventare iscritti, così da ricucire il divorzio, può incrementare invece che correggere il vizio non-partitico del partito democratico, il suo plebiscitarismo. Portare tutti gli elettori dentro non significa necessariamente renderli tutti partecipi, nel diritto, alla vita deliberativa interna, mentre può significare farne dei sostenitori acclamanti del/della leader. Insomma, il problema non si risolve con la campagna di tesseramento. Si risolve con il cambiare le regole, lo statuto. Personalmente l’ho sostenuto anche alla prima riunione del comitato nominato da Enrico Letta. Il risultato è stato dei peggiori: ovvero ho ricevuto quasi un attacco personale sui quotidiani e nei social da parte di importanti esponenti del partito, che hanno mostrato di venerare il corpo mistico del partito…. salvo a lamentarne, ora, le pecche! Eppure, dicevo una cosa ovvia.

 

IGNAZI: Aprire la discussione sullo Statuto del Pd occuperebbe troppo spazio. Mi sia consentito solo esprime ancora, come già allora, tutto il mio sconcerto per una tale strutturazione organizzativa che aveva lo scopo, neanche troppo nascosto, di disarticolare l’organizzazione stessa. I danni creati alla vita del Pd sono stati giganteschi e quella norma riflette una condizione storica particolare definita dal sistema – o meglio – dalla logica maggioritaria che prevaleva. Rifletteva cioè una contingenza storica che ora non esiste più. Ed è quindi una delle tante norme da abolire. Tra l’altro, faccio notare che, laddove esiste una competizione presidenziale, in Francia, il segretario generale del Partito socialista non era necessariamente il candidato ufficiale a quella carica.

 

CALISE: Nell’esperienza storica delle principali democrazie occidentali la pratica delle primarie ha come principale obiettivo quello di coniugare il processo di selezione delle candidature con un ampliamento – sia temporale che quantitativo – della partecipazione popolare. Il caso più noto è quello delle elezioni presidenziali americane, la cui funzione manifesta è di selezionare il candidato di ciascun partito alla Casa Bianca. Ma la cui funzione latente è quella di coinvolgere nell’arco di diversi mesi l’opinione pubblica e gli attivisti di partito in un fittissimo ventaglio di appuntamenti di confronto tra i diversi candidati e il loro potenziale elettorato. Questa funzione latente svolge un ruolo decisivo nel tenere viva l’attenzione e il coinvolgimento dei cittadini in vista del momento formale finale della designazione del vincitore. Anche nel caso del Pd, il problema principale consiste nell’adeguare le procedure interne di organizzazione della partecipazione alle trasformazioni tumultuose dei circuiti comunicativi. La crisi drammatica che ha portato il Pd sull’orlo dell’autoscioglimento nasce proprio dalla incapacità a far funzionare la propria base – iscritti, attivisti, elettori – come elemento propulsivo di un rapporto dinamico con le istanze sociali di cambiamento. Le primarie, da sole, non possono certo supplire a questo ritardo. Ma il notevole successo di questa esperienza con l’elezione di Elly Schlein – in termini di impatto mediatico, di nuovi iscritti, di primi riscontri positivi nei sondaggi – conferma che le primarie possono svolgere un ruolo molto importante nel riattivare la partecipazione alla vita del partito.

 

 

Seconda domanda. L’obiettivo di e stendere ai non iscritti la partecipazione alla scelta, non finisce per rendere la partecipazione degli iscritti/attivisti praticamente una formalità, sminuendone di fatto il valore?

FLORIDIA: Appunto! Un partito è un’associazione volontaria che non può non avere dei confini organizzativi, ossia una linea di distinzione tra il “dentro” e il “fuori”, e non può non offrire una serie di incentivi che possono motivare l’adesione al partito. Nel caso del Pd è emersa sempre più una domanda radicale: perché mai un cittadino dovrebbe iscriversi se le regole, per il momento cruciale della vita di un partito, l’elezione del segretario, affidano gli stessi poteri ad una platea mutevole e indistinta di elettori, che in gran parte non hanno alcun legame organizzativo con il partito stesso? I dati mostrano come, nel corso dei quindici anni di vita del Pd, questo effetto “disincentivante” abbia contribuito, non da solo certo, ma in modo decisivo, a produrre un continuo calo del numero degli iscritti, dai circa 800 mila del 2008-2009 ai (forse: dato incerto) circa 200 mila attuali. È evidente che questo fenomeno di progressivo collasso nasce dalla svalutazione delle prerogative degli iscritti, quelle legate all’elezione del segretario, ma anche da molti altri aspetti, in particolare l’assenza di luoghi e momenti di partecipazione e di elaborazione collettiva della “politica” e delle “politiche” del partito. Alla lunga ha funzionato una sorta di “legge di Gresham” (“la moneta cattiva scaccia quella buona”), ovvero una “selezione avversa” nel profilo stesso degli iscritti, con il progressivo venir meno di adesioni motivate da ragioni politiche generali e la crescita invece di motivazioni “strumentali” o dettate dall’appartenenza a qualche filiale di potere locale.

