Servono le campagne elettorali? Cambiano opinioni acquisite e influiscono sul voto? Anche se in poco tempo, riescono a spostare convinzioni, pregiudizi, ad informare sui programmi e ad avviare confronti aperti e democratici fra opinioni e programmi diversi?
Se ce lo chiediamo adesso (a elezioni avvenute) non è solo perché nel nostro Paese le campagne elettorali sono assai frequenti (i politologi chiamano permanent campaign questa condizione nella quale si trovano le democrazie e nella quale l’Italia sembra eccellere, vedi prossime amministrative), ma anche perché la campagna elettorale crea precedenti, un clima culturale, un umore, un sentire comune (magari destinato presto a cambiare o a svanire). E intanto lascia i segni.
Quella della scorsa estate (già anomala solo per questo), in poche settimane, a detta dei ricercatori, per quanto poco appassionante, ha favorito il cambiamento di opinione di ben 10 milioni circa di elettori che si erano espressi con un altro voto nella precedente occasione del 2018. In quale misura non si sa. È certo, molti avranno deciso già prima delle settimane di appelli precedenti al 25 settembre. Ma quanto hanno influito, realmente, comunicazione di programmi, slogan, messaggi, Tvtalk, cartellonistica, social, partecipazione ai Tg, incontri in presenza, vecchi ma non ancora tramontati comizi, insomma tutti quegli elementi (parole e opere e … per non essere blasfemi, mettiamola così, anche il non detto, ma interpretato dai commentatori…) finalizzati a determinare le scelte dei chiamati al voto? E in che misura? Come fare poi a capirlo?
È un esercizio difficile, che di certo, nelle segreterie dei partiti, non solo si fa “a valle”, cioè a conclusione di un appuntamento, ma anche – e soprattutto – in vista del prossimo, per capire dove si è sbagliato (e magari correggersi) e dove si può puntare.

Quanto contano gli appelli?
A mio modesto avviso, però, sarebbe saggio evitare una diatriba infelice che si genera tra due poli opposti, che, mutuo dal maestro, si potrebbero definire apocalittici e integrati, anche se con sfumature sostanziose, ma sempre riconducibili a questa polarizzazione. Ossia, in parole più attinenti: tra quelli che sono convinti che tutto, anche il minimo dettaglio sulla vita privata dei candidati può far spostare voti; e chi (dall’altra parte) è invece convinto che l’elettore, se ha già stabilito il partito da votare, non segue nessuna indicazione, non ascolta e vede nulla che possa fargli cambiare idea. Anzi spesso più lo si stimola a prendere parte (“scegli”, “credi”, ecc.) e più si infastidisce.
E allora? Che fare? Infischiarsene e procedere come se nulla fosse? Come se decine e decine di studi non abbiano appurato nulla, da un secolo a questa parte, ma anche e soprattutto negli ultimi anni. Sarebbe come minimo insensato, comunque la si pensi sull’efficacia delle campagne elettorali. Ma visto che sono in vista alcuni prossimi appuntamenti elettorali (regionali e amministrative) proviamo a dare qualche indicazione, semplice, ma spesso troppo trascurata.

Prima: sì gli elettori a volte cambiano idea.
O meglio, sono disposti a farlo. Magari più all’interno della stessa area di riferimento, certo, ma non sono pochi i casi di spostamento dall’uno all’altro polo. Ecco. Il cosiddetto zoccolo duro esiste ancora, si sa, ma sempre più ridotto. Per questo la vecchia idea che gli elettori votino per A perché hanno “calcolato” che A farà scelte coerenti con le loro preferenze, funziona sempre meno. «Le ricerche – scrivono Nicola Barone e Paolo Legrenzi nel loro Guida razionale per elettori emotivi (Luiss, 2019) – hanno dimostrato che questi calcoli non vengono fatti, che gli elettori si pentono presto delle loro scelte e cambiano spesso preferenze su basi non tanto razionali ma emotive, sollecitati dal contagio dei media e dei social».
Seconda, a cascata dal precedente: quindi la mobilità nelle preferenze è alta (punto oramai considerato assodato), anche a poca distanza di tempo e ciò «fa supporre che dietro le decisioni non ci siano calcoli, ma stati d’animo effimeri».
Quali sono, quindi, quelli adatti a sollecitarne le scelte finali? Non bluff, diversivi, balle, effetti scenici, parole d’ordine studiate a tavolino, proposte scriteriate (illusorie e non supportate dal freddo e necessario supporto delle coperture finanziarie, che molti hanno invocato vista la loro quasi totale assenza in molte proposte), non facezie improponibili, o altri dettagli finalizzati all’accalappiamento del singolo elettore distratto, formano il mosaico per una campagna elettorale efficace associata ad un profilo deontologico accettabile. Di certo influiscono, purtroppo, ma per chi ha una certa idea del rapporto tra politica e cittadini, sono tattiche poco condivisibili.

La partita è tra emozioni e ragione?
Eppure, non si può non tenere conto che nella ricerca finalizzata alla scelta «non ci sono solo ragionamenti e preferenze, ma anche emozioni e pregiudizi, insomma quel miscuglio che è poi la logica (illogica) della vita». Il discorso, al dunque, si sposta dalla semplice tecnica comunicativa al generale approccio alla politica. «Buone intenzioni, da sole, non bastano», sostengono gli autori. «L’insistenza sui programmi, il solito distillato di spericolati incastri per non scontentare nessuno, è solo l’ennesimo riflesso dell’abbaglio razionalista», asseriscono duri Barone e Legrenzi. Che aggiungono: «In politica come in molti altri ambiti nei quali avvengono le nostre scelte, quando ragione ed emozione vanno una contro l’altra, è senz’altro la seconda ad avere la meglio». A molti scorreranno i brividi sulla schiena. Lo so, li conosco, siamo della stessa pasta, di quel genere che se non hanno proprio orrore dell’espressione “parlare alla pancia del Paese”, poco ci manca.
E allora, che fare, come attrezzarsi in maniera – diciamo così – congrua per realizzare una campagna elettorale che, non solo punti al massimo del risultato e che sia capace di non provocare danni? In conclusione, gli autori del testo citato lanciano uno spunto: «Quando si si segue o si esamina a posteriori una campagna elettorale, di successo o anche di insuccesso, bisogna cercare di vedere se ci sono due livelli: una struttura superficiale e una profonda, per usare la dicotomia del linguista Noam Chomsky. La struttura superficiale è la campagna elettorale con tutte le sue manifestazioni visibili, leggibili e ascoltabili su ogni canale di comunicazione (social inclusi). La struttura profonda è la strategia che l’ha progettata e prodotta. Chiedere se dietro quel che si vede e si ascolta, con tutte le emozioni i pensieri evocati, c’è una struttura invisibile che costituisce l’ossatura del progetto è la domanda giusta. La domanda giusta è ancora più importante delle risposte possibili»
In altre parole: una struttura profonda, capace di generare le domande giuste, non la fa un gruppo di tecnici a cui ci si affida pochi giorni prima del voto, ma una comunità politica, costruita e alimentata negli anni sul campo e nelle prove del confronto.

 

 

Crediti foto:
Alexmar983, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, via Wikimedia Commons

  • Vittorio Sammarco

    Giornalista pubblicista, docente di Comunicazione politica e Opinione Pubblica, Università Pontificia Salesiana.