Il Movimento 5 Stelle è sempre stato guardato con misto di irrisione e sufficienza. Cosa vogliono questi parvenu, questi sconosciuti che si permettono di dire alla classe dirigente cosa deve fare? Non c’è stato media, commentatore o intellettuale che non abbia rovesciato su costoro tutto il disprezzo castale di chi è un insider rispetto agli outsider. Ne è conseguita un’incomprensione dovuta alla non-conoscenza del fenomeno. Nonostante abbia ottenuto, nel 2018, un risultato elettorale che non si vedeva dai tempi della Dc, l’analisi di questo partito – salvo lodevoli eccezioni del tutto trascurate dai media mainstream – ha navigato tra formulette e stigmatizzazioni. Solo grazie a pochi studi, in particolare i due lavori collettivi a cura di Piergiorgio Corbetta nel 2014 (con Elisabetta Gualmini) e nel 2018, ambedue pubblicati da Il Mulino, e il libro di Davide Vittori, Il valore di uno, Luiss U.P del 2020, più alcuni saggi nelle riviste accademiche, possiamo tentare una interpretazione più corretta del fenomeno.

Il punto da cui partire è la capacità da parte di un nuovo attore politico di raccogliere tanti consensi. Il fattore decisivo rimanda alla rappresentanza credibile (questo è il punto)di domande pressanti non raccolte dagli attori politici tradizionali. Una di queste, che da molto tempo circola nello spazio pubblico italiano, è quella di un cambiamento. Mentre fino a metà anni 2000 i sondaggi mostravano che gli italiani preferivano nettamente la strada delle riforme per l’avvenire del paese, invece di una “rottura rivoluzionaria” (testuale), alla fine del decennio il rapporto si inverte e l’’opinione pubblica si orienta in maggioranza per un mutamento radicale. Il M5S è entrato nell’arena politica proprio in quel momento, con una proposta di cambiamento assoluto. Che veniva espressa nelle forme tipiche del teatro plautino: anche per questo aspetto la sottovalutazione/irrisione di Beppe Grillo ha fatto dimenticare l’importanza della messa in scena in politica (ce lo ha ricordato magistralmente Giovanna Cosenza in Come comunica Grillo. Dal turpiloquio al linguaggio del corpo, in “Comunicazione politica”, 2013, n.1, pp. 109 – 124).  Via tutti, non c’è nessuno da salvare, gridava Grillo durante la campagna elettorale del 2013, in piazze affollate come non si vedevano da tempo. Di conseguenza, il parlamento andava aperto come una scatoletta di tonno proprio per rendere palesi quelli che, con mentalità complottista fuori misura, erano considerati intrallazzi, connivenze e complicità di tutta la classe politica, che solo i pentastellati potevano svelare, aprendo il contenitore come una scatoletta, appunto.

Come in tutte le ascese folgoranti, tipiche dei movimenti collettivi che suscitano una adesione subitanea ed entusiasta, poi si passa alla “vita quotidiana”. E incominciano i dolori. L’arrivo al governo segna inevitabilmente l’inizio della parabola discendente. Troppo alte le aspettative per poterle mantenere. Soprattutto, troppo debole l’impianto politico-culturale per gestire un paese, per tacere sulla inconsistenza assoluta della classe dirigente, salvo due casi poi andati per strade diverse: Luigi Di Maio, eletto nel 2017 “capo politico” del M5S, poi dimessosi nel 2020 e approdato a incarichi internazionali di prestigio per la sua fedeltà istituzionale; e Giuseppe Conte, presidente del Consiglio per caso, salito al livello di leader politico  prima con il plateale scontro con Salvini nell’estate del 2019, poi con l’affidabile gestione della pandemia (dove raggiunse punte di gradimento pubblico mai toccate da nessuno) e infine con la guida del partito.

La conquista della leadership del M5S, una volta chiusa l’esperienza a Palazzo Chigi, è stata tutta in salita per Giuseppe Conte. Appena uscito dal governo emersero i primi scontri palesi con Grillo sulla riforma dello statuto, poi appianati; in seguito, ha affrontato la scissione orchestrata da Di Maio prima delle elezioni del 2022 e per finire ha avviato un percorso di trasformazione politico-organizzativa del partito. Percorso tuttora in fieri.

