I ricchi ed il loro patrimonio

            I patrimoni seguono quella che si potrebbe chiamare la legge di Eduardo De Filippo: i milioni si attraggono tra loro. Detto in termini più tecnici, la tendenza della concentrazione dei patrimoni è verso l’aumento. Guido Alfani (Come dei tra gli uomini, Laterza 2024), individua due periodi, dopo la caduta dell’impero romano in Occidente, nei quali la concentrazione è diminuita: dopo la grande peste nella metà del Trecento e dopo la prima e seconda guerra mondiale nel Novecento. Nel primo caso le terre erano rimaste le stesse, ma la scomparsa di circa un terzo della popolazione aveva ridotto le braccia che potessero lavorarle. Nel secondo le guerre ed i sommovimenti politici avevano portato allo stato sociale e a politiche fiscali redistributive.

            Ma a partire dagli anni Ottanta il pendolo ha invertito il suo movimento verso una distribuzione più favorevole ai profitti, ed è emerso un gruppo di miliardari tale per cui, secondo gli studi di Oxfam (una confederazione internazionale di associazioni non profit contro la povertà), l’uno per cento delle persone più ricche possiede il 45 per cento dell’intera ricchezza globale. Gli Usa sono ovviamente in primo piano, ma lentamente emergono altri nomi provenienti da quello che un tempo era considerato il terzo mondo. Secondo la classifica di Forbes, riferita a fine 2024, tra i primi dieci miliardari vi sono sette statunitensi (Elon Musk è il primo con 421,2 miliardi), ma al secondo posto c’è un francese, Bernard Arnault con 233 miliardi, che domina nei settori della moda e del lusso, ed al quarto l’indiano Gautam Adami, infrastrutture ed energia, con 147 miliardi.  

            Al meeting dei ministri finanziari del G20 del gennaio 2024 a S. Paolo, quattro paesi (Brasile, Germania, Spagna e Sud Africa) hanno presentato la proposta, elaborata dall’economista Gabriel Zucman, di applicare, su circa tremila miliardari, una imposta sul valore del patrimonio del 2%. Il Global Tax Evasion Report 2024 stima che si potrebbe ricavare circa 250 miliardi di dollari (i primi dieci della classifica di Forbes ne verserebbero 3,5 a testa). Secondo il Report, 499 miliardari europei possiedono una media di 4,53 miliardi, per cui nei paesi europei si potrebbe ottenere un gettito di 45,3 miliardi. In Italia 71 miliardari possiedono complessivamente 272,5 miliardi (valori fine 2024), con un gettito potenziale di 5,5 miliardi. 

L’imposta patrimoniale

La proposta di tassare i miliardari non va presa alla lettera; il suo valore politico consiste nel messaggio: anche se solo il top dei più ricchi versasse il 2% del patrimonio, si otterrebbe un gettito significativo. Ma evidentemente un’imposta per cui chi ha un miliardo o più versa il 2%, mentre chi ha 999 milioni non versa nulla, sarebbe un’imposta mal congegnata. Nei paesi che hanno una wealth tax (o che l’hanno avuta) l’imposta si applica sul tutto il patrimonio, al netto dei debiti, con una deduzione tale da escludere la maggior parte dei contribuenti; deduzione comunque nell’ordine del milione, o anche meno (ad esempio in Norvegia la deduzione è di circa 150.000 euro).

In Spagna, che ha introdotto la wealth tax nel 2022, l’imposta patrimoniale è gestita dalle Comunità Autonome, con deduzioni ed aliquote diverse, ma se una Comunità non applica l’imposta (o la riduce eccessivamente), scatta l’imposta di solidarietà che va al governo centrale. L’imposta parte da 3 milioni con aliquota del 1,7%, che sale a 3,5% oltre 10.696 milioni. In Francia nel 2018 Macron ha eliminato tutte le attività finanziarie dall’esistente Impôt de solidarité sur la fortune, che è così divenuta Impôt sur la fortune immobilière.

