Cosa pensare della cessione della società Gedi, editrice de “la Repubblica” e de “La Stampa”, a un acquirente greco, Theo Kyriakou, la cui famiglia tuttora coltiva le attività armatoriali avviate dal padre?

Beh, sono tentato di rispondere con le parole di Enrico Cuccia ai colleghi preoccupati per la riforma bancaria del 1993: “Se è caduto l’impero romano, potrà finire anche Mediobanca”. Evento peraltro accaduto proprio in queste settimane, con la scalata di Caltagirone e Milleri, ma preparato dalla perdita del suo ruolo sistemico che Mediobanca patì già all’inizio di questo secolo. Direi dunque a proposito di Gedi: “Se la sinistra sta ai piedi di Cristo e il corpo redazionale non esprime leadership, perché mai non dovrebbe finire anche “la Repubblica”?

Il successo passato del quotidiano: una sinistra plurale

Potrei fermarmi qui, ma di fronte allo sgomento di tanti esponenti della sinistra per la piega che sta prendendo il giornale fondato da Eugenio Scalfari riconosco che la battuta va spiegata. (Trascurerò “La Stampa” per esigenze di spazio. Del resto, gli Agnelli ne divennero editori un secolo fa, grazie al governo fascista che costrinse i fondatori a passare la mano). Cominciamo da un’apparente banalità: un quotidiano regge nel tempo se ha i conti in ordine o se trova uno o più finanziatori che, senza soverchi conflitti di interesse, ne condividano la linea politico-culturale. Merce rara. “La Repubblica” ha guadagnato per tanti anni e, quando i suoi azionisti originari decisero di vendere, a comprare fu Carlo De Benedetti, uomo d’affari eccentrico rispetto al sistema, in sintonia con l’anima del giornale, segnato da conflitti d’interesse evidenti e tuttavia destinati a pesare sempre meno in seguito al tramonto della “sua” Olivetti.

La forza editoriale de “la Repubblica” e del suo genitore, il settimanale “L’Espresso”, consisteva essenzialmente nella capacità di interpretare e orientare un pubblico assai vasto, esteso dalla sinistra del Partito liberale all’estrema sinistra del “Manifesto”. Quel pubblico variegato trovava il suo punto di incontro nell’opposizione radicale a Silvio Berlusconi e a Bettino Craxi. Il pensiero azionista, minoritario nel dopoguerra, gli regalava una chiave di lettura, a quel punto maggioritaria, delle spinte modernizzatrici della società. Un pensiero forte di un corollario giustizialista, buono a rafforzare la coesione dei lettori così educati a censurare sul piano morale chi stava dall’altra parte. È vero che la rampante televisione commerciale minacciava la raccolta pubblicitaria. Ma negli anni ’80 la domanda di pubblicità era abbastanza grande da accontentare tutti. La vera, mortale minaccia, rappresentata dalle piattaforme digitali, si sarebbe manifestata molto tempo dopo.

La situazione critica attuale

Ecco, condotto a sepoltura “L’Espresso”, come se la passa “la Repubblica”? Non è un mistero per nessuno lo stato disastroso dei suoi bilanci. La concorrenza feroce dei social basta a spiegare la crisi? La risposta è: sì, ma… esistono anche circostanze specifiche. Vediamo le principali. Anzitutto, il numeroso, grande arcipelago delle sinistre, che aveva trovato ne “la Repubblica” il giornale di famiglia, si è concentrato in un partito infinitamente più piccolo, il Pd, che conta il 20% del 50% del corpo elettorale. L’estremismo grillino e neocomunista, peraltro, ha trovato casa nel “Fatto Quotidiano”. Poche dunque le teste potenzialmente acquirenti. E quelle poche, tentate pure loro dall’informazione gratuita dei social. Insomma, “Repubblica” è un’azienda che deve fare i conti con un mercato molto, molto più ristretto di prima. Il fatto che conservi una redazione enorme rispetto alla diffusione, sia detto di passata, è un segno di gravi imprudenze gestionali, non una risorsa per il futuro.

Ma il “Corriere della Sera”? Anche il “Corriere” sconta la concorrenza digitale, eppure va abbastanza bene. Il merito è di Urbano Cairo, editore puro che utilizza l’eterno posizionamento cerchiobottista del quotidiano per rivolgersi a un pubblico tendenzialmente universale. “la Repubblica” non può farlo. Ci ha provato con la direzione di Maurizio Molinari, ma, com’era prevedibile, “la Repubblica” centrista si è rivelata solo una copia incerta e tremula dell’originale milanese. L’edicola ha sentenziato: errore blu. Molinari si è ricreduto, ma il danno era fatto.

