Sono settimane che i media si occupano del rapporto tra Politica e Magistratura: da destra, lo si descrive come uno «scontro politico tra poteri dello Stato»; da sinistra, come un «attacco all’indipendenza della Magistratura».
Fra gli ultimi oggetti della querelle: il progetto governativo di deviare il flusso migratorio, che investe l’Italia, verso centri di raccolta situati in Albania.
Da una parte, il Governo giustifica la sua iniziativa soprattutto con gli effetti di deterrenza, che questo progetto dovrebbe avere per migranti, che, partiti dai loro Paesi con la prospettiva di poter entrare in Europa, si vedono relegati in un Paese extraeuropeo, in attesa di essere rimpatriati. Dall’altra, l’opposizione denuncia, fra l’altro, i costi eccessivi dell’operazione, per di più se rapportati al numero irrilevante di migranti, che, soltanto se provenienti da “Paesi sicuri”, prima vengono destinati a quei centri, per poi essere rimpatriati con una procedura accelerata, giustificata dalle complicazioni e lungaggini di quella ordinaria.
Poiché, peraltro, la definizione di “Paese sicuro” non è dettata soltanto dalle Direttive Europee (v. la 2005/85/CE e la 2013/32/UE), ma anche da norme nazionali (v. da ultimo, il D.L n.158/2024, che ne ridefinisce la lista), il “cerino” è rimasto nelle mani dei giudici delle “Sezioni specializzate in immigrazione e libera circolazione internazionale”, istituite con D.L. n.13/2017 presso i Tribunali delle città sedi di Corte d’Appello, ma alle quali, nell’aspettativa di una giurisprudenza più favorevole, si propone ora (v. l’emendamento Kelany al “Decreto flussi”) di sostituire la competenza delle Corti d’Appello, pur sovraccariche di lavoro e, ad oggi, prive di una specifica competenza in materia.
È, infatti, accaduto che questi giudici, rilevato il contrasto tra due diversi criteri di definizione della sicurezza di un Paese e dovendo scegliere quali norme applicare, abbiano ritenuto di dover far rispettare la primazia del diritto europeo su quello nazionale, che costituisce un principio fondamentale del diritto comunitario. Risalente al Trattato di Roma del 1957, istitutivo della CEE, è stato ribadito, oltre che dalla giurisprudenza europea e nazionale, dai Trattati di Maastricht (1992) e di Lisbona (2009) della UE.
Ne è risultato, di fatto, il blocco del progetto governativo.
Le decisioni dei giudici sono state sbandierate dalle contrapposte parti politiche: dalle opposizioni, a riprova del fallimento di una iniziativa che non rispetta i fondamentali diritti umani degli immigrati, né la primazia delle norme comunitarie che quei diritti proteggono; dai partiti della maggioranza governativa, a dimostrazione della parzialità e politicizzazione dei giudici.
Ad alleggerire l’acredine e ad elevare il livello di un dibattito, che va scivolando sempre più in basso, a poco o nulla è servita la prudente scelta dei giudici del Tribunale di Roma di sospendere il giudizio sulla convalida del trattenimento e il rimpatrio d’urgenza di migranti, soccorsi in acque internazionali e provenienti da Paesi definiti «sicuri» dalla legge italiana, per chiedere, in via pregiudiziale, alla Corte di Giustizia Europea come risolvere il conflitto, creatosi tra la definizione europea di «Paese sicuro» e l’elenco dei «Paesi sicuri», di cui all’ultimo decreto legge italiano.
Su quei giudici, che politici e giornalisti hanno definito «parziali», «comunisti» e, addirittura, «eversivi», è, poi, caduta finanche la mannaia di Elon Musk, con relativo invito, loro rivolto, «ad andarsene»; invito motivato da una evidente ignoranza delle nostre istituzioni democratiche e ben restituito al mittente dal fermo richiamo del Presidente Mattarella al dovuto rispetto del nostro Stato e dei nostri valori costituzionali.
Eppure, pur non dubitando della complessiva gravità istituzionale del momento, entrambe le “etichette”, con le quali la maggior parte dei media va qualificandolo, non mi convincono.
Non la prima, perché lo «scontro», evocato da destra, sottintende un così forte contrasto tra “opposte fazioni”, che, qualora potessimo qualificare in tal modo l’attuale rapporto istituzionale tra il Governo e la Magistratura del Paese, dovremmo davvero piangere sulle nostre Istituzioni e rimpiangere quella che fu la nostra Democrazia. Non la seconda, perché l’«attacco», riscontrato da sinistra,non sembra diretto, quanto meno nelle intenzioni, contro l’indipendenza della Magistratura, come Istituzione.
Certo, ad essere attaccati sono stati giudici, titolari di quelle funzioni giudicanti, che, nell’immaginario collettivo, sono da sempre connaturate con il concetto di indipendenza; per di più, giudici civili, i meno avvezzi, per il tipo di cause trattate, ad affrontare temi che abbiano a che fare direttamente con la politica; quindi, i meno adatti, di fronte all’opinione pubblica, ad assumere il ruolo di antagonisti del Governo.
