«Noi siamo molto pragmatici, abbiamo un modello e dimostriamo con i fatti che funziona e conviene». Lo dice Gregorio Arena, già professore di Diritto amministrativo nell’Università di Trento, fondatore e presidente di Labsus fino al 2021, parlando del nuovo paradigma del rapporto tra Pubblica amministrazione e cittadini, che sta provando a cambiare il vecchio sistema bipolare (cittadini da una parte e funzionari dall’altra) grazie al Regolamento per l’Amministrazione condivisa dei Beni comuni. Operazione non facile, ma sicuramente produttiva, innanzitutto, di importanti e duraturi elementi rigeneratori della stessa credibilità della democrazia. Che, purtroppo, appare sempre più fragile. 

«Ecco rigenerare la democrazia è un tema interessante – sottolinea Arena – come è interessante in generale il tema della generatività, e della ricaduta che ha sulla “cura”, perché se tu generi poi ti devi prendere cura in qualche modo… È interessante applicarlo alla democrazia, di cui bisogna prendersi cura, come ci si prende cura della biosfera o dell’ambiente o dei beni culturali… Ma la cura che i cittadini devono attivare per la democrazia è un’altra cosa dalla cura di un bene comune, non userei questo termine per la democrazia, non mi piacciono le accezioni eccessivamente ampie del termine “bene comune”. Ma si può convenire che della democrazia, non dandola per scontata, bisogna prendersi cura. Concretamente possiamo dire che si impara a prendersi cura della democrazia (e lo si fa insieme), anche occupandosi dei beni comuni. È come un buon addestramento per esercitarsi alla democrazia, una buona palestra».

Ecco, insieme, appunto. Sul concetto di sussidiarietà e partecipazione dei cittadini alla condivisione dell’amministrazione a volte si equivoca: c’è chi pensa funzioni come una sorta di alibi per uno Stato che si tira indietro. Perché non è così? 

Sulla sussidiarietà ci sono vari punti di vista. Il punto di vista del giurista si fonda sulla Costituzione. I nostri padri e le nostre madri costituenti hanno scritto un articolo che conosciamo bene e che è l’art. 3, in particolare il secondo comma, che “impone” alla Repubblica una missione da svolgere: Repubblica in senso ampio, di cui sono parte ovviamente le amministrazioni pubbliche a tutti i livelli, ma anche le scuole, le università, gli Enti locali, gli enti del Terzo Settore, le fondazioni, eccetera. Un’accezione non formale del concetto di Repubblica, da cui deriva che la Repubblica non si può tirare indietro. C’è un dovere che la Costituzione affida alla Repubblica, quindi deve svolgere determinati compiti. Semmai i nostri costituenti non potevano pensare che la Repubblica nello svolgere questi compiti avrebbe trovato poi degli alleati. E l’art. 118, ultimo comma dice proprio questo: che la Repubblica deve favorire “l’autonoma iniziativa dei cittadini” quando essi si attivano nell’interesse generale. Quindi, sostanzialmente, nella nostra Costituzione abbiamo due modelli di amministrazione complementari: quello del 1948, in cui si dice che la Repubblica agisce e i cittadini ricevono servizi e grazie ad essi realizzano sé stessi. E quello, innovativo, del 2001, in cui sono i cittadini che agiscono e la Repubblica ne favorisce l’intervento per l’interesse generale. Diciamo che ci sono, nel nostro sistema, unico nel mondo, due modelli di amministrazione complementari, non escludentesi: non è che siccome i cittadini si attivano, la Repubblica si può ritrarre. E al tempo stesso non è che se i cittadini si attivano si può fare a meno della Repubblica con i suoi poteri, perché in una società complessa c’è sempre bisogno dell’intervento dei soggetti pubblici e dell’esercizio del potere pubblico.

Sul piano pratico, inoltre, la teoria dell’Amministrazione condivisa nasce dalla constatazione che la complessità del mondo in cui viviamo è tale per cui la Repubblica da sola “non ce la fa”, vedi pandemia, cambiamenti climatici, migrazioni, ecc., tutti problemi che rendono indispensabile il coinvolgimento e la collaborazione dei cittadini. Quello che noi diciamo è che Repubblica e cittadini insieme affrontano l’entropia del sistema e l’unico strumento che consente di cercare le giuste soluzioni è la collaborazione.