“La Repubblica” aveva perso la sua verginità senza nemmeno guadagnarci. Senonché, per fare un giornale “de sinistra” negli anni Venti di questo secolo, occorre una vera e propria genialità editoriale. Sarebbe bellissimo se dalla redazione spuntassero novelli Scalfari, ma è lecito dubitare. Del resto, una tale genialità difficilmente potrà venire dal ceto politico-intellettuale di area Pd. Questo ceto, oggi turbato dalla prospettiva Kyriakou, non si è mai posto seriamente la questione dell’indipendenza delle società editoriali e della qualità dei loro gerenti. Gli eredi De Benedetti, ai quali il padre ormai anziano aveva regalato l’intera Gedi, credevano all’energia e alle cliniche, non all’editoria. Tanto è vero che hanno venduto al miglior offerente, la Exor guidata da John Elkann. La quale Exor non aveva la minima expertise editoriale. Elkann, si disse, comprava Gedi per impedire che “la Repubblica” finisse a Flavio Cattaneo, già direttore generale della Rai sostenuto da Luca Cordero di Montezemolo, antico protégé di Giovanni Agnelli inviso a Sergio Marchionne e allo stesso Elkann. In questi passaggi di mano, la redazione non aveva – come non ha tuttora – alcun titolo giuridico per intervenire. Non ce l’ha, perché da sempre la società editoriale di “la Repubblica” è governata dai soli azionisti. Fino a De Benedetti padre non è stato un problema. Poi lo è diventato.

Manca un modello di governance

Alziamo lo sguardo. “The Economist”, il più autorevole settimanale del mondo, ha una ferrea governance che protegge l’identità della testata e la formazione del suo gruppo dirigente. Agli azionisti sono riservati i diritti economico-patrimoniali, non quelli politici. Exor ha investito molto nel settimanale britannico, ne ha dovuto accettare la governance ma non l’ha importata in Italia. La redazione di “la Repubblica” non si è mai preoccupata della questione. E nemmeno la sinistra, sia nella versione extra large di un tempo, sia in quella small attuale. A ben vedere, solo Carlo De Benedetti ha appreso la lezione e l’ha applicata al suo nuovo giornale, “Domani”, ma si tratta di un’operazione di nicchia e senza profitti.

Per quel che se ne sa, dunque, il negoziato Elkann-Kyriakou non pare di per sé scandaloso. Qualcuno è rimasto colpito dalla circostanza che a vendere sia il nipote del rabbino capo di Parigi e a comprare sia l’esponente di una famiglia che ha come socio in talune sue attività il principe bin Salman, modernizzatore dell’Arabia Saudita e, al tempo stesso, custode dei Luoghi Santi dell’Islam e mandante degli assassini che hanno squartato un giornalista dissidente nei locali di un’ambasciata del Regno. Ma questo, alla fine, è colore.

Chi chiede al governo di azionare il golden power per sbarrare la strada al greco dovrebbe addurre ragioni solide. Per esempio, se i fratelli Kyriakou favorissero con le loro navi il contrabbando del petrolio russo, come fanno tanti loro colleghi greci, l’Italia dovrebbe aver da ridire anche su Gedi, ma è davvero così? Senza senso, invece, è invocare l’italianità della società editoriale perché Kyriakou è straniero, visto che pure il soggetto venditore ha sede in Olanda e nessuno se ne era lamentato e l’altra new entry dell’editoria tricolore, Leonardo Maria Del Vecchio, deriva la sua ricchezza da una holding lussemburghese.

Due editori meglio di uno: disse Andreotti

L’intervento del governo in compravendite editoriali non è davvero l’ideale, ancorché non manchi un precedente indimenticabile. Fu infatti Giulio Andreotti a evitare che “la Repubblica” e “L’Espresso” finissero a Berlusconi. La ratio di quell’intervento me la spiegò proprio Giuseppe Ciarrapico, l’editore fascista incaricato dal Divo Giulio di chiudere il conflitto tra De Benedetti e Berlusconi: “Il Principale crede che mettere tutto nelle mani di un editore solo, anche se amico, sia peggio che avere due editori, uno amico e l’altro no”. Era un tempo di giganti: Andreotti, Craxi, i comunisti più o meno ex, Scalfari, Caracciolo, Berlusconi, l’editoria guadagnava e i salvati da Andreotti potevano permettersi di continuare a maltrattare il loro salvatore. Ma oggi?

(Foto di Egor Vikhrev su Unsplash)

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    Giornalista, è stato senatore della Repubblica nella XVII legislatura dal 2013 al 2018 con il ruolo di Presidente della Commissione Industria. Dal 2018 è tornato a dedicarsi a tempo pieno all’attività giornalistica.