[n.b. Questo articolo si collega al Forum presente sulla nostra rivista nella sezione Dibattiti]

Queste benedette primarie, che, ad essere rigorosi, primarie non sono, o comunque non sono primarie all’americana, bensì primarie all’italiana, e anzi alla piddina, non solo hanno appena suscitato un risultato alquanto inaspettato, ma hanno anche sollevato qualche interrogativo intorno ad esse: sulle loro modalità di svolgimento e addirittura sulla loro opportunità. Sono interrogativi non facili, cui, per rispondere, conviene forse iniziare da una premessa d’ordine generale. Di regole abbiamo sempre bisogno. Servono a organizzare la nostra esistenza, servono – alcune di esse – a regolare l’esercizio del potere, a renderlo prevedibile e anche a contenerlo. Ma sono esse stesse forme di potere. Anche le regole che si vogliono democratiche convengono più a qualcuno che a qualcun altro, solitamente corrispondono alle convenienze di chi le scrive – come la storia, le scrivono i vincitori –, quantunque chi vi è sottoposto talora non sia escluso del tutto, vuoi perché gli si consente di esprimere la sua opinione, vuoi perché chi scrive le regole deve tenere in qualche conto delle sue attese e delle sue reazioni. Tipiche regole che qualcuno impone seguendo un proprio criterio e disegno, e considerando il proprio vantaggio, pur se si guarderà bene dall’ammetterlo, sono quelle che presiedono alla contesa politica. Cambia, ovviamente, molto chi le detta. Non solo in ragione del suo modo di pensare, ma della condizione di potere in cui si trova. Una cosa sono le regole dettate unilateralmente da un’autorità monocratica, un’altra quelle negoziate da una coalizione di attori, più o meno coerente e stabile. Potremmo rifare la storia delle regole elettorali alla luce dei calcoli di chi le ha dettate. Tra le regole che presiedono alla contesa politica vanno annoverate a pieno titolo le cosiddette primarie.

La questione della leadership

L’avventura italiana di queste ultime è iniziata negli anni ’80. Allorquando tema politico fondamentale è divenuto la leadership. La politica, si disse allora, andava modernizzata, distogliendola dalle sue torbide inclinazioni consociative e reindirizzandola verso una virtuosa riconversione bipolare e «decisionista» – che avrebbe aggirato i partiti. La democrazia necessitava di leadership e niente era più democratico che istituirla facendola incoronare e legittimare dal basso: dagli elettori, nel caso delle autorità di governo, dagli iscritti e, magari, anche dagli elettori per i partiti. È interessante. La sinistra s’impadronì di un classico tema di destra e promosse, d’intesa con la destra di allora, parecchie innovazioni: l’elezione diretta dei sindaci, quella dei presidenti delle regioni, lo stesso ridisegno simbolico e non solo della figura del capo del governo. Oltre, per l’appunto, alle primarie, che sono rimaste un monopolio della sinistra: o di quel centrosinistra sorto dall’incontro tra gli eredi del Pci e alcuni degli eredi della Dc.

Anche i partiti avevano urgente bisogno di leadership. Erano palesemente in perdita di legittimità e popolarità. Occorreva uno strumento per liberarsi degli apparati e delle correnti. Addobbate di accattivanti vesti partecipative, le primarie sono entrate nell’uso. Le ha adottate il Partito democratico fin dalla sua nascita. Le avevano in precedenza sperimentate Ds e Margherita per designare qualche candidato alle elezioni locali e poi per incoronare nel 2005 Prodi candidato premier della coalizione di centrosinistra. Ebbero anche un buon successo. Nel 2005 Prodi era stato incoronato da 4 milioni e mezzo di elettori. Nel 2007 tre milioni e mezzo di elettori hanno partecipato all’elezione di Veltroni. Non fosse che da allora l’istituto ha subito un lento, ma inesorabile, declino. In parallelo al declino elettorale del partito del Pd, disceso da più o meno 12 milioni di voti a circa 7 milioni nel giro di tre lustri.