L’imposta spagnola condivide caratteristiche comuni alle wealth tax della Norvegia e della Svizzera: in linea di massima confluiscono nella base imponibile immobili ed attività finanziarie (al netto dei debiti), nonché auto di lusso, aeromobili e panfili, quadri e mobili di valore. Vi sono però eccezioni che riguardano le imprese individuali dove il titolare gestisce l’attività; sono anche esenti le quote azionarie di almeno il 5% del capitale sociale o il 20% delle quote sociali, comprese quelle dei familiari. Lo scopo è quello di tutelare le piccole e medie attività imprenditoriali, e, come vedremo più avanti, esenzioni simili si ritrovano anche nella imposta olandese, che formalmente è un’imposta sui redditi patrimoniali, ma in realtà ha le caratteristiche della wealth tax.           

            I residenti nel paese che applica l’imposta devono dichiarare tutti i loro beni che anche se collocati in altri paesi, mentre i non residenti si limitano ai soli beni presenti nel paese; se dei residenti decidono di lasciare il paese (come sembra sia avvenuto in Norvegia dopo l’aumento del 2022), devono versare una exit tax.

Le imposte patrimoniali in Italia

Nel nostro paese sono presenti sia imposte sui valori patrimoniali, sia imposte su redditi da patrimonio. Tra le imposte patrimoniali la più rilevante è l’Imu, che finanzia i comuni. Questa imposta ha due caratteristiche negative che non si riscontrano negli altri paesi: i valori degli immobili sono determinati sulla base di rendite catastali, spesso molto vecchie; di conseguenza i valori risultano in media della metà di quelli effettivi (secondo le stime dell’Osservatorio immobiliare italiano dell’Agenzia delle entrate); non solo, ma questa media nasconde differenze molto forti, per cui proprietari di immobili di pari valore si trovano a pagare Imu differenti. Inoltre l’esenzione di quasi tutte le case di residenza (la “prima casa”) fa sì che le aliquote su tutti gli altri immobili sono portati dai comuni ai livelli massimi, per ottenere gettito. I proprietari di immobili all’estero devono versare un’imposta (Ivie), la cui aliquota è cresciuta da 0,76% a 1,06% con l’ultima legge di bilancio.

             Vi è poi l’imposta di bollo sui prodotti finanziari dello 0,2%, introdotta da Mario Monti nella manovra “Salva-Italia” del dicembre 2011. L’imposta è affiancata dall’Ivafe (Imposta sul Valore delle Attività all’Estero) e grava sulle persone fisiche, residenti in Italia, che detengono prodotti finanziari all’ estero: anche in questo caso l’aliquota è aumentata dal 0,2% al 0,4%. Si aggiungono poi l’imposta di registro e quella di successione; quest’ultima ha un peso trascurabile, a differenza di altri paesi europei.

            Le imposte sui redditi patrimoniali sono l’Ires (sui redditi delle società) e l’Irap, che ormai si applica solo agli utili e agli interessi passivi e l’Isos (imposta sostitutiva sui redditi finanziari) con l’aliquota del 26% (salvo per i titoli di Stato, su cui l’imposta è dimezzata al 12,5%). Un gettito non trascurabile è fornito dall’imposta sostitutiva (21%) sugli affitti delle abitazioni (e in casi particolari dei negozi), che i proprietari possono scegliere in alternativa alla dichiarazione Irpef (e ovviamente favorisce i redditieri che hanno aliquote marginali più alte). Tutte queste imposte, che prelevano circa il 5% del Pil, sono proporzionali e nell’insieme non hanno effetti redistributivi: a volte hanno un effetto negativo.

L’agenda TaxTheRich, promossa da Oxfam, ha presentato una proposta per l’Italia di oltre 150 economisti ed economiste, per un’imposta patrimoniale che tassi la ricchezza che supera i 5,4 milioni di euro, ottenendo circa otto miliardi dallo 0,1% dei contribuenti.

Pro e contro l’imposta patrimoniale

Le imposte patrimoniali, insieme alle imposte progressive sul reddito e alle imposte di successione, perseguono un obiettivo di redistribuzione dei redditi, attenuando i divari che si determinano sul mercato. In Italia una wealth tax sarebbe quanto mai opportuna, visto che l’Irpef si concentra quasi solo sui redditi da lavoro e pensione, tralasciando i redditi da capitale, e l’imposta di successione è (quasi) irrilevante. Vi sono però vari argomenti contrari che, pur esprimendo il punto di vista dei ricchi, vanno comunque accennati.

