Il disegno di legge costituzionale approvato dal Consiglio dei Ministri modifica quattro articoli della Costituzione, introducendo una soluzione pressoché inedita nel panorama comparatistico delle democrazie costituzionali, e cioè l’elezione diretta del premier da parte del corpo elettorale.

La preoccupazione che muove la riforma è l’ossessione per i “ribaltoni”, che il progetto mira a rendere pressoché impossibili, al prezzo di pesanti irrigidimenti istituzionali. L’irrigidimento è già visibile dal dettato involuto e confuso della disposizione introdotta: “in caso di cessazione dalla carica del Presidente del Consiglio eletto, il Presidente delle Repubblica può conferire l’incarico di formare il Governo al Presidente del Consiglio dimissionario o a un altro parlamentare che è stato candidato in collegamento al Presidente eletto, per attuare le dichiarazioni relative all’indirizzo politico e agli impegni programmatici su cui il Governo del Presidente eletto ha ottenuto la fiducia. Qualora il Governo così nominato non ottenga la fiducia e negli altri casi di cessazione dalla carica del Presidente del Consiglio subentrante, il Presidente della Repubblica procede allo scioglimento delle Camere”. Chi – e come – misurerà la fedeltà agli impegni programmatici?

L’involuta e ambigua norma anti-ribaltone non tocca la radice profonda di questo fenomeno e cioè la realtà di partiti inconsistenti e non strutturati democraticamente, che fatalmente producono una classe politica ondivaga e leadership deboli. In fondo, siamo al cospetto di una confessione implicita e disperata di inaffidabilità politica, solo che si prova a porvi rimedio alterando l’equilibrio costituzionale. La riforma indebolisce infatti poteri rilevanti del Presidente della Repubblica, nonostante il Ministro Casellati ripeta la favola della loro invarianza: i poteri di nomina del Governo, svuotati dall’elezione; i poteri di risoluzione delle crisi di Governo, costretti entro i faticosi congegni indicati; perfino la nomina di senatori a vita. L’eliminazione dei senatori a vita avrebbe pure un senso nel contesto di una riforma del bicameralismo in senso federale, con un senato cioè che diventasse rappresentativo delle autonomie territoriali. In assenza di questo, invece, si tratta solo di un ulteriore indebolimento dell’autorevolezza del Parlamento, ostaggio di una classe politica inadeguata e incapace di autoriforma. In questo scenario, è evidente che perfino quei poteri di garanzia del Presidente della Repubblica non strettamente toccati risulteranno indeboliti, perché, nella “diarchia” che si creerebbe tra Presidente della Repubblica e Presidente del Consiglio, il secondo potrà vantare l’investitura diretta elettorale e contrapporsi da una posizione di forza al Presidente della Repubblica “non scelto dai cittadini”. Se poi aggiungiamo che questa riforma cristallizza in Costituzione un premio di maggioranza che garantirà alle forze politiche che sostengono il Governo il 55% dei seggi, si capisce come le stesse potranno accaparrarsi pure il Presidente della Repubblica.

Se, come si dirà, questa riforma cerca di porre un rimedio a una effettiva sovraesposizione del Presidente della Repubblica nelle vicende del Governo, la preoccupazione che ne sorge, per chi scrive, non deriva certo dalla nostalgia dei governi tecnici, ma dallo squilibrio dei poteri che si determinerebbe e dalla mancanza di adeguati contrappesi, soprattutto rispetto al Parlamento, già umiliato dalla condotta dei partiti e dalla prepotenza dei Governi (si pensi ai modi dell’approvazione del bilancio o all’abuso persistente della decretazione). In questa prospettiva, la soluzione adottata è molto peggiore dell’annunciato (si veda il programma elettorale di Fratelli d’Italia) presidenzialismo che, almeno nella versione nordamericana, è una forma di governo che si regge su un articolato sistema di pesi e contrappesi e su una più onesta coincidenza tra Presidenza della Repubblica e vertice del Governo.

L’assenza di adeguati contrappesi è un vulnus grave alla cultura del costituzionalismo, le cui ragioni sembrano essere completamente dimenticate nel perseguimento della stabilità di potere dei Governi. Chiunque si dovrebbe preoccupare di questo, se solo immaginasse di trovarsi dalla parte di chi è all’opposizione, e non da quella del potere. La prospettiva della Costituzione non è quella del potere; semmai del suo contenimento, al fine di prevenirne e reprimerne la naturale tendenza all’abuso.

