Pubblichiamo la seconda parte dell’intervista al professor G.M Flick. È possibile leggere qui la prima parte.
Altro tema centrale è la riforma del nostro sistema giudiziario, che sembra sempre in discussione, nonostante le leggi recentemente approvate. Cosa ne pensa?
Non intendo e non ho la legittimazione per esprimere giudizi su coloro che sono stati miei successori nella carica di ministro. Ma riconosco ad esempio alla professoressa Cartabia (anche se forse non c’è riuscita in toto…) il tentativo di ridimensionare la pretesa di una certa magistratura di essere essa soltanto l’arbitro delle decisioni sul se e su quali riforme adottare. Lo dico anche alla luce della mia esperienza di ministro di venticinque anni fa, nella quale ho avuto più problemi dal cosiddetto “fuoco amico” della magistratura che da quello degli avversari politici. Francamente l’idea di una magistratura che si arroga il diritto di giudicare e vagliare i progetti di riforma che la riguardano, non mi piace.
Diverso è il discorso su interventi di tipo radicale. Essi richiedono una modifica costituzionale, che comunque si può fare rispettando i principi fondamentali e costruendo una coesione che superi gli attuali e ben noti contrasti di ordine politico… Penso, ad esempio, ad un Presidente della Repubblica che quale effettivo presidente del Csm nomini lui il vicepresidente. Penso che potrebbe non essere sbagliata l’istituzione di una Corte di Giustizia che si dedicasse ai procedimenti disciplinari e al controllo, sempre in senso disciplinare, dell’attività dei magistrati, che ora sono di competenza di una sezione specifica del Consiglio superiore della magistratura.
O ancora penso ai problemi che nascono dalla separazione delle carriere tra inquirenti e giudicanti; mi pare sia diventata più una questione di principio ed emblematica che una esigenza urgente e concreta. Si tratta di scegliere se sia preferibile un maggior controllo dell’attività dei P.M. con il rispetto dei termini e dei limiti nell’utilizzo della custodia cautelare e degli strumenti di investigazione, tra cui in particolare quelli lesivi del diritto di comunicare e della privacy anche di chi sia estraneo alla vicenda oggetto di indagine; oppure se sia meglio una totale, vera e propria separazione delle carriere. Penso infine alla obbligatorietà costituzionale della azione penale: è una garanzia teorica di eguaglianza che però in concreto e di fatto finisce per risolversi in scelte discrezionali e incontrollate dei P.M. Le soluzioni proposte di fronte a questi ultimi problemi presentano tutte dei vantaggi e degli svantaggi e comunque richiedono tempo e modifiche costituzionali.
Il discorso più urgente ora è quello di fare funzionare la giustizia, perché l’albero della giustizia da noi non riesce a produrre due frutti fondamentali: quello della ragionevole durata dei processi (si pensi alla prescrizione); e quello della ragionevole prevedibilità dell’esito del processo stesso: ossia la certezza della legge.
Stiamo vivendo un periodo profondo di crisi, con un diritto che nasce più sulla base delle sentenze e della pluralità delle loro fonti in sede nazionale ed europea, che sulla base della legge, della norma e sulla sua interpretazione, anziché sulla sua “creazione” per il caso concreto. Adesso, più che esprimere giudizi sulle riforme più “impegnative”, è il caso di verificare se funzionano quelle poche riforme tecniche (alcune importanti, sia chiaro) che si è cercato di introdurre da poco nel dialogo sempre acceso tra magistratura e avvocatura.
A questo proposito mi sembra che la politica abbia da un lato utilizzato e strumentalizzato il problema della riforma della magistratura con le posizioni contrapposte dei partiti; ma poi dall’altro abbia lasciato che questa riforma si snodasse attraverso un confronto tecnico tra magistratura ed avvocatura. Si tratta di scelte di fondo che non riguardano solo gli addetti ai lavori, ma richiedono una scelta politica che a me sembra non si sia voluta formulare e riemerge ora in termini di contrapposizione radicale.
In questo momento si tratta prima di verificare come funzioneranno i piccoli e medi rimedi adottati nella recente riforma dei processi, e vedere se e che cosa bisogna adeguare… Non me la sento di entrare nel tecnicismo con un giudizio positivo o negativo fin quando non si vedrà come funzionerà questo assetto.
E poi ci sono altri problemi seri che riguardano la sfera dell’amministrazione della giustizia…
Sì, c’è un problema di fondo che va affrontato subito. È il carcere e il problema dell’esecuzione della pena, o della ricerca di altre pene, che in parte è stato coltivato dalla recente riforma. Sono convinto che il cosiddetto ergastolo ostativo (come è stato dichiarato dalla Corte) sia incostituzionale, salvo l’adozione di prescrizioni particolarmente rigorose per provare l’effettivo ravvedimento della persona che chiede di essere ammessa alla libertà condizionale per porre un termine all’ergastolo. Bisogna che queste condizioni siano molto serie e guardino anche alle caratteristiche e alla gravità dei delitti commessi, soprattutto nella criminalità organizzata; ma bisogna anche che esse non siano impossibili da provare.