E allora, è davvero singolare che solo ora, di fronte all’esito sorprendente delle primarie, si sollevi scandalo perché gli “iscritti” sarebbero stati “sconfessati”, profetizzando chissà quali sconquassi: piuttosto, si dovrebbe provare a dare un’interpretazione politica di quanto accaduto. A mio parere abbiamo visto all’opera una legge del contrappasso: molti attuali elettori (e, soprattutto, ex-iscritti ed ex-elettori del PD: ce ne sono molti in giro per l’Italia! Ricordiamolo: da oltre 12 milioni di voti al Pd nel 2008, ai 5 milioni e 300 mila del 25 settembre) hanno preso alla lettera la logica delle primarie aperte e hanno prodotto un’ondata di opinione che ha travolto i vecchi confini. Si è attivata, per così dire, un’intensa “circolazione extra-corporea”. Visto che era possibile, si sono detti, perché non cogliere questa occasione? Perché non puntare su una candidatura innovativa?

Naturalmente, ora inizia il difficile. E uno dei primi compiti della nuova segretaria sarà proprio quello di avviare una riforma del partito. È difficile, oggi, e sarebbe anche sbagliato, proporre una sorta di rapida riconversione, che restituisca immediatamente pieni poteri agli attuali iscritti: dovrà essere un processo di “riconversione” graduale, che cominci innanzi tutto con il tornare a dare un senso politico all’adesione e alla partecipazione alla vita del partito. Per restare nella metafora medica: dopo la terapia d’urto della “circolazione extra-corporea”, occorre un lungo lavoro di trasfusione di sani e robusti fattori ricostituenti.

Il vero nodo critico consiste ora nella creazione di un modello di democrazia interna propriamente definibile come rappresentativa e deliberativa, che consenta la formazione di vere, e distinte aree di cultura politica, “sganciando” l’elezione degli organismi dirigenti dalla dipendenza plebiscitaria dai voti ai candidati-segretario, come oggi accade (la vera fonte che alimenta, strutturalmente, il correntismo). È un aspetto cruciale: se il Pd vuole evitare diaspore e spinte centrifughe, se vuole “tenere insieme” le sue molte anime, deve cambiare profondamente l’intero circuito della discussione-partecipazione-decisione. Per concludere, con una battuta: si voleva un “partito contendibile”? Eccovi serviti: partito “conteso” e… scappato di mano. Personalmente, ritengo che le “primarie “aperte” siano, e siano state per il Pd, un fattore di indebolimento strutturale. Ma trovo bizzarro che, dopo anni e anni in cui è stata proclamata e teorizzata l’obsolescenza del partito “novecentesco” (fatto di tessere, iscritti, sezioni, militanti, feste popolari, ecc.), oggi, di fronte alla brillante operazione “Occupy Pd” di Elly Schlein, si scopra che, in tal modo, la segretaria si troverebbe in grave affanno perché avrà il “partito contro”!

 

VASSALLO: Al momento della fondazione il Pd ha deciso di essere un partito aperto, basato su due livelli di adesione. La platea degli iscritti seleziona le alternative, la platea degli iscritti e degli elettori insieme scelgono il leader e la linea politica. Ciclicamente questa logica viene messa in dubbio da chi teme di esserne penalizzato. Finora l’argomento della svalutazione degli iscritti è stato posto prevalentemente dalle componenti della “sinistra radicale” interna che considerava la platea degli elettori tendenzialmente più favorevole alla “sinistra liberale”. Ora le parti si sono invertite. Mio modesto parere. Invece di continuare a discutere di questo problema, chi ha perso si chieda perché, garantisca lealtà a chi ha vinto e deve esercitare la leadership, si prepari a presentare una proposta e una candidatura alternativa tra quattro anni, al temine statutariamente previsto del mandato. Così funziona la democrazia. Soprattutto in un partito che ha scelto, anche attraverso le “primarie”, di avere leadership forti e contendibili.