Ma, se è, purtroppo, vero che i giudici, che hanno rilevato l’illegittimità dei provvedimenti governativi di destinazione dei migranti ai centri di raccolta italiani situati in Albania, sono stati e sono tuttora oggetto di pesanti accuse, attribuenti le loro decisioni a credi politici antigovernativi, è altrettanto vero che la generalità degli accusatori ha cercato di tener distinto il giudizio sui singoli casi da quello sulla Magistratura. In sostanza, doveva passare la notizia che alcuni giudici «comunisti» avevano boicottato il Governo con decisioni «abnormi», così che l’attacco non riguardasse tanto la Magistratura come Istituzione, quanto singoli magistrati. Né certa stampa si è trattenuta dal fomentare questa versione.
Il conseguente “polverone” mediatico ha, poi, ottenuto l’ulteriore risultato di tenere in secondo piano, se non addirittura di nascondere, il vero tema ed i veri soggetti dell’effettivo scontro politico in atto: il principio, condiviso dagli Stati dell’Unione Europea in forza dei Trattati costituenti, secondo cui le leggi statali non possano contraddire o disapplicare le leggi comunitarie; in altre parole: nel conflitto tra legge comunitaria e legge statale prevale la prima.
Una spiegazione attendibile, quanto malevola, dell’accaduto potrebbe essere, invece, fornita dal tentativo del Governo di difendersi dalle critiche, suscitate dalla cattiva riuscita del progetto di deviare i migranti in Albania, rovesciandone la responsabilità su quei giudici, che l’avrebbero boicottato in ragione di opposte fedi politiche; un tentativo che, se c’è stato, ha avuto, comunque, “le gambe corte”, davanti a una Magistratura che sempre più chiaramente risulta aver fatto soltanto il suo dovere; ma anche un tentativo, che, finendo con il contrapporre l’Italia all’Europa, sembrerebbe sfuggito di mano a chi avesse pensato di potersene giovare.
Si può, allora, concludere che, almeno per il momento, non c’è motivo di temere per l’indipendenza dei magistrati?
Purtroppo, a fornire seri motivi di preoccupazione provvedono il numero, i contenuti e la tempistica delle proposte di parte governativa: riforma del Consiglio Superiore della Magistratura, previsione della responsabilità civile dei magistrati, ma, innanzitutto, separazione della carriera dei pubblici ministeri da quella dei giudici. Tutte riforme, che il Governo va promuovendo senza far troppo chiasso, ma che, una volta attuate, inciderebbero, queste sì, e pesantemente, sulla protezione costituzionale, oggi assicurata ad entrambe le Magistrature, giudicante e requirente, soprattutto dal fatto di essere governate da un unico organo indipendente, presieduto dal Presidente della Repubblica.
A cosa prelude il progetto di isolare la Magistratura Requirente da quella Giudicante, rendendola oggettivamente esposta alla perdita, anche soltanto parziale, delle attuali solide garanzie di autonomia e indipendenza dal potere politico?
Cosa si deve pensare quando il Ministro della Giustizia, il dott. Carlo Nordio, dichiarando qualche giorno fa che «la separazione delle carriere è inevitabile o il sistema si inceppa», sembra approfittare del clima di ostilità, creato contro la Magistratura, per riproporre, con la massima urgenza, un tema che, non soltanto non riguarda la vicenda dei centri per migranti in Albania, ma, soprattutto, non ha assolutamente nulla a che fare con l’effettiva, grave inefficienza di un “sistema”, sempre più strozzato dalla insufficienza di risorse umane e tecnologiche e dalla quantità, questa sì veramente “abnorme”, di leggi, anche procedurali, mal scritte, poco coordinate e di sempre più difficile individuazione e interpretazione?
Davvero si può raccontare al Paese che la Giustizia, soprattutto quella civile, che più interessa i rapporti commerciali e familiari della comunità, procede con troppa lentezza e con troppo pesanti arretrati, perché la carriera dei pubblici ministeri non è totalmente separata da quella dei giudici?
La risposta sta nella ferma, convinta difesa della configurazione, dettata dai Padri Costituenti, di un Pubblico Ministero quale parte integrante di una Giurisdizione tanto indipendente quanto unitaria e guidato nelle sue iniziative soltanto dall’obbligo di dare attuazione alla legge.
Il principio dell’autonomia del Pubblico Ministero dal Governo, enunciato dalla nostra Costituzione, costituisce, infatti, la miglior garanzia che l’azione penale non venga esercitata per interessi di parte: personali, economici, politici o religiosi che siano.
Diverse soluzioni, oltre a richiedere molti e validi antidoti contro il possibile esercizio autoritario del potere inquisitorio, tanto più se concentrato nel potere esecutivo, non potrebbero certo assicurare quel controllo democratico sull’esercizio dell’accusa, che consegue al principio costituzionale della obbligatorietà dell’azione penale. Principio che non mi risulta sia mai stato messo in discussione dalla stessa Avvocatura penale, professionalmente interessata a una accusa libera da condizionamenti diversi dal dettato legislativo e la cui richiesta di separazione delle carriere non va confusa, per finalità e modalità di attuazione, con un progetto compatibile con il possibile indebolimento dell’indipendenza costituzionale del Pubblico Ministero.
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