Anche in Europa (perfino nell’Unione Europea) si aggira lo spettro delle cosiddette democrazie illiberali. Si tratta di un’espressione polisenso e polemica e che, come tutti i termini con queste caratteristiche, merita di essere trattata con molta prudenza e anche con un po’ di diffidenza. “Democrazie illiberali” e “populismi” sono giudizi, prima che concetti, rivolti contro regimi o forze politiche per squalificarli in maniera liquidatoria. Questo non significa negare il problema della regressione diffusa della democrazia, bensì invitare ad affrontarlo con uno sguardo critico e maggiormente consapevole. Occorre infatti verificare se alcune innegabili criticità non siano gli epifenomeni più vistosi di trasformazioni critiche più profonde, che interessano anche le democrazie cosiddette o sedicenti liberali.

Le democrazie illiberali sono quelle in cui la leadership governante, forte di una legittimazione elettorale, dimostra insofferenza verso i limiti costituzionali, compiendo attacchi frontali allo Stato di diritto e allo Stato costituzionale di diritto: in particolare, a essere minate sono l’indipendenza della magistratura, i poteri e l’autonomia delle Corti costituzionali, lo statuto, dove riconosciuto, dell’opposizione. In Europa, situazioni simili riguardano l’Ungheria, la Polonia; fuori dall’Europa, ad esempio, il Brasile e ora anche Israele… Nei confronti di Ungheria e Polonia il Parlamento europeo ha avviato la procedura prevista dall’art. 7 TUE per verificare l’esistenza di un evidente rischio di una grave violazione dei valori sanciti dall’art. 2 TUE. Il Parlamento europeo deplora l’emergere di un «regime ibrido di autocrazia elettorale», ovvero di un sistema costituzionale in cui si svolgono le elezioni ma manca il rispetto di norme e standard democratici. Si prospetta all’orizzonte un pericolo di de-costituzionalizzazione delle democrazie, che, per affermare il diritto a decidere, intaccano garanzie e limiti propri del costituzionalismo.

L’opposizione tra democrazia e costituzione è concettualmente insostenibile. Se, certo, ci possono essere Stati costituzionali non democratici (nella storia, ad esempio, le Monarchie costituzionali), non è pensabile una democrazia che non sia costituzionale. Se infatti ci limitassimo pure a vedere nella democrazia un ordinamento che prende le decisioni a maggioranza, la cornice costituzionale resterebbe ciò nondimeno necessaria per tenere saldo e al riparo il principio di eguaglianza (che è il fondamento logico della decisione a maggioranza) e le condizioni istituzionali perché una maggioranza possa genuinamente formarsi (e disfarsi). È quindi importante che rimanga alta la guardia contro attacchi all’integrità dei limiti costituzionali che provengano da maggioranze democraticamente legittimate.

Molto spesso, negli ultimi anni, questa attenzione critica si è tradotta in attacchi, a volte generici, contro il “populismo”, considerato come una visione primitiva, ma radicalmente ingannevole, di democrazia. Anche in questa preoccupazione si deve riconoscere un fondo di verità, perché non può che essere falsa, assai più che primitiva, un’immagine di democrazia che si regga su una visione idolatrica (e fatalmente truffaldina) del popolo, il cui volere si ritenga espresso da una volontà unitaria e semplificata, naturalmente corrispondente a quella della maggioranza, per quanto magari raccogliticcia e precaria, o di un vertice istituzionale monocratico (Capo dello Stato e/o del governo). Questo aspetto del populismo, e cioè la contraffazione idolatrica del volere popolare, si pone in antitesi con una democrazia costituzionale, strutturalmente pluralista, per la quale il volere del popolo sovrano si esprime in forme (al plurale) e limiti della Costituzione. Ciò nondimeno, vi è un ulteriore profilo del cosiddetto “populismo”, che non può essere buttato via insieme all’acqua sporca di questa prima versione… Mi riferisco alla critica, anche serrata, condotta da partiti cosiddetti populisti contro i tradimenti, veri o presunti, perpetrati dalle élites (politiche, economiche, ecc…). Questa manifestazione, al netto della verifica del fondamento delle accuse, può essere un’alleata delle democrazie costituzionali, perché utile a ravvivare l’attenzione critica dell’opinione pubblica rispetto al potere, al cospetto di una diffusa passività ed acquiescenza. La contre-démocratie, per usare l’espressione coniata da Rosanvallon, è un pezzo della democrazia, non una patologia da combattere. E lo sguardo critico sul potere va ascoltato e perfino incoraggiato, non demonizzato. Per questa ambivalenza di significati, è bene non indulgere disinvoltamente all’appellativo di “populista”: il suo abuso non di rado nasconde un – non disinteressato – tentativo di silenziare e screditare denunce e opposizioni…

Occorre inoltre domandarsi perché viviamo questa stagione di sofferenze democratiche, di cui le democrazie illiberali e i differenti populismi possono essere fenomeni allarmanti, ma non la radice. A favorire l’avvento delle democrazie illiberali concorre una componente di manipolazione e forse perfino di intimidazione dell’opinione pubblica. Vi è anche però, al contempo, da riconoscere la preesistenza di una diffusa insofferenza verso la sclerotizzazione delle forme costituzionali delle democrazie tradizionali. È vero che queste necessariamente formalizzano e raffreddano entro canali istituzionali la partecipazione del popolo sovrano, nei quali ciò nondimeno deve poter continuare a scorrere un’effettiva vitalità democratica. E purtroppo, dobbiamo prendere atto dolorosamente e seriamente che le forme istituzionali assomigliano sempre di più a dotti vuoti, o magari occlusi, perché occupati da partiti sempre più simili a oligarchie. Tant’è che le riforme che più blandiscono il consenso popolare sono quelle che tagliano (il numero dei parlamentari, le Province, tra l’altro). E l’astensionismo elettorale, anche da noi, ha raggiunto livelli insostenibili. Già Gramsci parlava di «elezionismo» per alludere allo svuotamento del suffragio…