 

URBINATI: In parte ho già risposto. Vorrei solo ribadire che la democrazia dei partiti (per me la sola forma possibile di democrazia rappresentativa) ha bisogno di partiti, e questi si rivitalizzano dando ai militanti potere e agli organi dirigenti effettiva funzione deliberativa. Chi si iscrive a un partito rinuncia di fatto ad un diritto, quello della segretezza del voto; in cambio deve poter avere un potere dentro il partito. Quindi, non solo la diarchia militanti-elettori deve essere superata (tra le altre cose, essa toglie valore ai militanti rendendo la loro voce nulla o depotenziata, anche qualora sia in accordo con quella degli elettori), ma deve essere ridisegnata la struttura organizzativa del partito, la cui base deve essere parte in gioco e legata al vertice. Attualmente, con i circoli che vengono spolverati solo per le primarie e che non hanno funzione alcuna se non il parlare senza potere, resta nei fatti solo il/la segretario/a e i suoi fedeli. Difficile diventa anche la gestione del partito da parte del /la segretario/a perché alla sua forza dei voti esterni non corrisponde un certo sostegno interno, che è invece quel che più conta una volta che l’elezione è avvenuta. Il paradosso di un leader plebiscitario è di essere poco potente con le parti interne, con le correnti e i loro capi. Insomma, alla forza del numero non corrisponde la forza politica. Lo statuto del PD dimostra per contrario un bene fondamentale: la democrazia diretta (il plebiscito) non è nell’interesse della partecipazione effettiva (decisionale non solo discorsiva) degli iscritti.

 

IGNAZI: In effetti, quella apertura dipendeva proprio dall’ottica richiamata sopra, quella della disarticolazione della struttura organizzativa del partito. A questa vanno aggiunte alcune contingenze storiche: la necessaria legittimazione del candidato del centro-sinistra senza partito, Romano Prodi, e il successo clamoroso della mobilitazione del 2005. Soprattutto quest’ultimo evento ha creato il “mito” delle primarie parte in cui tutti potevano andare a scegliere il candidato premier. La trasposizione di questa pratica anche per la scelta delle cariche interne ha avuto l’inevitabile, ovvio, effetto di smobilitare la membership. L’incentivo all’iscrizione è stato sminuito. Se non si offrono altri incentivi agli iscritti il loro declino è destinato ad aumentare.

 

CALISE: La figura dell’iscritto occupa ormai da decenni un ruolo marginale nella vita dei partiti politici. In tutte le democrazie occidentali questa figura è in declino verticale sul piano quantitativo e, forse, ancor più su quello dei contenuti e della qualità del proprio ruolo. Tutte le ricerche empiriche mostrano come la partecipazione effettiva degli iscritti riguardi ormai una ristretta minoranza e si riduca a pochi appuntamenti formali. I partiti funzionano soprattutto come strutture di occupazione di cariche istituzionali – il party in public office di cui parlano gli studi di Katz e Mair – mentre si sono enormemente indebolite le funzioni di selezione e rappresentanza degli interessi svolte storicamente dal party on the ground. È ormai un dato accertato che il valore della partecipazione degli iscritti sia – sul piano delle decisioni sostanziali – del tutto irrilevante.

In questa luce, le primarie possono rappresentare un circuito di rivitalizzazione della partecipazione popolare, a condizione che contribuiscano a innescare un più ampio processo di riorganizzazione della macchina di partito. A partire dall’utilizzo del digitale come canale privilegiato di espressione delle opinioni. Come mostrano gli studi di Marco Valbruzzi sull’esperienza dei democratici americani, le due campagne elettorali di Obama e, da ultimo, quella di Joe Biden sono riuscite a contrastare la propaganda repubblicana solo grazie all’alta professionalizzazione della gestione digitale della macchina del consenso democratica. È augurabile che anche il rinnovamento del Pd possa, sull’abbrivio delle primarie, muoversi in questa direzione.

 

Antonio Floridia, dirigente della Regione Toscana, responsabile dei settori «Osservatorio elettorale» e «Politiche per la partecipazione»; è autore del libro PD. Un partito da rifare? Le ragioni di una crisi, Castelvecchi, 2022.

Salvatore Vassallo, insegna Politica comparata e Analisi dell’opinione pubblica nell’Università di Bologna; è direttore dell’Istituto Cattaneo, ha di recente pubblicato, con Rinaldo Vignati, Fratelli di Giorgia. Il Partito della destra nazional conservatrice,  Il Mulino, 2023.

Nadia Urbinati, insegna Scienze politiche alla Columbia University di New York; tra i numerosi libri ha pubblicato di recente Pochi contro molti. Il conflitto politico nel XXI secolo, Laterza, 2020.

Piero Ignazi, professore di Politica comparata presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Bologna, tra le numerose pubblicazioni ha pubblicato qualche anno fa Partito e democrazia. L’incerto percorso della legittimazione dei partiti, Il Mulino, 2019.

Mauro Calise, Professore Emerito di Scienza Politica, Università Federico II (Napoli); Past-President, Società Italiana di Scienza Politica, ha pubblicato qualche anno fa La Democrazia del Leader, Laterza, 2016, e con Theodore J. Lowi, Hyperpolitics An Interactive Dictionary of Political Science Concepts.

 

 

 

  • Vittorio Sammarco

    Giornalista pubblicista, docente di Comunicazione politica e Opinione Pubblica, Università Pontificia Salesiana.