L’aspetto forse più becero di questa riforma sta nella parziale costituzionalizzazione del sistema elettorale, contenuta nell’articolo che garantisce il 55 per cento dei seggi nelle Camere alle liste e ai candidati collegati al Presidente del Consiglio dei ministri. È davvero paradossale che il caposaldo di una legge elettorale – definita una “porcata” dal suo ispiratore – e dichiarata incostituzionale dalla Corte costituzionale (sent. 1/2014), e cioè l’assegnazione di un premio di maggioranza non condizionato al raggiungimento di una certa percentuale di consenso, venga elevato in Costituzione. È una specie di sgarro alla Corte costituzionale. In quella sentenza, oltre tutto, la Corte affermava che quella disciplina determinava “una compressione della funzione rappresentativa dell’assemblea, nonché dell’eguale diritto di voto, eccessiva e tale da produrre un’alterazione profonda della composizione della rappresentanza democratica, sulla quale si fonda l’intera architettura dell’ordinamento costituzionale vigente”. La sentenza sottolinea che un premio di maggioranza così configurato mette in gioco principi fondamentali della Costituzione, sicché si potrebbe anche dubitare della legittimità costituzionale di questa riforma su questo punto.

Se dunque sono davvero molti e gravi i motivi di perplessità e di contrarietà riguardo a questa riforma, non bisogna però credere che il regime attuale, invalso nella prassi istituzionale dell’ultimo decennio almeno, sia fedele all’impianto originario della Costituzione. Come ha recentemente argomentato Preterossi sul “Fatto Quotidiano” (18 novembre), siamo al cospetto attualmente di una forte alterazione della forma di governo, caratterizzata da un’obiettiva sovraesposizione del Presidente della Repubblica, nella sua qualità di garante, più che della Costituzione, di un vincolo esterno (europeo e non solo) resosi ormai pervasivo. La pervasività del condizionamento europeo sulle politiche economiche e di bilancio, minate peraltro dalla fragilità intrinseca di un Paese molto indebitato, e dell’invadente appartenenza atlantica sulla politica estera e di difesa, accompagnata dall’assenza di una credibile democratizzazione dei processi politici che si svolgono in queste sfere sovranazionali, trova un riflesso nell’accresciuto ruolo del Presidente della Repubblica, la cui stabilità e autorevolezza offrono il puntello più saldo per queste influenze, rispetto a Governi e leader nazionali sempre precari.

Il tentativo di ri-politicizzare l’indirizzo politico interno potrebbe quindi avere un senso, se però se ne ricreassero le condizioni sostanziali. Proprio l’azione di Governo rivela l’effettività del condizionamento, che incide pur in presenza di un esecutivo stabilmente puntellato dalla maggioranza parlamentare. Lo attesta lo spettacolo del Governo che affoga i proclami elettorali nel bagno di realtà dei vincoli giuridici e fattuali: sul fronte delle politiche migratorie, sulla politica estera, sulle politiche fiscali e sulle politiche economiche in genere. Anche questo Governo sembra costretto a muoversi su un crinale molto stretto, dentro il solco tracciato dalla quasi mitologica agenda Draghi, icona dell’incombenza di questo quadro vincolistico.
Sembra quasi che, proprio con l’intento di battere un colpo “identitario”, questa maggioranza abbia provato a rifugiarsi nella riforma costituzionale, piantando una bandierina dove sembra sia ancora possibile piantarla… L’esito è paradossale: la Costituzione, che dovrebbe essere il patto fondativo di mutuo riconoscimento tra le parti della Repubblica, che dovrebbe incarnare il quadro accomunante e incivilente della dialettica partitica, diventa lo sfogatoio delle pulsioni identitarie altrove frustrate. Anziché terreno comune, trincea da occupare.

 

Foto di jimmyweee – Roma, CC BY 2.0

  • Filippo Pizzolato

    Professore di Istituzioni di Diritto Pubblico presso l’Università degli studi di Padova e docente di Dottrina dello Stato presso l'Università Cattolica di Milano.