La tregua cominciata il 19 gennaio ha finalmente chiuso la fase più cruenta della guerra seguita all’operazione terroristica di Hamas del 7 ottobre 2023 e alla lunga e ampia ritorsione israeliana dei mesi successivi su Gaza. Le scene di gioia dei civili palestinesi, accanto alle dichiarazioni di sollievo della diplomazia internazionale, danno il senso dell’attesa che si era generata dopo il profluvio di immagini e testimonianze di morti e di distruzioni nella Striscia.
Tra i molti commenti che hanno cercato di spiegare il senso di questo accordo, uno dei più convincenti sembra quello di Meron Rapoport, pubblicato su “+972 Magazine” ancor prima della sua implementazione (Forget Trump – agreeing to a ceasefire was Netanyahu’s own calculation, 17 gennaio): le principali ragioni che hanno condotto il primo ministro Netanyahu ad accettare la momentanea cessazione delle ostilità risiederebbero in fattori interni alla politica israeliana e negli interessi personali dello stesso leader della destra. Come sempre, verrebbe da aggiungere.
Negli ultimi mesi infatti Netanyahu ha assistito a un progressivo deterioramento della straordinaria popolarità che i momenti di maggiore successo della guerra gli avevano offerto: ridotte drasticamente le minacce (percepite o reali) dei principali nemici di Israele – come Hezbollah e Iran, – rasa al suolo la Striscia di Gaza e caduto il regime siriano alleato di Teheran (anche se Assad era tutt’altro che attivo nella lotta a Tel Aviv), l’opinione pubblica israeliana ha manifestato un crescente disagio di fronte al proseguimento della guerra, e le prospettive elettorali della coalizione di destra al governo si sono fortemente ridimensionate: secondo la gran parte dei sondaggi, se si tenessero oggi le elezioni il Likud, pur restando il primo partito, non riuscirebbe a formare una coalizione nemmeno includendo Otzma Yehudit (Potere ebraico), il partito fondamentalista di Itamar Ben-Gvir, uscito dal governo in polemica con la firma della tregua; dall’altra parte le forze di opposizione avrebbero una maggioranza, sia pure esile, anche senza la sinistra araba.
D’altro canto, anche quello che è stato un punto di forza della lunga esperienza di Netanyahu al governo, ossia la costante e robusta crescita economica, ha risentito della mobilitazione e della guerra: il Fondo monetario internazionale ha stimato nello 0,7% l’aumento del Pil israeliano nel 2024, seguito a un forte rallentamento nel quarto trimestre del 2023. Gli oltre 900 morti tra i soldati israeliani hanno inoltre contribuito ad aumentare l’impopolarità della guerra anche oltre i confini della (non troppo vasta, a dire il vero) opinione pubblica israeliana sconvolta dalle conseguenze del conflitto sulla popolazione palestinese, con le decine di migliaia di morti tra i gazawi, i circa due milioni di sfollati interni (su una popolazione di 2,3 milioni) e la distruzione di oltre i due terzi degli edifici.
Ciò non significa che non coesistano influenze di fattori regionali e internazionali e che queste non incidano sull’evoluzione degli eventi. Le pressioni dell’entrante amministrazione Trump possono avere offerto a Netanyahu l’opportunità di attribuire al potente amico americano la responsabilità di una tregua non condivisa dagli alleati di governo più radicali. Il fatto che i termini di questo accordo siano molto simili a quelli scaturiti dalla mediazione statunitense nella primavera del 2024 spiega l’amarezza con cui da più parti si è colto l’annuncio della tregua: una conferma che l’adesione di Tel Aviv all’accordo segue esigenze di politica interna. Del resto la stessa idea di un Trump pacificatore risulta alquanto insostenibile, non solo in relazione alle sue scelte nel quadriennio 2017-2021, ma anche a fronte delle sue stesse mosse più recenti. Il nuovo ambasciatore trumpiano in Israele, Mike Huckabee, è un fondamentalista evangelicale di posizioni violentemente anti-palestinesi: sostiene l’annessione della Cisgiordania a Israele e nega l’identità stessa del popolo palestinese che secondo lui non esisterebbe in quanto tale.