            Un primo argomento è che non sia più un’imposta alla moda: il numero delle imposte patrimoniali è sceso negli ultimi trenta anni. L’imposta è stata eliminata in Austria, Danimarca, Finlandia e Germania, per citarne solo alcuni paesi in Europa, dove solo Norvegia e Svizzera, da molto tempo, e recentemente Spagna hanno una wealth tax. Questo fatto ci segnala lo spostamento verso destra dei governi europei: abolire l’imposta patrimoniale diventa simbolico. È istruttivo il caso francese: l’imposta fu introdotta da Mitterand nel 1982, poi soppressa da Chirac quattro anni dopo, ma ripristinata nel 1988; da quel momento è rimasta con governi di diverso colore politico, fino a che Macron ha limitato l’imposta alla parte immobiliare, che è comunque quella che forniva la maggiore base imponibile.    

             L’argomento classico sul fatto che le imposte scoraggiano l’attività produttiva viene ovviamente applicato anche alla wealth tax, la quale si concentra sul top 1% della popolazione. Governi di destra sono sensibili a questo tipo di argomentazione; il primo ministro di Chirac, Alain Juppé, quando l’impôt de solidarité sur la fortune (Isf) venne eliminata, ha in seguito dichiarato: “Abbiamo avuto torto a sopprimere l’Isf. Eravamo prigionieri della lobby padronale […] Yvon Gattaz ci aveva promesso 400.000 posti di lavoro se avessimo seguito le indicazioni del Consiglio nazionale del padronato francese”. Promessa evidentemente non mantenuta. Da notare comunque che, secondo studi recenti, per il 63% dei miliardari la ricchezza non deriva da loro meriti ma dall’eredità (per tutti i miliardari sotto i trent’anni la percentuale sale al 100%).

            Un altro argomento più sottile, che spesso compare su giornali come il Corriere della Sera, è il seguente: in realtà i veri ricchi riescono a sottrarsi all’imposta, mentre essa finisce per colpire dei benestanti, ligi alla legge. Qui bisogna fare una distinzione, a seconda che la/il benestante sia residente nel paese oppure no. Se è residente allora sta commettendo un’evasione fiscale, e corre un rischio. Il caso più clamoroso, una dozzina di anni fa, è stato quello di Liliane Bettencourt, che era la donna più ricca di Francia, erede del fondatore de L’Oréal. La figlia di Liliane, sospettando che la madre fosse plagiata da un truffatore, consegnò alle autorità numerose registrazioni della madre. Quelle che interessarono di più il fisco però rivelarono che, grazie al suo consulente finanziario, Liliane aveva occultato circa 100 milioni, prima in Svizzera e poi a Singapore, nonché vari immobili sparsi nel mondo, tra cui un’intera isola alle Seychelles.      

            Spostare il denaro a Singapore, quando la Svizzera aveva nel 2010 siglato un accordo con la Francia, sarebbe servito a poco perché nel 2014 il paese asiatico aveva aderito a L’accordo Fatca (Foreign Account Tax Compliance Act), promosso dall’amministrazione Obama, dato che l’evasione degli statunitensi costava non poco al bilancio federale. L’accordo, cui aderisce ovviamente l’Unione europea, rende piuttosto rischioso l’occultamento del denaro a fini di evasione. Al momento non sembra che l’accordo sia nel mirino dell’amministrazione Trump, a differenza di quello sull’imposta minima sulle multinazionali; per quest’ultima le prospettive non sono buone. Gli Usa, infatti, non avevano ancora aderito alla minimum tax del 15% proposta nel 2021 da Oecd, in quanto il Congresso era bloccato dai repubblicani. Dopo la vittoria, Trump ha esplicitamente dichiarato di volerla respingere: non solo, ma ha minacciato ritorsioni se qualche paese volesse applicare la Undertaxed Profits Rule, che consente ad un paese di aumentare le imposte su una società localizzata in una giurisdizione che non aderisce all’accordo ma che ha sedi nei paesi dell’accordo (qualora l’aliquota d’imposta risulti più bassa del 15%).   

