Con un giorno di tempi supplementari si è conclusa la Conferenza delle Parti (Cop28), il vertice internazionale sulla crisi climatica, tenutosi a Dubai dal 30 novembre 2023. Dopo il successo dei primi giorni, con il finanziamento del fondo “Loss and Damage”, il documento finale è riuscito laddove in tanti non avrebbero scommesso. Sì, perché la Cop28 è stata una conferenza molto particolare, a cominciare dal Paese ospitante: gli Emirati Arabi Uniti, futuristico ed energivoro emirato; Dubai, città di opulenza e nuove architetture, tra i maggiori esportatori di energia fossile ma, al contempo, grande investitore in rinnovabili. E poi per la prima volta il presidente di una Cop è stato un petroliere, lo sceicco al Jaber. Senza considerare che a Dubai si è raggiunto il record di lobbisti del fossile presenti: 2456, contro i 626 della precedente Cop di Sharm-El-Sheik. Infine la conferenza di Dubai ha sofferto l’assenza della società civile, perché quando il Paese ospitante non è democratico gli attivisti non possono trovare adeguati spazi di espressione.

Nonostante tutto questo, per la prima volta nel documento finale si parla di “transitioning away”, transitare fuori, uscire da tutti i combustibili fossili presenti nei sistemi energetici (alla Cop27 si era scritto solo della riduzione del carbone) per azzerare le emissioni entro il 2050. In politica spesso accade, o dovrebbe accadere, che ci si adoperi con ambizione per raggiungere il miglior accordo attuabile, alle condizioni date. È il bene comune concretamente possibile qui e ora. Ecco, a Dubai in oltre 300 ore di negoziati, si è raggiunta un’intesa non perfetta, non la migliore, ma storica. È un compromesso, certo, tra “eliminare” e “ridurre” le fonti fossili, i due verbi che hanno tenuto banco in questi giorni di negoziati, si è scelto “transitare” fuori. Eppure la crisi climatica ha ricevuto una risposta politica unanime da parte delle 197 Parti aderenti alla Conferenza delle Nazioni Unite.

Si tratta di avviarsi verso una vera e propria rivoluzione industriale, sapendo che le innovazioni tecnologiche da sole non garantiranno l’esito. Restano tante incertezze sul come uscire dalle fonti fossili, sulle risorse finanziarie necessarie, specie per i Paesi del sud del mondo. Restano le contraddizioni di come trattare l’energia nucleare e la tecnica di cattura e stoccaggio di anidride carbonica, di come bilanciare tutto questo con le rinnovabili. Ma la strada è tracciata.

“L’era dei combustibili fossili deve finire in modo giusto ed equo”, ha ripetuto in questi giorni il Segretario Generale dell’Onu Antonio Guterres, con un linguaggio inequivocabile. Aggiungendo che “il multilateralismo resta la migliore speranza dell’umanità”. È questo il risultato più sorprendente della Cop28: il multilateralismo non è morto.

Nel suo discorso del 2 dicembre papa Francesco era stato preciso: “qual è la via d’uscita? Quella che state percorrendo in questi giorni: la via dell’insieme, il multilateralismo”. Queste settimane di diplomazia del clima ci hanno mostrato che qualsiasi tema di politica estera – anche la pace e le migrazioni, perché no? – può ambire a ricevere l’attenzione che merita solo in un contesto multilaterale. Non è più tempo di “suprematismi” imperiali, da qualsiasi parte vengano, perseguiti mediante bilateralismi in cui il più forte si afferma sul più debole. Non è più tempo di veti sterili e anacronistici.

Il multilateralismo può non rimanere schiacciato da pretese nazionaliste ed esistono alternative alla necessità di mantenere sempre aperta la porta del negoziato. Questa è la più grande eredità della Cop28. Jacinda Ardern, già Prima Ministra della Nuova Zelanda, aveva affermato che: “qualsiasi disintegrazione del multilateralismo, qualsiasi messa in discussione degli obiettivi e degli accordi sul clima non sono interessanti note a margine nella storia della geopolitica. Sono catastrofi”.

Ora che è calato il sipario sulla Cop28, non ci resta che il “multilateralismo dal basso”, come richiamato da papa Francesco nell’esortazione apostolica Laudate Deum, applicando il principio di sussidiarietà anche al rapporto globale-locale. “Dal basso” – quasi rasoterra – vuole dire che non bastano le decisioni assunte dalle elite del potere, occorre il coinvolgimento dei territori e delle realtà locali. Di ciascuno di noi, con qualunque risorsa.

La crisi climatica ha bisogno della nostra fiducia nei processi, senza temerne l’esito, della nostra mobilitazione e del nostro slancio perché anche le nostre scelte convergano verso il bene comune, imperfetto e limitato, ma concretamente possibile. Qui e ora.

(Foto della Presidenza della Colombia da wikimedia.org)

 

  • Chiara Tintori

    Politologa e saggista, già redattrice della rivista Aggiornamenti Sociali.