In Israele si discute della politica del governo
L’opposizione a Netanyahu e al suo governo, all’indomani della rottura della tregua raggiunta con Hamas e della devastante escalation militare che ne è seguita, ha conosciuto un significativo sviluppo: non solo la denuncia delle minacce portate alla democrazia e alla indipendenza della magistratura, nonché la contrarietà al disegno di privilegiare i cittadini ebrei, di rafforzare l’influenza religiosa nella vita pubblica, non solo la mobilitazione per restituire alla libertà gli ostaggi prigionieri dell’organizzazione terroristica, ma pure manifestazioni di rifiuto della guerra, perlopiù, quanto alla loro risonanza presso l’opinione pubblica internazionale, dovute a prestigiosi intellettuali, a singoli esponenti del milieu politico e talora dello stesso ambiente militare. Comunque, un indubbio salto di qualità, pur senza efficaci esiti, a difesa dello stesso Israele, della sua dignità e rispettabilità, del suo prestigio nel consesso internazionale, ormai ampiamente compromesso e persino irrecuperabile almeno nel breve o medio periodo. Anche un antidoto a fronte del risorgente antisemitismo, del quale la politica dell’attuale governo israeliano è pure essa certamente responsabile, alimentato come è da una conduzione scellerata dell’offensiva scatenata a Gaza al di fuori di ogni regola e di ogni principio umanitario.
In effetti Netanyahu, che in passato non ha contrastato Hamas allo scopo di dividere i palestinesi e al fine di contrapporlo a quelle componenti più propense ad accettare un possibile compromesso, ha ormai nettamente disvelato il suo vero obiettivo: porre fine alla questione palestinese, ricorrendo anche a mezzi estremi, quali ripetute stragi che vedono soccombere civili in un numero esorbitante, attacchi terroristici senza alcun riguardo ai cosiddetti “danni collaterali”. Alla base l’assunto che non c’è alcuna differenza tra Hamas e l’intera popolazione di Gaza. In sostanza l’ascrizione collettiva delle responsabilità del criminale attacco del 7 ottobre alla nazione palestinese da considerare nel suo insieme “popolo nemico”, la cui distruzione viene considerata necessaria così come, in subordine, la sua deportazione. Quanto in effetti ha sostenuto in più di un’occasione un alto esponente dell’esercito israeliano, il generale Giora Eiland, già consulente del ministro della difesa Yoav Gallant. Dunque, l’intera popolazione gazawi non solo colpevole di una estesa e capillare complicità, ma prolungamento diretto di un’organizzazione militare terroristica e pertanto da sottoporre ad un destino di morte collettiva e di annientamento, senza risparmiare persino neonati e bambini. Da qui attacchi indiscriminati, campi profughi colpiti da ordigni devastanti, ospedali e scuole ridotti in macerie, fame, sete, malattie come strumento di guerra. E la giustificazione di tutto ciò, dei crimini commessi, attraverso l’attribuzione ai gruppi armati di Hamas di aver trasformato l’intero popolo palestinese in un immenso scudo umano: un abisso di disumanità che consente agli ultraortodossi, agli estremisti della Destra israeliana di sostenere persino che è giusto uccidere i bambini palestinesi perché comunque da adulti diventerebbero terroristi.
Crimini di guerra, crimini contro l’umanità, genocidio?