Partecipazione, altra parola che sembra non vivere una stagione felice: per molti viene vista come una procedura che rallenta l’efficacia del raggiungimento degli obiettivi amministrativi (vedi il tema del Dibattito pubblico limitato nel Codice degli Appalti). Come si risponde a questa obiezione?

È un’obiezione che sentivo fare già negli anni Novanta, quando entrò in vigore la legge 241/90 sulla trasparenza nella PA. I dirigenti pubblici nei corsi di formazione e aggiornamento dicevano che quella innovazione “gli faceva perdere tempo”. Come rispondevo? Che prima di tutto, una decisione presa insieme è molto probabilmente una soluzione molto più facile da implementare successivamente. Secondo, che molto probabilmente non verrà impugnata di fronte al Tar perché se è stata presa insieme anche con i privati interessati è probabile che sia accettata e condivisa. Terzo, che l’idea di una PA onnisciente, intesa come un unico decisore che chiuso nella sua stanza decide sull’interesse pubblico in maniera astratta e individuando sempre la migliore soluzione, è a dir poco irrealistica. Quindi la partecipazione va vista come un contributo di punti di vista, di idee e di esperienze che migliorano la decisione, facilitando il compito del decisore pubblico. Non è affatto vero che porta via tempo, ma naturalmente va saputa fare, con regole, procedure e persone preparate. 

Qui si aggiunge il tema della necessità di una riforma complessiva della PA. Ma non se ne parla molto. In che senso deve andare? Secondo quali linee di fondo secondo lei?

È un tema complesso, ma parto da qui: non esiste “La” riforma dopo la quale poi stiamo a posto per un lungo periodo. La riforma dell’amministrazione è un processo spesso innescato da un evento (si veda l’istituzione delle Regioni nei primi anni Settanta del secolo scorso e poi l’introduzione del procedimento amministrativo nel 1990 e infine nel 2001 l’introduzione in Costituzione del principio di sussidiarietà). Questi grandi eventi per dare frutto devono essere seguiti da un processo di quotidiana e faticosa realizzazione di ciò che la riforma prevede. Ciò che alla classe dirigente italiana in genere non piace fare è seguire questo processo di realizzazione, perché non dà lustro, dà molta più gloria l’approvazione della legge. Ma poi, dopo l’approvazione, che succede? La riforma è fatta di questo: di un paziente processo di implementazione dei principi contenuti nell’evento. Che, appunto, di solito è costituito da una legge. La classe dirigente spesso non ha pazienza e non si rende conto che poiché la riforma della PA tocca interessi costituiti, questi reagiranno cercando di farla fallire.

Nel nostro piccolo, quello che ha fatto Labsus è aver avviato il processo per l’attuazione dell’art. 118 ultimo comma della Costituzione. Avendo collaborato negli anni Novanta con gli allora Ministri della funzione pubblica Cassese e Bassanini, mi sono reso conto che quando veniva meno la spinta del vertice, la riforma falliva o veniva riassorbita nella cultura tradizionale. E le amministrazioni sono bravissime a riassorbire … . Allora mi sono inventato Labsus perché ero consapevole che se non ci fosse stato un soggetto collettivo che portava avanti il processo di riforma innescato dall’art 118, ultimo comma, nel momento in cui io non fossi più stato in grado di seguire quel processo esso si sarebbe fermato. 

Il vecchio paradigma bipolare ha gestito il rapporto cittadini/Pa. Ma oggi così non può più funzionare: siamo consapevoli che abbiamo un unico pianeta, siamo tutti interconnessi e la PA è un sistema complesso che a sua volta fa parte di altri sistemi complessi. Parlando dell’amministrazione pubblica non uso mai il termine macchina perché è meccanico, rigido, fa pensare ad una neutralità dell’amministrazione, che invece è un sistema dove agiscono milioni di persone, con interessi, poteri, clientele, e altro. La riforma dell’amministrazione richiede questo tipo di consapevole umiltà.

