La nostra è l’età delle grandi paure: la paura della guerra, la paura di perdere quello che si ha, anche se è poco – soprattutto se è poco – la paura del diverso, dell’alieno, di colui che porta un mondo diverso nel nostro mondo, e lo sconvolge. Molte di queste paure, però, sono alimentate da venti populisti e sovranisti, da idee politiche – e chiamarle idee è già dar loro troppa dignità – che sono sempre una forma di “disprezzo per i deboli”, che “può nascondersi in forme populistiche, che li usano demagogicamente per i loro fini, o in forme liberali al servizio degli interessi economici dei potenti. In entrambi i casi si riscontra la difficoltà a pensare un mondo aperto dove ci sia posto per tutti, che comprenda in sé i più deboli e rispetti le diverse culture”, come ha scritto papa Francesco nella “Fratelli tutti”.

Siamo di fronte ad un disegno politico, di potere, che sfrutta sentimenti reali, in particolare il bisogno di sicurezza in tutte le sue forme (economica, sociale, di ordine pubblico…), per convogliarli contro un nemico immaginario o artificiosamente gonfiato. Una politica che non si prende cura ma guarda indietro, alimenta odi, promette facili risposte a problemi complessi. Una politica che non risolve i problemi, ma anzi continua ad alimentarli, perché altrimenti sarebbe priva di argomenti.

Il frutto avvelenato di questa politica è il crescere della diffidenza e dell’astensione. Un’astensione che non è più esercitata solo per protesta, non è solo una mancanza di opzioni ma il rifiuto di un intero sistema, un rassegnarsi al “tanto sono tutti uguali” o, peggio ancora, un arrendersi all’individualismo perché, in fondo, ognuno pensa di salvarsi da sé. Questa è la cosiddetta “disintermediazione” politica, che postula un rapporto diretto fra il Capo e la folla, o fra il Capo ed il singolo individuo, e salta non solo i corpi intermedi, il sindacato, l’associazionismo, ma la stessa forma partito, che infatti è spesso ridotta a involucro vuoto o a sgabello del potente di turno, che non tollera contraddizioni né critiche. In questo modo l’idea stessa di una soggettività plurale viene meno per rifluire nell’individualismo, mentre invece la democrazia si fonda sul “tenere insieme diritti individuali e interessi collettivi in un quadro di coesione sociale, libertà, crescita civile e solidarietà”, come ha detto in un recente discorso il presidente Mattarella.

A questo vuoto della politica, che rappresenta una minaccia letale per la democrazia, i credenti debbono rispondere cercando di infondere alla politica un diverso significato, che si apra alla speranza di un modo altro di costruire i rapporti fra le donne e gli uomini all’interno della comunità, in nome di quel  “principio di non appagamento e di mutamento dell’esistente nel suo significato spirituale e nella sua struttura sociale” che Aldo Moro metteva alla base dell’impegno politico dei cristiani. Alla logica della paura occorre rispondere con la logica della transizione, del passaggio, della capacità di stare nel cambiamento senza dimenticare il passato, portando con noi gli elementi fondamentali e non caduchi di questo passato, senza mai sentirsi, per l’appunto, appagati dei risultati raggiunti.

La parola ebraica che designa il passaggio è “Pesach”, che significa anche Pasqua. Per il popolo di Israele il passaggio dalla schiavitù ad una difficile libertà, per i cristiani il passaggio di Gesù e di tutti noi dalla morte alla vita.  Un passaggio non facile, non scontato, non indolore, che però non serve soltanto ad accettare il cambiamento della società, ma a cambiare noi stessi (in fondo il significato della Pasqua è questo), a farci attraversare dal cambiamento stesso.

E il cambiamento principale è quello di guardare la realtà con gli occhi nuovi, di sfidare il realismo dei percorsi già noti, il senso comune che si contrabbanda per buon senso, mettendo al centro dell’agire politico la questione politica per eccellenza di questo tempo, che è quella della pace, proprio perché essa  si dimostra tanto fragile e le voci delle persone ragionevoli (o presunte tali) ci dicono che dobbiamo mettere noi stessi, la nostra economia e il nostro modo di pensare in una prospettiva di guerra.

Su questo tema non bisogna fare sconti a nessuno, senza confusioni fra aggressori ed aggrediti, ma avendo il coraggio di dire che la questione primaria, in questo momento, è salvare le vite degli esseri umani, cercando poi di trovare le ragioni di una pace giusta, o meno ingiusta. Qualche tempo fa ho partecipato ad un convegno in ricordo del cardinale Achille Silvestrini, grande figura di sacerdote e di diplomatico, che fra i punti più alti della sua carriera poté annoverare l’Atto finale della Conferenza per la sicurezza e la cooperazione europea (CSCE), stipulato nel 1975, in piena guerra fredda. Quel documento stabiliva i diritti fondamentali delle persone, compresi quelli di natura religiosa: Silvestrini, e Paolo VI con lui, erano ben consapevoli che i regimi comunisti orientali non avrebbero applicato quei principi, ma ritenevano che il diritto anche se non applicato, una volta riconosciuto avesse forza in sé.

È per questo che le ACLI hanno dedicato il loro recente Congresso al “coraggio della pace”, per affermare, cioè, che proprio perché necessaria e fondamentale la pace richiede quel tipo di coraggio politico che per i cristiani consiste nell’affrontare la realtà presente e nel cercare di cambiarla avendo come bussola il Vangelo e la Costituzione, come è stato per tutti gli ottanta anni della storia del movimento aclista. Questo tipo di coraggio è in se stesso un fattore di cambiamento sociale e politico, ed in quanto tale rappresenta il più grande contributo che i credenti possono dare oggi per contrastare la crisi della democrazia. La parola coraggio vuol dire proprio l’azione del cuore. Dobbiamo far funzionare il cuore, amare questa società, darle fiducia oltre ogni limite e difficoltà. Oggi sentiamo ancora fortemente che occorre coraggio in questo nostro tempo anche a costo di andare controcorrente.

Da cittadini e da cristiani impegnati nel sociale diciamo che non è più il tempo di mediazioni al ribasso ma è il tempo di stare in questo mondo portando fraternità dove c’è divisione, agendo la solidarietà dove c’è solo la rendita personale. È il tempo di scelte consapevoli personali e comunitarie per correggere le nostre abitudini che hanno violentato il pianeta. Coraggio nell’appoggiare sistemi democratici favorendo la partecipazione. Alla paura rispondere con il coraggio, non dell’incoscienza, ma quello di chi si sa che c’è sempre una speranza in più nella quale credere e appoggiare le proprie azioni.

(Foto di Jon Tyson su Unsplash)

  • Cooperatore sociale per formazione ed esperienza professionale, è presidente nazionale delle Acli dal 2021, al suo secondo mandato dal 2024.