Credo anche che il modo in cui di fatto si applica la pena, con il sovraffollamento delle carceri (e la Corte CEDU ci ha condannato due volte…) sia inaccettabile. Le pene devono rispettare il senso di umanità e devono tendere alla rieducazione. Siamo lontani dall’attuazione del primo aspetto. Forse qualcosa si è fatto per la tendenza della rieducazione. Ma anche qui dobbiamo resistere ad un populismo esasperato che vede nel diritto penale l’unico strumento di controllo delle devianze e delle diversità, con tutti i problemi che ne nascono; e che vede nel carcere – troppo spesso minacciato e poi non applicato, se non in condizioni di fatto inaccettabili – l’unica soluzione. Non ha prodotto grandi risultati, anzi…
Ci tengo a sottolineare: il carcere può rimanere la necessità per situazioni veramente di extrema ratio, per (ad esempio) un soggetto pericoloso, aggressivo; ma la privazione della libertà come pena per riportare la persona nella società in libertà è una contraddizione in termini. Il Dna della condizione umana è caratterizzato da tre componenti: a) le relazioni con gli altri; b) la dimensione dello spazio in cui si vive; c) la dimensione temporale, la collocazione della persona tra passato, presente e futuro.
Noi stiamo perdendo completamente da un lato il discorso delle relazioni con gli altri (ora è più pratico il contatto on line, evita il contagio della pandemia; costa meno; è più facile e più sicuro…). Questo mi preoccupa molto già in generale (penso alla scuola); poi nella detenzione si priva il detenuto di quasi tutte le relazioni possibili, comprese quelle importanti (partner, genitori, figli…); ma lo si priva anche di uno spazio reale (i pochi metri della cella) in cui si discute perfino se i servizi igienici facciano parte dei metri quadrati regolamentari.
Lo stesso discorso vale per la dimensione del tempo: la percentuale pazzesca di suicidi che abbiamo in questi tempi tra i detenuti e quella tra gli agenti di custodia mi fanno pensare che la preoccupazione principale sia la perdita di speranza nel futuro. A questo proposito mi sembra essenziale che il problema del carcere entri nella cultura e che quest’ultima entri in carcere (con buona pace della cancel culture e dei suoi estremi), anche in vista di una via oggi in discussione: la giustizia “riparativa” anziché quella soltanto “retributiva” e in realtà di fatto “vendicativa” in gran parte (“male per male”).
Infine, la riforma della Pubblica Amministrazione: se ne parla poco e “a strappi” ma cosa si può e si deve fare realmente.
Non lo chieda a me che non sono esperto in materia… Io potrei parlare specificamente di alcune conseguenze. Esempio: abbiamo una norma, l’“abuso d’ufficio”, che prima o poi andrà modificata (è un tema di cui si sta spesso discutendo da 30 anni con cinque tentativi di riforma). Non è possibile puntare sul diritto penale, che tra l’altro richiede particolari requisiti di tassatività di garanzia e quindi di conoscenza previa della legge, (non della certezza, ma della ragionevole prevedibilità di come la legge verrà interpretata). Non credo sia possibile utilizzare ancora locuzioni generiche, non tassative che vanno contro il principio costituzionale della riserva di legge.
Il problema di fondo è che non si può affidare ad una “norma-contenitore” la possibilità, in qualsiasi momento e in qualsiasi situazione di intervenire per un sindacato sull’attività amministrativa che può risolversi (ad esempio) in un controllo indebito sulla discrezionalità delle scelte amministrative. Non si può affidare al giudice penale ex post il controllo sulla efficienza della pubblica amministrazione, fermo restando che un esercizio perverso e patologico della discrezionalità ben può provocare un reato.
Il tema della riforma della PA è un tema cruciale di cui si continua a parlare. Mi auguro che la ventata di digitalizzazione apra la via alla riforma. Anche se ho qualche perplessità… Il mio timore è che si finisca, anche in tema di giustizia, a parlare di una digitalizzazione che però, a parte qualche lodevole iniziativa, non è stata ancora attuata. Temo che si possa arrivare ad una sorta di giustizia predittiva (di tipo robotico): la giustizia “del precedente” fondata sugli algoritmi.
E qui aggiungo una più ampia riflessione. Noi siamo arrivati a capire i rischi che nascono dalla patologia del rapporto tra persona e natura anche se non facciamo comunque nulla o facciamo poco per evitarli attraverso il progresso tecnico. Di fronte allo sfruttamento delle risorse naturali fino al parossismo, la saggezza della Bibbia insegna che può esservi un secondo “diluvio universale” (si pensi alla protezione del suolo; di essa viviamo la tragicità in questi mesi). Abbiamo cominciato solo ora a capire fino in fondo la pericolosità di questo rapporto “perverso”.
Invece ho l’impressione che – nell’euforia per i vantaggi e le potenzialità dell’informatica e della digitalizzazione – non capiamo molto o stiamo sottovalutando troppo i rischi che apre la tematica dello sviluppo sempre più esorbitante, rapido e incessante, della società digitale. E noto anche che alcuni miti del digitale cominciano ad entrare in crisi come altri della globalizzazione.
Penso ancora alla saggezza della Bibbia quando ci ricorda la vicenda del vitello d’oro che non servì agli ebrei nella lunga marcia verso la terra promessa. In certo senso lo paragono “all’algoritmo d’oro” che è oggi dominante; soprattutto è legato a profili di profitto e di potere di chi è in grado di gestirlo. È un rischio per il nostro futuro, per la conservazione della nostra identità umana. Il linguaggio “unico”, tra uomo e macchina, tra macchina e macchina oltre che tra uomo e uomo, mi ricorda un po’ la storia della Torre di Babele e di come allora si concluse l’ambizione degli uomini. Vorrei allora che acquisissimo una sempre maggior consapevolezza dei rischi che stiamo vivendo con l‘affermazione della “civiltà delle macchine”. La civiltà è sempre e solo un fatto “umano”. Ho paura che altrimenti si finisca per dimenticare la differenza fra strumenti, risorse e valori, principi: si mitizzino gli strumenti invece di ricercare e difendere i valori dell’identità umana.
Crediti foto:
Pietro, CC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons