Nel definire gli Stati Uniti Shaytan-e Bozorg “il grande Satana”, Ruhollah Khomeini non intendeva solo demonizzare il Governo di Washington, ma scagliarsi contro il colonialismo e la preminenza politica – che diveniva oppressione dei popoli – delle potenze non solo europee: America, Gran Bretagna e Francia, ma anche Unione Sovietica e perfino la Cina, la quale rientrerà spesso nei sermoni di condanna dell’Ayatollah iraniano. L’appoggio iraniano alla lotta palestinese poggiava in parte su questa convinzione, sull’ideale romantico di indipendenza e di autodeterminazione, in parte sulla militanza anche violenta, sulla risolutezza dei Palestinesi nel combattere un’altra delle potenze egemoni, che per la propaganda del nuovo regime islamico iraniano incarnava il più bieco colonialismo: quella israeliana. Un ruolo significativo l’aveva sicuramente giocato il fatto che Israele era stato uno dei principali alleati dello Shah e quindi il discorso anti-israeliano, che si faceva anti-sionista, divenne una delle colonne portanti della narrativa rivoluzionaria di fine anni Settanta. Tuttavia, la simpatia per la lotta palestinese contro Israele era già ben radicata molto prima della rivoluzione in alcuni ambienti iraniani, soprattutto da un punto di vista ideologico-culturale. Tra i principali sostenitori della bontà di quella lotta v’erano gli Ayatollah Kashani e Taleqani, ‘Alī Shariati con il suo terzomondismo e tutta la sinistra iraniana, a partire dal suo partito delle masse, il Tudeh, con un classico approccio antimperialista. Ma fu con la rivoluzione iraniana che Yasser Arafat pensò che il momento propizio fosse giunto e che la sua organizzazione, l’OLP, potesse finalmente contare su un alleato forte e potente, che da principale alleato degli Stati Uniti nel Golfo era divenuto nell’arco di poco meno di un mese un nemico dello Stato ebraico e degli USA. Ruhollah Khomeini non ebbe mai un’eccessiva simpatia per Yasser Arafat. Nonostante una fotografia che diverrà iconica all’interno della compagine palestinese che ritraeva Arafat fianco a fianco di un Khomeini insolitamente sorridente, molte erano le differenze che opponevano le visioni dei due leader. E se nel settembre del 1979 Arafat fu il primo esponente politico di rilievo a far visita al nuovo regime, durante quell’incontro, all’entusiasmo del leader dell’OLP per la rivoluzione iraniana che aveva portato in quel paese, corrispondeva il duro monito dell’Ayatollah per far sì che la lotta di liberazione palestinese lasciasse la pura dimensione nazionalista per permearsi di contenuti religiosi. Secondo Khomeini solo così la Resistenza avrebbe aumentato le possibilità di vittoria, oltre a precludere una presa di potere da parte di tendenze marxiste e comuniste tra le loro fila. Quella che per Arafat sarebbe dovuta divenire un’alleanza indissolubile, si trasformerà in un rapporto travagliato, fatto di reciproche convenienze –  come sullo scacchiere libanese – ma anche di sospetti e diffidenza. Rimase tuttavia da parte iraniana la predilezione verso quel popolo che si batteva per liberare il lembo di terra conquistato da Israele. Fu a tal fine che il regime di Teheran si impegnò molto, assai più degli Stati arabi, a fornire assistenza economica e militare ai gruppi combattenti palestinesi, soprattutto ad Hamas, costola della Fratellanza Musulmana egiziana, fondato nel 1987 tra gli altri dallo Shaykh Yassin, divenuto per la retorica del regime iraniano, non solo un martire, caduto per mano dei “sionisti”, ma un eroe della liberazione di Al-Quds, cioè Gerusalemme, la Santa, e rientrato a pieno titolo nel Pantheon della Repubblica Islamica, accanto al Qassem Soleimani, comandante delle unità speciali dei Guardiani della Rivoluzione, il più potente e influente tra i generali, così come ben testimonia l’iconografia rivoluzionaria iraniana.

Oggi l’Iran si erge ancora a principale protettore dell’idea di riportare Gerusalemme sotto il controllo dell’Islam e lo ricorda al mondo intero ogni ultimo venerdì del mese di Ramadan quando, dal 1979, viene celebrato il giorno di Al-Quds, nel tentativo di unire la comunità musulmana a manifestare contro Israele e a mostrare sostegno in favore dei Palestinesi. L’Ayatollah considerava che l’idea della liberazione della Palestina potesse costituire una forte attrattiva, un punto di riferimento per tutte le forze anti-imperialiste, così come un obiettivo che avrebbe potuto unire musulmani arabi e non arabi, sunniti e sciiti. Ancora oggi la Repubblica islamica rimane il paese che più si è prodigato nel mantenere viva l’idea di liberazione, come pure nel fornire aiuti materiali, sotto forma di finanziamenti, sistemi d’arma, addestramento a quella fazione che per suo Statuto non solo non riconosce Israele, ma ne predica la sua distruzione, così come è citato nel preambolo, prendendo a prestito una frase di Hasan al-Banna, fondatore dei Fratelli Musulmani.

È oggetto di dibattito se l’Iran, nell’ambito di un eventuale allargamento del conflitto potrebbe intervenire militarmente a fianco di Hamas, oppure continuare solo a supportare i suoi combattenti. Negli ultimi tre anni la Repubblica Islamica si è trovata a dover affrontare gli effetti di una tempesta perfetta, scatenata da una crisi politica interna, sanitaria e di relazioni internazionali. Quest’ultima voluta fortemente dall’amministrazione Trump, la quale, ritirandosi unilateralmente dagli accordi sul nucleare firmati da Barack Obama, ha condannato l’Iran ad una gravissima recessione economica e a fermare nuovamente tutte le attività economico-commerciali intraprese sotto la presidenza Rohani, una boccata di ossigeno soprattutto per l’economia di base e per i suoi cittadini. Ancora sotto embargo, la Repubblica islamica ha particolarmente sofferto per la pandemia da Covid-19, avendo accesso solo ai vaccini di fabbricazione cinese e russa, che hanno dimostrato la loro inefficacia rispetto ad altri delle case farmaceutiche occidentali. In ultimo, le rivolte di piazza, che dal settembre 2022 hanno mobilitato non solo i giovani e la classe media della capitale, ma sono andate estendendosi anche ad altre fasce sociali , hanno spinto il governo a pesanti azioni repressive, allargando quello scollamento già in essere tra popolazione ed élite. In ogni caso la fragilità del sistema risiede tutta nella questione della successione della Guida Suprema, l’ottantaquattrenne ‘Alī Khamenei, da tempo malato. Sarà su questo punto che si giocherà il futuro prossimo del Paese: tra un nuovo Iran, nel quale i diritti ritorneranno ad essere effettivi, o un ulteriore giro di vite, soprattutto se i Guardiani della Rivoluzione faranno prevalere la loro influenza, come per ora sembra probabile. Dinanzi a queste problematiche di ordine interno, il coinvolgimento iraniano in un conflitto regionale avrebbe risvolti catastrofici, non solo in termini di perdite umane, ma anche per l’intero sistema economico mondiale e non farebbe altro che rendere ancor più fragile la Repubblica islamica con il rischio di una sua implosione. Ma la guerra si sa, è irrazionale.

(Foto di hosein charbaghi su Unsplash)

 

 

 

  • Michele Brunelli

    Docente di Politica e Società del Medio Oriente e di Storia ed Istituzioni dei paesi afro-asiatici presso l’Università degli Studi di Bergamo. E’ anche Direttore del Master in Prevenzione e contrasto alla radicalizzazione e al terrorismo nel medesimo Ateneo.