Un declino progressivo

Quali le ragioni del declino? L’interpretazione è soggettiva, ma nemmeno troppo. Le primarie si sono rivelate una tecnica partecipativa palesemente riduttiva e deludente. Spacciate come grande opportunità di partecipazione concessa agli iscritti, e addirittura agli elettori, non hanno concesso molto, probabilmente perché non era quello l’obiettivo reale di chi le ha volute. Che le ha pensate invece come un metodo non solo per aggirare apparati e correnti, ma pure per tacitare la discussione interna. Lo statuto prevedeva l’istituzione di forum sui grandi temi politici. Non casualmente non se n’è fatto nulla. Meglio contentarsi di consegnare il potere al leader e darsi pace. Come spesso capita, le regole non mantengono mai del tutto le promesse. In più di tre lustri di esperienza del Pd non c’è leader che non sia sceso a patti con le correnti interne. I vecchi patteggiamenti democristiani sono solo diventati meno scoperti e più legati a questioni personali. Il leader più determinato e agguerrito che le primarie abbiano prescelto, che è Renzi, che più d’ogni altro ha rifiutato di patteggiare, è stato disarcionato da una mobilitazione che ha coinvolto una parte dei suoi stessi elettori. La condizione degli altri segretari del partito è ben rappresentata dall’abdicazione di Zingaretti. Braccato da ogni parte, ha rinunciato di sua volontà. Anche il ruolo dei media è stato un inconveniente non previsto: hanno sempre condizionato in vario modo l’elezione del leader e anche il suo operato. Il grande disegno della leadership «disintermediata» è fallito ed è stato anzi controproducente.

Che la partecipazione octroyée tramite le primarie sia poverissima l’ha confermato anche l’episodio più recente. I candidati non si equivalevano, il loro posizionamento politico non era il medesimo, ma la scelta tra l’uno e l’altro lasciava i rispettivi posizionamenti politici se non sullo sfondo, comunque nel vago. Nessuna effettiva discussione si è accesa intorno alle loro proposte e ai loro moventi, e alla diagnosi che li sorreggeva. I candidati hanno girato all’impazzata per circoli, trasmissioni televisive, pagine di giornali. Senza alcun reale coinvolgimento di chi li avrebbe votati. È stata la scelta tra due brand diversi. È un vizio oggidì condiviso da tutte le contese elettorali. Gli americani la chiamano horse race. Dove, a tifare per i cavalli in corsa, si smarrisce la ragione per cui corrono. Salvo lasciare enorme spazio ai condizionamenti esterni. Sia alle manovre delle correnti interne, che si sono tutte schierate, a volte anche dividendosi, sia ai condizionamenti mediatici. Stavolta i concorrenti sono stati scelti dai media addirittura prima che la corsa fosse indetta, disegnandone pure il profilo: da un canto il solido e sperimentato amministratore – vai a vedere se è vero –, dall’altro la donna giovane, eccentrica, sbarazzina, in lotta per dar voce al cambiamento, pronunciando parole che non si sentivano da un pezzo: lavoro, sanità pubblica, scuola pubblica, ecc. I media, com’è ovvio, hanno pure parteggiato: secondo le convenienze loro e dei loro danti causa.

Il catalogo dei difetti delle primarie potrebbe essere allungato. La sostanza comunque è che hanno perso di attrattiva, come testimonia a caduta del numero dei votanti, dai tre milioni e mezzo del 2017 al milione e poco più del 2023. Non è una discesa da poco e suona quasi da condanna definitiva.

Il caso Schlein

A meno di non cogliere nel successo di Schlein, preferita dagli elettori anziché dagli iscritti, un segnale in controtendenza: il racconto della candidata anomala, che nuotava controcorrente, ha funzionato. La previsione di un rito stanco e poco appassionante è stata contraddetta. All’indomani di una tornata elettorale regionale caratterizzata da un mostruoso incremento dell’astensione, sono ricomparsi gli elettori. Al ribasso, senza dubbio, rispetto alle primarie precedenti. Ma ben più di quanto ci si aspettasse. Lasciamo da parte i proclami trionfalistici, ma che sia stato un segnale importante è forse vero.

Non a caso è subito iniziata la gara, che non è figlia delle primarie, ma di ogni contesa elettorale, per decidere cosa volessero dire gli elettori. Le interpretazioni sono state tantissime, ma teniamoci alla più elementare e più ovvia. È stato un moto di rigetto ed è prevalso il desiderio di cambiare. Bonaccini si è, ed è stato, presentato come l’usato sicuro. Schlein non ha detto moltissimo, ma quel poco che ha detto era fatto di parole dimenticate da tempo. Tutto fa pensare che tali parole siano piaciute molto fuori dal perimetro degli iscritti e abbiano sollecitato un po’ di elettori. Che seguito intenda dare Schlein a quelle parole non lo sappiamo. E sono pertanto iniziate altre due gare: l’una per costringerla a precisare, in genere per metterla in difficoltà – cosa pensa della guerra in Ucraina, per dirne usa –, la seconda gara per normalizzarla: l’unità del partito è il valore supremo ecc. ecc. C’è stato perfino un figuro un po’ patetico che ha schierato Gobbetti (sic) contro Gramsci, chissà perché arruolato con Schlein, non sapendo invero granché della grande sintonia tra i due….