Sul versante politico, il M5S si trova ancora imbrigliato dalla sua tradizione, potremmo chiamarla identità di fondo: quella di un partito alternativo all’establishment. L’iniziale pulsione populista si è ridotta al minimo dopo tutti questi anni di presenza istituzionale e persino di governo, e tuttavia rappresenta ancora un elemento identitario. Per molti è improponibile abbandonare la “diversità” di cui sono andati orgogliosi per anni e in base alla quale hanno guadagnato tanti consensi.  Ma in realtà i consensi sono venuti anche per un altro innesto sulla iniziale polemica anti-partitica: il messaggio welfarista di solidarietà sociale con le componenti più svantaggiate, simboleggiato dall’introduzione del reddito di cittadinanza. L’enfasi su questa misura ha consentito al M5S di ottenere risultati inediti nella storia elettorale repubblicana nel 2018, con un media di oltre il 45% dei voti nelle regioni meridionali. Nelle ultime due tornate elettorali nazionali – le politiche del 2022 e le europee del 2024 – la geografia elettorale del M5S ha rispecchiato, seppure in sedicesimo, lo stesso squilibrio territoriale del 2018. Il partito di Conte si declina ormai come un partito “meridionalista” nel migliore dei casi, o come una “Lega sud” nel peggiore. Il suo bacino elettorale è quello. E difficilmente potrà cambiare, perché da un lato l’elemento innovazione – l’utopia della rete, cioè di una democrazia virtuale orizzontale e aperta a  tutti in alternativa a quella delegata – è tramontata, e dall’altro la polemica anti-politica ha perso vigore. Per ottenere consensi il M5S non ha altra strada che puntare sui temi sociali, in maniera sia indifferenziata che specifica. Vale a dire evocando in maniera generica un sistema di protezione sociale a largo spettro e promuovendo interventi settoriali ben definiti.

In tal modo, il M5s può diventare la costola arrembante di una coalizione progressista a fianco di un Pd ancorato alla socialdemocrazia europea da Elly Schlein. Per questo motivo non c’è competizione con il Partito democratico. Mentre quest’ultimo dispone di un bagaglio di competenze inarrivabile per ogni altra formazione politica nel campo economico -sociale (indipendentemente dal fatto che le coinvolga e le utilizzi al meglio…)  e quindi si mantiene su un binario sempre molto pragmatico e costruttivo, i pentastellati possono percorrere con molta disinvoltura i sentieri della demagogia (come peraltro faceva un tempo anche la sinistra).  È proprio questa disinibizione dal bon ton politico che continua a condizionare il Pd, tuttora attraversato dal dogma della responsabilità, a consentire al M5S di parlare ad un elettorato indistinto, amorfo e lontano dalla politica e pertanto sensibile solo a messaggi forti.

Non per nulla, il partito di Conte riesce ad entrare in contatto ben più di altri con il mondo dell’astensione e a riportare al voto una quota dei tanti che si sono allontanati dalle urne. Questa capacità costituisce una risorsa preziosa per l’alleanza di centro-sinistra, perché né il Pd, né tanto meno gli altri alleati attuali o potenziali (dall’Alleanza Verdi-Sinistra a Renzi e Calenda), hanno le antenne giuste per interloquire con gli astenuti. E se non si riportano al voto coloro che hanno defezionato, non si vincono le elezioni. Perché l’elettorato italiano è da trent’anni diviso a metà come una mela in due compartimenti stagni, tra cui non ci sono scambi (per cui è solo una illusione mediatica l’esistenza di un centro mobile). Quindi le vittorie dipendono da quanti voti si recuperano tra coloro che si persi per strada. Inoltre, dato che il serbatoio più ampio di questo tipo di elettorato è al sud, è lì che bisogna andare a pescare, proprio dove i pentastellati si muovono più a loro agio. Del resto, le elezioni si sono tradizionalmente vinte nel mezzogiorno, territorio “non subculturale”, dove la competizione è sempre stata più aperta. Il M5S può mantenersi elettoralmente a livello di un partito intermedio – i sogni di grandezza sono ormai tramontati a meno di eventi non prevedibili – solo se si radica in queste regioni. Per riuscire nell’impresa, ha comunque bisogno di rivedere il proprio impianto organizzativo. Lontano dai riflettori il partito ha avviato un lungo processo di trasformazione, in parte ideologico e in parte identitario. Sostanzialmente il partito è passato da un digital party in purezza, che agli inizi non aveva nemmeno una struttura fisica bensì solo un sito internet, ad un partito articolato su più strati, operanti secondo modalità più tradizionali.