Rispetto a questa senescenza delle forme costituzionali democratiche, il rimedio proposto dalle forze cosiddette “populiste” è spesso inadeguato: l’alternativa alle forme istituzionali svuotate non può infatti essere un’immediatezza decisionale inattingibile. Proprio l’aspirazione all’immediatezza rischia di contrabbandare come autentico volere popolare l’esito di referendum magari telematici. Occorre piuttosto preoccuparsi di “riempire” le forme costituzionali o istituirne di nuove, più accoglienti. Re-istituire e cioè ricollegare vita e istituzioni è un imperativo democratico e, oggi più di ieri, un’urgenza. Alcuni passaggi di questo riempimento, nel dibattito interno, sono noti da tempo: ordinamento interno democratico dei partiti, riforma sensata della legge elettorale, ripensamento della sostanza rappresentativa del Parlamento bicamerale, valorizzazione delle autonomie locali, ecc….

Le ritualità democratiche svuotate di senso partecipativo costituiscono il cuore della celebre critica di C. Crouch alla senescenza patologica della democrazia: la post-democrazia. Il punto è che la post-democrazia non è, per Crouch, frutto di un decadimento biologico ineluttabile, ma dell’agire interessato e auto-referenziale di élite. Per Crouch, infatti, «il classico partito del XXI secolo sarà formato da una élite interna che si autoriproduce, lontana dalla sua base nel movimento di massa, ma ben inserita in mezzo a un certo numero di grandi aziende, che in cambio finanzieranno l’appalto di sondaggi d’opinione, consulenze esterne e raccolta di voti, a patto di essere ben viste dal partito quando questo sarà al governo».

Questo ripiegamento elitario è alla radice dello svuotamento delle elezioni di sostanza democratica che, questo è il punto, rappresenta una nota e l’esito comune a democrazie illiberali e post-democrazie (sedicenti) liberali. La critica di Crouch interpella anzitutto e in modo sferzante le democrazie liberali e mature, quelle cioè da cui spesso si leva il giudizio sulle democrazie illiberali e sui populismi. Non sarà anche per il discredito del pulpito che queste posizioni giudicanti non attecchiscono? Proprio la scelta dell’epiteto “illiberale” suggerisce un’equivalenza in sé discutibile, quella tra democrazia e democrazia liberale. Su questo ci sarebbe da discutere. A questo si aggiunga il fortissimo e percepito condizionamento dell’autonomia politica degli Stati, a vantaggio di istituzioni sovranazionali (l’Unione Europea) in cui la voce dei popoli è davvero flebile, o di organizzazioni internazionali (come la NATO), non limpidamente orientate alla pace e alla giustizia tra le nazioni.

Quanto si è richiamato non significa che democrazie illiberali e post-democrazie coincidano necessariamente. Le prime sfidano sfacciatamente anche le forme istituzionali, cui le seconde prestano un ossequio, per quanto ipocrita. E tuttavia vi è un fattor comune tra le due manifestazioni che ci deve interrogare: la mortificazione della partecipazione popolare, confinata nell’investitura (di carattere magari plebiscitario) della classe governante. Dalla prospettiva della Costituzione italiana, questa riduzione della democrazia a investitura della classe governante è una vera e propria amputazione. La Costituzione mira a una democrazia che innerva i rapporti sociali ed economici, oltre a quelli politici, valorizzando le espressioni dell’autonomia sociale e istituzionale dei cittadini. Partecipazione e sussidiarietà sono i principi guida di una democrazia che non si deve esaurire nel voto.

Questa è la lezione che, di fronte alla sclerotizzazione delle forme costituzionali, il cattolicesimo democratico dovrebbe rilanciare. La democrazia costituzionale non può inseguire alcuna forma di semplificazione singolare della volontà del popolo, né alimentare alcun processo di delega verticistica del potere. L’infatuazione per la democrazia governante anche da parte di molti sedicenti cattolico-democratici ha spesso fatto perdere di vista il ruolo (costituzionalmente fondato) da riconoscere alle autonomie territoriali e collettive. Si è ingenuamente affidata la democrazia al potere, anziché al lavoro e alla partecipazione dei cittadini. La democrazia costituzionale è invece lo spazio articolato della coesistenza di forme plurali della partecipazione dei cittadini alla costruzione di una società tesa all’umanizzazione dei rapporti sociali ed economici. Per questo, anziché unirsi al piagnisteo non innocente verso il populismo, accreditando forse inconsapevolmente una classe politica (anche nostra!) obiettivamente squalificata, occorrerebbe lavorare per un assetto istituzionale che ridia forme istituzionali accoglienti per la partecipazione politica. Nell’autonomia sociale e istituzionale (in particolare, gli enti locali), che produce diffusione – oltre che limitazione – del potere, risiede il deposito vivo della democrazia costituzionale.

Foto di Fred Moon su Unsplash

  • Filippo Pizzolato

    Professore di Istituzioni di Diritto Pubblico presso l’Università degli studi di Padova e docente di Dottrina dello Stato presso l'Università Cattolica di Milano.