Inoltre il nuovo presidente non ha espresso obiezioni alle operazioni di Netanyahu nella Cisgiordania, dove si gioca la partita più importante per la destra israeliana: cinicamente chiamata “Muro di ferro”, a riprendere il titolo di un libro (О железной стене) e le tesi del fondatore del sionismo revisionista nonché padre ideologico di Netanyahu, Vladimir Ze’ev Žabotinskij, l’operazione (va da sé, definita di “antiterrorismo”) ha interessato la città di Jenin e ha ulteriormente palesato le intenzioni del governo di Tel Aviv nei Territori occupati. I primi rapporti del 2025 dell’Ufficio delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari (OCHA) sono estremamente allarmanti e segnalano una situazione che in Cisgiordania si sta rapidamente deteriorando. Proprio in quest’area, mentre imperversava la guerra a Gaza, sono cresciute le violenze dei coloni e dell’esercito nei confronti dei palestinesi: secondo l’ong israeliana B’Tselem, nel 2024 le autorità di Tel Aviv hanno demolito 841 case palestinesi, 287 in più rispetto all’anno precedente, mentre le accresciute restrizioni all’accesso ai propri campi, imposte dopo il 7 ottobre 2023, hanno causato ai palestinesi un minore raccolto di olive per quasi 800 tonnellate di olio, con conseguente danno a un’economia già duramente provata. Trump, appena insediatosi alla Casa Bianca, ha abrogato le sanzioni ai coloni israeliani imposte da Biden – l’unico sussulto davvero critico nei confronti di Tel Aviv da parte di un presidente che ha dato l’impressione di non riuscire a governare le forze incondizionatamente filo-israeliane nelle istituzioni statunitensi – e ha sbloccato la consegna di alcune bombe (quelle da 2.000 libbre) su cui l’amministrazione precedente aveva posto il freno per timore di un loro uso generalizzato nelle aree più densamente abitate della Striscia. Il nuovo presidente ha poi rilasciato dichiarazioni incendiarie, suggerendo per esempio che i palestinesi di Gaza siano trasferiti in massa in altri paesi arabi, ricevendo il plauso del leader della destra sionista radicale Bezalel Smotrich.
Insomma, la tregua su Gaza sembra un capitolo secondario della più ampia partita personale e politica che Netanyahu sta giocando, con il sostegno esplicito della Casa Bianca. E al di là della sorte del primo ministro, il suo successo sta soprattutto nell’aver dimostrato che i palestinesi sono più soli di quanto si pensasse. Forse non tra le opinioni pubbliche: anzi, su questo fronte la novità dell’ultima guerra è la crescente solidarietà ai palestinesi che soprattutto in Occidente ha contraddistinto le manifestazioni nel 2024. Quanto piuttosto tra i governi, inclusi quelli che si professano loro amici (come Egitto, Arabia Saudita, Giordania…) e che sembrano aver gestito con grande abilità i malumori delle proprie opinioni pubbliche di fronte alla distruzione di Gaza. A questo si aggiunga l’indifferenza delle grandi potenze frettolosamente considerate filo-palestinesi, come Russia e Cina, il cui interesse per la Palestina si conferma solo di facciata e sembra funzionale alla propria ostilità verso gli Stati Uniti. Si pensi, a questo proposito, al mero aiuto finanziario ai palestinesi, attraverso l’UNRWA (cui molti paesi occidentali hanno sospeso l’erogazione di fondi nell’ultimo anno) o altre forme di sostegno: per incontrare i risibili contributi di Mosca bisogna scorrere una lunga lista, composta prevalentemente da paesi occidentali e arabi. In prospettiva sembra promettente per la Palestina, ma al momento è ancora troppo fragile, la solidarietà ricevuta dai paesi del Global South, tra i più impegnati anche sul piano del diritto internazionale – si pensi all’iniziativa sudafricana presso la Corte penale internazionale – a tutela di quell’ordine liberale che lo stesso Occidente non sta difendendo di fronte al tentativo di demolizione da parte dei nazionalismi e delle loro ambizioni imperialiste: come molti hanno sottolineato, l’opposizione occidentale all’iniziativa militare di Mosca perde di credibilità di fronte all’indifferenza mostrata con Tel Aviv.
Il sostanziale isolamento palestinese, insieme all’incessante iniziativa israeliana nei Territori occupati e agli orientamenti espressi dall’entrante amministrazione americana, danno l’idea di cosa aspettarsi nei prossimi anni.
Crediti foto di CHUTTERSNAP su Unsplash