Un nuovo stile partecipativo

Non cadiamo invece nella trappola. Diamo tempo al tempo. Scontiamo da parte di Elly Schlein molte incertezze e anche qualche manovra ambigua. È assediata da ogni parte. In più: Bonaccini era molto prevedibile, lei è un enigma, in larga misura da scoprire. La sua leadership, come sempre succede, sarà in parte opera sua e dei collaboratori che sceglierà, in parte sarà effetto dei condizionamenti cui sarà sottoposta da dentro e da fuori il partito. La sorpresa e le dimensioni del suo successo le concedono qualche margine, ma non amplissimo. È da vedere come l’userà. Chi scrive non vuol avanzare consigli. Ce ne sono a sufficienza. Visto il deprimente insuccesso delle leadership precedenti, sarebbe tuttavia plausibile che cambiasse strada. Introducendo uno stile più collegiale nella conduzione del partito e archiviando la leadership personale. Un tentativo l’aveva fatto Bersani, erede della tradizione comunista, ma fu stroncato, anche dai suoi errori. Potrebbe andar meglio. Cambiare strada implicherebbe un’elaborazione collegiale della linea politica. Già però le pressioni correntizie si sono manifestate, mandando in avanscoperta Fioroni, il quale, chissà a che titolo accampandosi a portavoce dei cattolici, ha preso la porta. Tutto è da vedere. Potrebbe perfino succedere che una parte dei suoi elettori le diano una mano: l’incremento delle iscrizioni e il progresso nei sondaggi sono di buon auspicio. È pure da vedere cosa faranno i tradizionali critici da sinistra del Pd, non senza ragioni per lo più diffidenti. Vedremo infine cosa farà la maggioranza di governo, che ci è stata regalata più che dai suoi elettori dai suoi avversari: sta adottando scelte e comportamenti che non possono non scuotere le coscienze democratiche. Vedremo.

A questo punto, le primarie non sono che un problema secondario. Quelle aperte troveranno nuovi critici, che, magari facendo autocritica, scopriranno la priorità degli iscritti e criticheranno forse pure quelle chiuse. Appariranno, invece, nuovi sostenitori, da parte dei vecchi critici. È un bel busillis. Si conferma comunque la teoria avanzata in partenza: le regole sono di solito fatte a proprio uso e consumo, ma a volte combinano scherzi strani. Una soluzione salomonica sarebbe prevedere un’adesione al partito a geometria variabile, creando degli albi degli iscritti: era una previsione iniziale, mai applicata. Ma dopotutto le primarie sono solo hardware: importante, ma non decisivo. Quel che conta davvero è il software: il modo di essere partito: è un corpo collettivo che condivide interessi, principi, priorità, oppure è il piedistallo del leader? Nel primo caso, che è quello che preferirebbe chi scrive – che non vive sulla luna, ma fa pure lui qualche calcolo di convenienza – la sfida è suscitare una discussione comune, che non sia fittizia. Non è impresa da poco. Figlia di molti fattori, tra cui la sopravalutazione del mercato capitalistico, la dissociazione individualistica ha plasmato un nuovo tipo di società e di socialità. Che non è però incontrabile. Elaborando collettivamente un nuovo software e predisponendo e sperimentando qualche aggiustamento all’hardware: le soluzioni perfette stanno solo nella testa degli sciocchi. I partiti britannici tengono un congresso annuale. Non sono grandi occasioni di dibattito, ma sono già qualcosa. Si potrebbero riscoprire i congressi locali e renderli frequenti. Si possono immaginare collegamenti stabili con la vita associativa e i sindacati. Un quotidiano del partito, sia pure on line, sarebbe prezioso, come antidoto ai media. Serve fantasia e serve soprattutto investire per suscitare vincoli orizzontali meno labili. Non c’è dubbio: i cittadini si dolgono dell’estraneità della politica, ma quelli pronti a fare la loro parte purtroppo sono pochi. Tocca allora alla politica andar loro incontro, interloquire con essi, spiegarsi, persuaderli e quant’altro. Non tutti hanno le medesime esigenze e quindi l’impresa è ardua. Ma la politica non è fatta solo di elezioni e sarebbe ora di sottrarla alla palude del leaderismo mediatico. I modelli del passato appartengono al passato. Ma se ne possono inventare di nuovi.

(attribuzione foto Ansa)

 

  • Alfio Mastropaolo

    Professore emerito di Scienza politica all'Università di Torino.