E veniamo all’ultimo rapporto Labsus sulla Scuola, perché vi siete concentrati su questo tema?

Individuo almeno due motivi. Primo, soggettivo perché la scuola attraversa trasversalmente tutta la società italiana. Le circa 40mila scuole sono la principale infrastruttura sociale del Paese e dovrebbero essere il principale motore per la promozione sociale. La scuola investe l’intera società e soprattutto i giovani. E poi c’è un secondo motivo, oggettivo, perché la scuola è un bene particolare: è l’unico bene comune che ha la caratteristica di essere al tempo stesso materiale e immateriale, non c’è nessun altro bene comune così. E allora è straordinario che l’offerta formativa curriculare della mattina venga integrata e arricchita nel pomeriggio e d’estate da un’offerta formativa che può diventare qualsiasi cosa, grazie alla collaborazione dei genitori che offrono gratuitamente competenze ed esperienze preziose. Quindi è come dire che la mattina la scuola è un bene pubblico, mentre il pomeriggio è un bene comune grazie al fatto che i genitori entrano nella scuola e l’arricchiscono. In sostanza l’istruzione curriculare, aggiunta all’educazione condivisa pomeridiana, insieme, sono oggi Scuola. Gli effetti positivi di tutto questo sugli studenti sono molteplici ed evidenti, compreso l’effetto in termini di educazione civica, perché la scuola la senti più tua se la curi direttamente. L’idea delle scuole aperte e condivise è di una potenza incredibile. Penso ancora ai ragazzini che a casa non hanno libri o non parlano l’italiano con i genitori o non hanno un posto dove studiare…In termini di crescita della società italiana le scuole aperte e condivise hanno una potenza straordinaria.

Cosa è emerso nel Rapporto?

Intanto l’importanza per le associazioni dei genitori di avere come interlocutori dirigenti disponibili ad aprire la scuola. È cruciale. Perché se non sono disponibili non si fa nulla. Suggerisco quindi (ed è quello che il Rapporto cerca di fare), di formare i dirigenti scolastici, ma non solo astrattamente. Cerchiamo di far loro capire che, in generale, aprire le scuole il pomeriggio e d’estate al contributo dei genitori conviene a tutti.

L’altro punto che vorrei sottolineare è quante risorse sono disponibili nelle nostre comunità locali e quindi quanto poco basterebbe per migliorare la scuola italiana. Ma d’altra parte la scuola, come tutta l’amministrazione pubblica, è fatta anche di corporazioni, di chiusure egoistiche, di pigrizie… ecc. L’ingresso dei genitori potrebbe portare una ventata di aria fresca.

E il Regolamento? Come si sta diffondendo?

Devo dire che purtroppo, dopo la pandemia, c’è stato un rallentamento nella diffusione del Regolamento, dovuto a molti fattori. In positivo, vedo un brulicare di iniziative e un aumento fortissimo dell’interesse nei confronti dell’attività di Labsus, a cui però non corrisponde un aumento del numero dei comuni che adottano il Regolamento. Mentre nei primi anni, dal 2014 in poi, c’è stato una sorta di boom, di corsa all’adozione del Regolamento, da qualche tempo questa corsa sembra rallentare. Ma l’interesse per il tema è aumentato moltissimo. Bisognerebbe tornare a girare per parlarne, ma le forze sono quelle che sono… E allora forse è più utile un lavoro di approfondimento e di penetrazione in vari settori, per esempio è importante il lavoro che si sta facendo con gli Enti del TS, con il Forum, con i CSV, con le scuole, è un lavoro prezioso perché in questo modo le idee circolano e danno frutto. E noi anche in questo modo continuiamo a lavorare nell’interesse generale, come facciamo da circa vent’anni.

Crediti foto: Maria Lupan su Unsplash

  • Vittorio Sammarco

    Giornalista pubblicista, docente di Comunicazione politica e Opinione Pubblica, Università Pontificia Salesiana.