[Prima parte]

Ha di recente sottolineato con forza che la questione morale non si può ridurre alla “responsabilità del singolo”, ma deve passare attraverso la mediazione della questione sociale e di quella politica.
Allargano gli orizzonti le idee del prof Giovanni Maria Flick (magistrato, presidente della Corte costituzionale, ministro di Giustizia nel primo governo Prodi, ora professore emerito di diritto penale). Idee che vanno oltre i casi dell’attualità, e si inquadrano in una visione alta dell’uomo e della società: «Il problema della corruzione – (scrive su La Stampa del 28 dicembre 2022) – va affrontato prima di tutto a livello di cultura; di legalità sostanziale; di consapevolezza che il proprio interesse individuale non può prevalere sull’interesse di tutti; di riconoscere che quest’ultimo non può essere ‘comprato’ per sacrificarlo al proprio egoismo».
Lo abbiamo intervistato spaziando da temi di attualità politica, a quelli che richiamano una difesa della Costituzione, che non si opponga in maniera preconcetta ad alcune necessarie riforme, ma che la rendano più adeguate e ricca per i tempi che viviamo.

Professore, partiamo dalla questione generale: fino a che punto c’è la necessità di adeguare la nostra Costituzione alle trasformazioni in atto?

Credo che ci sia sempre la necessità di tener conto della evoluzione generale della situazione. Ad esempio, recentemente è stato modificato l’articolo 9 della Costituzione, una delle norme fondamentali che tutela lo sviluppo della cultura come strumento importante per comprendere e tutelare il passato, il patrimonio storico-culturale del Paese, e il futuro. Quest’ultimo è stato richiamato in un primo momento dalla Costituzione con il paesaggio (inteso come l’ambiente che ci circonda), cui si è aggiunto con una recente riforma il riferimento esplicito all’ambiente, all’ecosistema, alla biodiversità, agli interessi delle generazioni future. Questa è stata una forma di adeguamento che può essere necessaria per tenere il passo, anche alla luce dell’enorme progresso tecnologico che stiamo registrando e dello sforzo compiuto dalla giurisprudenza costituzionale e ordinaria e dalla dottrina per “migliorare” e adeguare il testo della Costituzione alla realtà, attraverso la sua interpretazione.
Ciò non toglie che i principi fondamentali, e direi anche l’impalcatura istituzionale della Costituzione, non mi pare richiedano drastiche riforme. Ci hanno consentito di condividere in libertà settantacinque difficili anni; con qualche ritocco credo potranno aiutare a convivere anche nei prossimi settantacinque.

E invece, dal dibattito, si percepisce una certa superficialità nel considerare ruoli, funzioni e compiti dei soggetti predisposti ad attuare queste riforme. Le sembra così?

Non c’è dubbio. Mi preoccupa il fatto che c’è l’abitudine a utilizzare la Costituzione e le proposte di suo cambiamento come strumenti per le “politiche della quotidianità”: cioè per affrontare problemi specifici, come ad esempio appoggi di maggioranza o di minoranza da una parte o dall’altra e via discorrendo. Il tema della modifica della Costituzione va affrontato con ponderazione e con il metodo che la stessa Costituzione ha indicato per le sue modifiche: la “doppia lettura” da parte delle due Camere; la maggioranza qualificata e l’eventuale referendum di approvazione popolare; il tempo dell’iter di approvazione delle modifiche; soprattutto il rispetto dei suoi “principi fondamentali”. La Costituzione non è immutabile, ma una cosa è adeguarla; un’altra sono i cambiamenti radicali e traumatici che spesso non risolvono i problemi ma li complicano.

Entriamo nel merito. Due sono i principali temi su cui si discute: l’autonomia regionale e il presidenzialismo. Quali sono secondo lei gli aspetti di cui tenere in maggior conto?

La Costituzione prevede le Regioni a statuto speciale, con delle peculiarità legate al periodo storico nel quale erano state create (fine della guerra perduta, confini, e altre…). L’“infelice” riforma del titolo V nel 2001 è stata condotta in fretta e furia, a fine legislatura, con un minimo di voti di maggioranza per allontanare lo spettro della secessione. Ha lasciato parecchi problemi da risolvere anche perché non può essere questo lo spirito per affrontare una riforma così importante.
Per esempio, è mancata una legge di attuazione di quella riforma, sostituita dall’intervento della Corte costituzionale. La riforma adesso proposta esalta molto la via che venne introdotta ne 2001, con la possibilità di chiedere il riconoscimento di ulteriori competenze legislative delle Regioni in grado di affrontarle. In sé può essere giusta, ma rischia di diventare una specie di grimaldello per affrontare il discorso di una vera secessione. Mi spiego meglio: il riconoscimento di ulteriore autonomia a singole regioni non può essere liquidato come una trattativa privata tra lo Stato e una singola regione, senza tener conto del quadro globale, che è affidato al controllo del Parlamento. Il Parlamento non si limita a scrivere le leggi, ma esercita anche una forma di controllo istituzionale e politico di carattere generale.
Il disegno dell’autonomia regionale di cui si parla è un progetto che delegittima il Parlamento di per sé già abbastanza delegittimato, ad esempio dalle modifiche che sono state introdotte nella sua composizione. La riduzione del numero dei parlamentari, condotta in fretta e furia – prima osteggiata dall’opposizione e da essa subordinata ad alcune condizioni; poi approvata per mantenere in piedi la maggioranza senza adempiere a queste ultime – ha provocato più problemi di quelli che intendeva risolvere, anche perché era motivata da un’affermazione di risparmio di spesa di carattere populista.