La ridefinizione politico-ideologica del M5S ha seguito un percorso che in qualche modo richiama le Agorà lanciate da Enrico Letta tra fine 2021 e l’estate del 2022, conclusesi (e abbandonate) al momento dele elezioni e cioè una ampia consultazione degli iscritti e dei simpatizzanti per raccogliere idee e proposte. Analogamente, il M5S ha avviato un percorso a tre fasi. La prima., definita “l’ascolto dei bisogni”, è partita nell’agosto 2024. Intendeva individuare “bisogni, obbiettivi strategici e cambiamenti organizzativi” che la base avrebbe voluto introdurre nel partito. La raccolta delle opinioni, aperta a tutti, anche a non iscritti, e condotta in forma anonima, è avvenuta online su di una piattaforma creata per l’occasione. I vari interventi sono stati raggruppati in 20 cluster tematici, poi ridotti a 12 dal giudizio dei partecipanti al processo di raccolta. Il secondo passaggio ha riguardato un processo deliberativo in cui 300 iscritti sorteggiati tra i partecipanti alla fase precedente, hanno discusso, suddivisi in gruppi di 10 e con l’ausilio (eventuale) di facilitatori su tutti i temi presentati, per arrivare a redigere un “documento di indirizzo”. Questo testo è stato è stato ulteriormente discusso dalla assemblea alla fine novembre, chiamata evocativamente Nova, e infine votato online da tutti gli iscritti.

Alla fine di questo lungo e innovativo percorso, sostanzialmente incardinato sui principi della democrazia deliberativa, il movimento ha anche ricalibrato le sue coordinate politiche. Sulla base degli orientamenti degli iscritti, il partito si è posizionato su posizioni di sinistra: un terzo sostiene la definizione di “progressisti indipendenti” (36,7%), un quinto di “forza progressista” (22,1%), mentre rimane ancora presente in un quarto dei partecipanti  (26,2%) la pulsione di estraneità  ad ogni classica posizione. Ne consegue che la maggioranza sia favorevole all’alleanza con l’area progressista per affinità di temi e valori, mentre una compente minore ha privilegiato alleanze meno strutturali, da definire di volta in volta, in base al contesto

Il M5S è arrivato insomma ad una svolta decisiva. La nostalgia per un passato rivoluzionario, predicato ancora da Grillo e da alcuni suoi irriducibili sostenitori, circola nelle fila del partito, ed è comprensibile. Ma la ragione sembra orientare verso un futuro di sinistra welfarista, attenta ai bisogni dei ceti sottoprivilegiati, soprattutto del sud, affidandosi anche a messaggi di forte impatto (e in questo tornando alla tradizione grillina). Il gioco delle parti che ha tanto giovato a destra con tre/quattro attori che svolgevano ciascuno il proprio ruolo e intercettavano diversi elettorati, potrebbe finalmente approdare anche a sinistra, consentendo all’opposizione di giocare su più registri per allargare il proprio uditorio e raccogliere consensi tra componenti sociali che le sono in parte sfuggite e sono tentate dal rifiuto di ogni proposta politica. Il M5S, per le caratteristiche che tuttora lo connotano, può interloquire meglio di altri con alcune fasce della società, prevalentemente meridionali.

  • Politologo, ordinario di Politica comparata nell'Università di Bologna, la sua attività di ricerca è rivolta principalmente allo studio dei partiti politici. Già direttore della rivista di cultura e politica "Il Mulino" dal 2009 al 2011, collabora con diverse testate giornalistiche.