            La seconda ipotesi si ha nel caso in cui la persona “minacciata” dalla wealth tax abbia, o sposti, la residenza in un altro paese. Ammesso che non si tratti di uno spostamento fittizio (cosa che può essere controllata, entro certi limiti) il soggetto dovrebbe versare la exit tax (che esiste già anche in Italia), e sarebbe tenuto a pagare l’imposta patrimoniale sugli immobili o i conti detenuti in Italia. Non si deve poi pensare che l’introduzione di una wealth tax induca spostamenti di massa; basti guardare al caso della Svizzera, dove l’imposta è di competenza dei singoli cantoni, che decidono sulle aliquote e il livello delle deduzioni. Le differenze tra i singoli cantoni sono notevoli; il cantone di Nidwalden (sotto il lago di Lucerna) ha un’aliquota di 0,025% e una deduzione molto ridotta, cioè tassa lievemente tutta (o quasi, c’è una deduzione di 35.000 franchi) la ricchezza dei residenti. Al contrario il cantone di Zurigo ha una deduzione doppia, ma tre scaglioni con l’aliquota del 3% dopo i 3,16 milioni di franchi. Tuttavia non sembra che vi siano state migrazioni di ricchi da Zurigo a Nidwalden.

La variante olandese

Si è accennato che in Olanda formalmente l’imposta cade sui redditi, e non sui valori patrimoniali. Viene applicata una sola aliquota, attualmente del 36%; sembrerebbe un sistema proporzionale. Ma quando si considera come sono calcolati i redditi, ci si rende conto che in effetti l’imposta cade sul valore del patrimonio dei contribuenti. Infatti il reddito, nel cosiddetto Box 3, viene calcolato partendo dal valore patrimoniale dei beni immobili e delle attività finanziarie e imputando due tassi di rendimento, uno più basso sui conti correnti ed uno più alto sull’insieme degli immobili e dei titoli obbligazionari ed azionari (al netto dei debiti). Ad esempio nel 2024 il tasso di rendimento attribuito ai depositi in conto corrente era 1,03%, portato nel 2025 a 1,44%, mentre sul resto del patrimonio il tasso era del 6,04%, ritoccato nel 2025 a 5,88%.

Quindi, nel 2025, la sola parte della ricchezza in conti correnti paga lo 0,52%, mentre il resto paga il 2,12%. È facile capire che l’imposta patrimoniale diventa progressiva, in quanto la quota detenuta in conti correnti si riduce sempre di più, quanto più la ricchezza del soggetto aumenta. Il peso dell’imposta (che si può definire patrimoniale) tende quindi al 2,12%; la proposta lanciata al G20 di San Paolo è già stata attuata in Olanda. Vi è anche una deduzione di base, peraltro molto contenuta, leggermente inferiore a 56.000 euro, che contribuisce, anche se solo per livelli contenuti della ricchezza, alla progressività. 

            Vi sono due eccezioni, nel senso di due beni patrimoniali che non entrano nel Box 3. La prima è l’abitazione di residenza, che non è esentata dall’imposizione, ma entra nel Box 1 e si somma alle remunerazioni dell’imposta sul reddito. Tuttavia il reddito nozionale che viene attribuito all’immobile è particolarmente di favore: lo 0,5%. La seconda eccezione riguarda le quote azionarie o sociali delle piccole imprese; come si è visto per la Spagna, anche in Olanda coloro che hanno quote superiori al 5% del capitale sociale dichiarano il reddito che ricavano nel Box 2, con un’aliquota del 31%, più favorevole.

            La soluzione olandese sarebbe interessante per l’Italia, nel senso che avremmo una wealth tax che formalmente si presenta come una (più innocua) imposta su redditi patrimoniali, che sono già presenti nel nostro sistema. Si tratterebbe di convincere la giurisprudenza tributaria dell’uso dei rendimenti nozionali; cosa peraltro niente affatto facile.

Conclusioni

  L’imposta patrimoniale, insieme all’imposta progressiva sul reddito e all’imposta di successione, è un utile strumento per le politiche di redistribuzione del reddito e della ricchezza. Non agisce sulle cause che determinano la diseguaglianza, ma la limitano, rallentando il processo di aumento che è in corso da vari decenni. Inoltre, quando applicata, fornisce un potenziale gettito per altre politiche sociali. Non si deve credere che un singolo paese non possa applicare un’imposta che prelevi il 2% della ricchezza, se non lo fanno gli altri. La Spagna ha adottato una wealth tax nel 2022, ed è uno dei paesi europei che è cresciuto di più negli ultimi anni. 

(Foto di Igor Omilaev su Unsplash)

  • docente di Scienza delle Finanze all'Università La Sapienza di Roma.