In tutto ciò non crede che l’opinione pubblica dei cittadini abbia assecondato questo percorso di delegittimazione senza allarmarsi?

L’opinione pubblica è abbastanza sfiduciata. Oltretutto è molto difficile percepire la complessità dei meccanismi, comprendere tutti i tecnicismi specifici con cui si cerca di risolvere le questioni di politica quotidiana e le acrobazie con cui si cerca di affrontare i problemi. Siamo abituati, purtroppo, a considerare la spirale anziché la linea retta come il legame più chiaro e più breve fra due punti.

Non è un rischio per la nostra democrazia?

Direi di andarci piano con il paventare rischi… Continuando a denunziare i rischi, si finisce come nella favola in cui il pastore grida sempre “al lupo al lupo” e poi la gente non accorre più quando il lupo arriva. Cioè quando i rischi si corrono veramente…
Il problema è un altro: l’aumento delle competenze legislative delle Regioni (di cui si sta parlando nella proposta attuale) non dovrebbe essere caratterizzato soltanto da un dialogo e da una valutazione a due tra Governo e singola regione che chiede; ma dovrebbe compiersi con il controllo del Parlamento. E dovrebbe essere concepito in linea di principio non per distanziare ulteriormente le Regioni che stanno meglio,
ma per far risalire quelle che stanno peggio.
Il criterio di fondo dovrebbe essere quello di verificare la concessione dell’autonomia con riferimento a quelle situazioni particolari e specifiche di un territorio che giustifichino una eventuale e ulteriore concessione di maggiore autonomia. Non dovrebbe invece arrivare ad una richiesta generica, indeterminata o massiva di tutte o quasi le competenze legislative che attualmente sono divise tra quelle di competenza esclusiva dello Stato e quelle concorrenti tra Stato e Regioni. Altrimenti c’è il rischio di aggravare anziché di eliminare la sperequazione.
In sostanza il riconoscimento delle nuove competenze regionali dovrebbe rispondere alle esigenze e alle peculiarità specifiche delle Regioni che le richiedano; dovrebbe aiutare chi è in difficoltà a risalire la china non a chi già sta bene per migliorare ulteriormente la propria posizione aumentando la distanza con chi sta peggio. Non dimentichiamoci che il problema di fondo, come dice l’art.5 della Costituzione, è quello di conciliare una esigenza di identità e quindi di struttura unitaria dello Stato con le esigenze di autonomia e di decentramento al fine di perseguire la pari dignità sociale e di garantire l’eguaglianza nei livelli essenziali
delle prestazioni concernenti diritti civili e sociali su tutto il territorio nazionale (art. 117). L’identità e la struttura unitaria dello Stato non possono venir meno ed essere vanificate dallo spezzettamento, dalla frammentazione e dalla attribuzione delle competenze in base ad un semplice richiesta (direi à la carte) delle singole regioni anziché in una logica globale e unitaria, anziché soltanto regionale. L’aumento delle competenze delle regioni dovrebbe essere più legato a favorire lo sviluppo delle regioni nelle loro peculiarità che non ad accentuare il distacco tra regioni ricche e regioni povere. In questo senso vedo con estrema perplessità l’affermazione – contro il principio costituzionale di solidarietà da cui nasce la nostra Carta – del criterio che ogni regione utilizza le entrate che raccoglie, perché alcune non sono in grado di raccogliere le risorse che servirebbero e quindi si richiede la necessità di un sistema
perequativo.

Altro tema il presidenzialismo…

Penso sia inutile parlarne ora e frettolosamente, prima di tutto perché ci sono versioni molto diverse di presidenzialismo. Il nostro sistema è calibrato su un’ipotesi di parlamentarismo. Con un famoso ordine del giorno che venne approvato dai costituenti si impegnava lo Stato a garantire la stabilità del governo. Si usciva da una esperienza dittatoriale e rispetto a un’accentuazione della posizione – diciamo così – “presidenzialista autoritaria” si preferì appoggiarsi molto alla rappresentanza parlamentare. Non c’è dubbio che quest’ultima è stata logorata da tutto quello che è capitato fino ad arrivare alla delegittimazione del Parlamento.
Ma avrei molta preoccupazione all’idea di una sorta di scambio politico fra il presidenzialismo e il potenziamento dell’autonomia delle Regioni. Sono due cose completamente diverse che non possono essere ricondotte all’idea del do ut des. Tanto più che il presidenzialismo richiede un’attenta revisione di tutti meccanismi di check and balance, cioè di quei meccanismi che equilibrano i poteri affinché ogni
potere sia controbilanciato da altri poteri, per impedire il prevalere dell’uno o dell’altro.
Avrei paura di un presidenzialismo nel quale scomparisse la figura di un Presidente che ha un compito essenziale di mediazione (in un ruolo di super partes) per gestire processi di unità che sono assolutamente necessari, e che evidentemente scomparirebbe se il Presidente non fosse una figura come delineata dalla nostra Costituzione, ma diventasse il protagonista della politica nazionale. Basti pensare al problema del nuovo rapporto da definire tra Presidente della Repubblica e Presidente del Consiglio. Basti pensare al fatto che il Presidente è anche Presidente del Consiglio superiore della Magistratura. Un sistema presidenzialista sposterebbe notevolmente questi profili, perché non consentirebbe al Presidente di rivestire una posizione, oggi fondamentale e “positiva”, di imparzialità e terzietà, più che una posizione “negativa” di neutralità.

[La seconda parte dell’intervista sarà pubblicata nei prossimi giorni.]

Crediti foto:
Pietro, CC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons

  • Vittorio Sammarco

    Giornalista pubblicista, docente di Comunicazione politica e Opinione Pubblica, Università Pontificia Salesiana.