A fronte dell’immane sproporzione che caratterizza la reazione di Israele in termini di vittime civili rispetto al devastante attacco subito da parte di Hamas, non c’è dubbio alcuno che si debba parlare tanto di crimini di guerra quanto di crimini contro l’umanità, due fattispecie riconducibili a violazioni punibili sulla base delle leggi e dei trattati internazionali. Nel primo caso il mancato rispetto delle norme e procedure di belligeranza, nonché delle prescrizioni sancite dalle Convenzioni di Ginevra quali il maltrattamento dei prigionieri e gli attacchi indiscriminati contro i civili; nel secondo caso azioni concernenti violenze perpetrate a danno dell’intera umanità, in quanto esercitate contro il diritto universale umanitario, comune per sua natura a tutti gli esseri umani, e tali da suscitare, a motivo della loro gravità ed abiezione, una ripulsa morale priva di qualsiasi attenuante: atti insomma estesi, sistematici, preordinati nel quadro di un disegno volto a produrre indiscriminate ed immani sofferenze. Un interrogativo a questo punto, ineludibile e di fatto ormai ricorrente, si impone. Nel caso dell’intervento israeliano a Gaza si può evocare anche il “crimine dei crimini” e cioè il genocidio, nella specifica accezione elaborata dal giurista ebreo polacco Raphael Lemkin nel 1944 e cioè un crimine connotato da denazionalizzazione, pulizia etnica e colonizzazione? Il dibattito in sede teorica è certamente aperto e può, come del resto sta avvenendo, richiamare considerazioni di natura giuridica, storiografica e sociopolitica quanto all’“intenzione di distruggere in tutto o in parte un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso”, così come fissato nella Convenzione sul genocidio che, entrata in vigore nel 1951 e adottata da 149 Stati parte, rientra nelle competenze della Corte penale internazionale dell’Aia.
Di grande interesse, dunque, risulta un recente saggio dovuto a Luigi Daniele, docente alla Nottingham Trent University. Lo studioso documenta come le più eminenti organizzazioni per i diritti umani, la quasi totalità di relatori e relatrici speciali dell’Onu, le maggiori autorità scientifiche mondiali, anche israeliane, ritengono che il crimine di genocidio sia stato effettivamente commesso e sia tuttora in corso. A sua volta la Corte internazionale di giustizia ha emanato – così lo studioso – “ben tre ordini consecutivi di misure cautelari contro violazioni della Convenzione sul genocidio, ritenute dunque triplicemente plausibili”. Valutazioni ben difficili da accettare da parte dell’opinione pubblica israeliana e delle comunità ebraiche della diaspora, già tra loro divise e in molte componenti istintivamente portate alla propria esclusiva vittimizzazione, anche perché agisce quella che gli studiosi definiscono la “olocaustizzazione della memoria”, ben al di là della strumentalizzazione della Shoah a fini di giustificazione.
Cosa fa la comunità internazionale?
Resta comunque che il nazionalismo della Destra israeliana, con i falchi che hanno monopolizzato il patriottismo in chiave identitaria a fini di supremazia politica da un lato, e dall’altro l’oltranzismo antisraeliano, ma anche antiebraico di Hamas, si alimentano vicendevolmente, sino a rendere il conflitto in corso uno fra quelli che la terminologia accademica definisce “intrattabili”, ovvero inconciliabili a motivo delle loro specifiche caratteristiche. E tra di esse, in primis, quella di essere incentrati su obiettivi ritenuti da ambo le parti non suscettibili di essere negoziati: vale a dire la reciproca distruzione. Un quadro terrificante che chiama in causa gli organismi internazionali, la loro inerzia, l’incapacità di sviluppare iniziative di neutralizzazione del conflitto, la stessa complicità con Netanyahu da parte di taluni governi occidentali, nonché l’indifferenza di quei paesi del Medio Oriente per i quali la questione palestinese costituisce un fastidioso ostacolo allo sviluppo di rapporti economici vantaggiosi.
Da parte sua l’Europa si mostra impotente e non è in grado di assumere iniziative concrete finalizzate a porre fine ad una tragedia immane come quella che si sta consumando. La recente messa in discussione del partenariato con Israele – una prima, tardiva, timida assunzione di responsabilità – che peraltro ha incontrato la contrarietà di alcuni Stati tra cui l’Italia, evidentemente preoccupata di entrare in rotta di collisione con Paesi tradizionalmente allineati alle scelte adottate dall’attuale leadership israeliana – un evidente segno di subalternità, di mancanza di autonomia – rischia di essere un inefficace palliativo, un semplice tentativo di ripulirsi la coscienza , se non accompagnata da concrete prese di posizione, di condanna e di rottura con la politica criminale dell’attuale governo israeliano.
Crediti foto: Emad El Byed su Unsplash