C’era una volta la politica, parla l’ultimo democristiano (edito da Piemme),  è il titolo del libro nel quale Pier Ferdinando Casini ha narrato quarant’anni e più della sua vita politico-parlamentare. Già merita sostare sul titolo. Esso palesemente adombra due tesi: la prima è che un tempo disponevamo di una politica maiuscola e ora non più; la seconda è l’orgogliosa rappresentazione, solo lievemente dissimulata da autoironia, di sé stesso come democristiano di rango. Per promuovere il libro Casini non si è risparmiato un ossessivo presenzialismo nei media nazionali (tv, giornali, social) e in solenni, pubbliche presentazioni raccogliendo il tributo unanime dell’intero establishment politico, economico, ecclesiastico. Non c’è da sorprendersi: basti rammentare che meno di un anno fa Casini ha mancato di un soffio l’elezione al Quirinale che lo avrebbe fatto assurgere a politico a tal punto esemplare da meritare la più alta carica della Repubblica.

Un’autocelebrazione, quella consegnata nel libro, cui è seguita la celebrazione del suo autore-protagonista che, a mio avviso, si configurano come un “segno dei tempi”. Mi spiego: è come la risacca della stagione dell’antipolitica e del populismo, il rinculo della polemica corriva contro la casta, la sconfessione del mantra della rottamazione. Solo così si può spiegare sia l’acritico, generoso consenso del mondo politico e non, sia la generale indulgenza della vasta opinione pubblica (quella che segue distrattamente la politica) verso un politico sornione e piacione la cui biografia politica è tutt’altro che esemplare. Solo qualche cenno per fare memoria. Penso al suo esordio al seguito dei dorotei Bisaglia e Forlani, di sicuro non il meglio della ricca e complessa storia democristiana; penso alla sua adesione al pentapartito e al Caf (Craxi-Andreotti-Forlani) che segnò l’irreversibile declino della Dc; penso al connubio con Mastella, alla prontezza e alla disinvoltura con cui i due mollarono Martinazzoli per saltare sul carro del Berlusconi potente e vincente; penso alla lunga stagione a rimorchio del Cavaliere (dal 1994 al 2008); penso alla sua presidenza della Camera non esattamente equanime come ce la racconta (ho un preciso ricordo personale: da quello scranno non mosse un dito per arginare le Commissioni parlamentati Telekom Serbia e Mitrokhin che per lunghi mesi vomitarono comprovate calunnie su Prodi, Andreatta e altri esponenti del centrosinistra di allora generando titoli a nove colonne sui giornali della destra berlusconiana); penso alle parole di stima e di solidarietà da lui riservate a Dell’Utri e Cuffaro, l’uomo forte del suo partito in Sicilia; penso allo studiato candore con cui una vecchia lenza come il Nostro rappresenta l’universo politico da lui frequentato – da Andreotti a Berlusconi – come fosse abitato per intero e senza eccezioni da galantuomini di cui egli si professa amicone.

Circa il rapporto con il Cavaliere si devono fare tre osservazioni. La prima: oggi Casini oppone la politica all’antipolitica e al populismo e distingue tra il centro-destra a tre punte di ieri (lui con B. e con Fini) e la destra-centro di oggi. Ma chi è stato in Italia il primo, più potente ed esponenziale inventore del populismo se non Berlusconi? Davvero possiamo essere così immemori da prendere per buona la leggenda del Cavaliere un tempo moderato, liberale, europeista, cristiano? La seconda osservazione: nel libro, Casini ostenta con orgoglio il suo smarcamento da Berlusconi nel 2008, allorquando – egli nota – l’uomo di Arcore era ancora in auge. Una ricostruzione approssimativa e di parte. Le cose furono più complesse. In quel frangente, Berlusconi era effettivamente così potente (come confermarono le elezioni) da potersi permettere di sbarcare Casini. La rottura fu quantomeno bilaterale. Girò persino la voce che a spendersi per convincere il Cavaliere a riprendersi Casini si mobilitò addirittura il cardinale Ruini, notoriamente sollecito per le sorti del centrodestra. Terzo: solo un paio di anni prima Casini sconfessò e scaricò Follini, al tempo segretario della sua Udc, che aveva rotto con Berlusconi, si era dimesso da vicepremier e aveva contestato Porcellum. Salvo poi, tardivamente e ambiguamente, seguirne le orme e, più avanti, passare lui stesso all’atro campo.

Chi mi legge potrebbe accusarmi di accanimento polemico personale. Non è così. Lo ammetto: il protagonista è un simpatico gigione. Tra le sue massime: “non prendersi troppo sul serio”. Massima saggia, se egli non tramettesse anche l’idea di ispirarsi a una massima non esattamente coincidente: quella di non prendere le cose sul serio e anche di prenderci tutti in giro. Ma, al di là del dato soggettivo, vi sono tre ragioni oggettive di peso per ragionare criticamente sul caso. La prima: che si possa confondere la cultura/tradizione alta della mediazione di scuola montiniano-morotea e lazzatiana con la sua degenerazione “dorotea” nell’opportunismo e nel trasformismo. La seconda: che la rappresentazione di Casini quale figura esemplare del paradigma e della vicenda democristiani conduca, in sede di giudizio storico, a sminuirne la pur controversa grandezza e complessità. Una vicenda intessuta di luci e di ombre che trascende decisamente la figura di Casini. Al quale – lo si può dire? – non s’ha da dare tanta importanza. La terza: giusto mettere a verbale che non sempre e non tutto il professionismo politico va disprezzato, che contano esperienza e competenza (per inciso: quale nel caso di Casini?), senza tuttavia esagerare. In quarantuno anni di vita parlamentare, non si ricorda una sola legge suscettibile di essere a lui ascritta. In queste ore abbiamo letto del passo indietro della premier neozelandese in carica, della schiettezza con la quale ha confessato di essere sfibrata dalla politica e del suo umanissimo desiderio di riprendere una vita normale. Non si pretende tanto e tuttavia non sarebbe male una giusta misura, la consapevolezza che, come recita il Qoelet, c’è un tempo (e un limite) per ogni cosa. E’ demodé pensare che la buona politica sortisca più facilmente da persone non imbullonate a un seggio e comunque non disposte a troppe giravolte pur di sopravvivere politicamente oltre ogni ragionevole limite? Sino a non farsi scrupolo di infliggere di nuovo ai poveri elettori del PD, che già non se la passa bene, il rospo della candidatura nelle sue liste di Bologna. Già al suo penultimo giro, nel 2018, fu Renzi a elargirgli la candidatura in quota PD per ripagarlo della vaselina sparsa sulla Commissione banche da lui presieduta insediata a ridosso delle elezioni e notoriamente insidiosa per il Giglio magico. Casini, in buona salute, ancora politicamente vive, il PD non si sa.

In breve, sarebbe bene evitare che la lezione che Casini ci vuole impartire con il suo libro si risolva nel suo contrario. Esagerare nell’arte di navigare nel mare della politica e tra le sigle di partito con un misto di ostinazione e di scanzonata disinvoltura alimenta semmai l’antipolitica e il populismo da lui deprecati ma sempre in agguato.

  • Franco Monaco

    Pubblicista, già presidente dell’associazione «Città dell’uomo» e parlamentare della Repubblica; fa parte del gruppo di coordinamento della rivista web Appunti di cultura e politica.