Se è difficile avanzare previsioni sulle conseguenze della vittoria di Donald Trump nella regione mediorientale, se non altro per l’alta imprevedibilità del personaggio, è tuttavia possibile fare qualche riflessione sulla politica estera del neoeletto presidente nel corso del precedente mandato (2017-2021). Il passato non è certo rassicurante, ed è anche poco conforme alla vulgata secondo cui Trump sarebbe stato un virtuoso costruttore di pace.

Alcune delle peggiori crisi attuali hanno infatti almeno in parte origine proprio nelle scelte dell’amministrazione Trump, che al Medio Oriente dedicò molte energie e in cui, oltre all’impostazione tipicamente “transazionale” che caratterizzò anche altri rapporti internazionali (si pensi alla rinegoziazione degli accordi commerciali con i vicini nordamericani o alle polemiche sui dazi con UE e Cina), si intrecciò una certa dose di pregiudizio ideologico, ben evidenziato dall’approvazione del discusso “muslim ban” poche ore dopo l’insediamento il 20 gennaio 2017, con l’obiettivo di negare l’ingresso negli USA ai cittadini di paesi a maggioranza musulmana (prevalentemente mediorientali), mentre la regione diventava il terreno privilegiato della demolizione di ogni forma residua di diritto internazionale e di multilateralismo, attraverso la politica dei colpi di mano da parte della sola superpotenza capace, per forza militare ed economica, di imporre i propri piani senza alcuna forma di consultazione o di controllo.

Tre furono i pilastri dell’amministrazione Trump: l’alleanza con l’Arabia Saudita – al centro di un complesso intreccio di relazioni economiche anche personali e famigliari (si pensi al ruolo del genero Jared Kushner); quella con Israele; il disimpegno dai conflitti in corso (Siria e Afghanistan).

Il primo viaggio all’estero Trump lo fece in maggio proprio a Riyadh, dove siglò un contratto per il trasferimento di armi per un valore, mai visto fino allora, di 110 miliardi di dollari con effetto immediato e altri 350 miliardi in dieci anni. L’obiettivo era non solo soverchiare l’altalenante politica di Barack Obama, ma anche rafforzare l’alleato mediorientale di fronte all’Iran. Una delle preoccupazioni diffuse riguardò inoltre il possibile utilizzo delle armi americane nella guerra saudita nello Yemen contro la ribellione dei filoiraniani houthi: l’anno dopo l’impiego di una Mk 82 americana contro uno scuolabus, con decine di bambini tra le vittime, confermò i peggiori presentimenti.

L’ossessione saudita nei confronti dell’Iran, emersa clamorosamente anche con la pubblicazione dei file di Wikileaks alcuni mesi prima, quando si scoprì che l’allora re Abdullah aveva ripetutamente e invano chiesto a Obama di muovere guerra a Teheran, si incontrò con il profondo sentimento anti-iraniano manifestato da Trump, che diede così copertura a Riyadh e ai suoi alleati che di lì a breve aprirono una crisi con il Qatar, emirato alleato dell’Iran, sfiorando in una certa fase anche lo scontro militare. La conseguenza più logica di questa saldatura anti-iraniana si tradusse, nel 2018, nel ritiro degli Stati Uniti dal Joint Comprehensive Plan of Action, l’accordo sul nucleare iraniano, firmato nel 2015. Anche se altri firmatari (Francia, Regno Unito, Germania, Russia, Cina e Unione europea) tentarono di preservare l’accordo, l’uscita di Washington ne segnò il fallimento, togliendo alla comunità internazionale la possibilità di monitorare Teheran e perdendo un’importante opportunità di dialogo e convergenza tra USA e Russia, che sarebbe stata rilevante nella successiva guerra russo-ucraina.

Questa forte ostilità anti-iraniana – almeno in parte legata a una certa assertività del regime di Teheran – è l’elemento che determinò l’incontro tra Washington, Riyadh e Tel Aviv. Con i governi di Benjamin Netanyahu, dopo il 2009, Israele si era arroccato su posizioni di reiterata denuncia del rischio sistemico provocato dall’Iran. Ora il primo ministro israeliano trovava nella Casa Bianca un alleato molto più sbilanciato e fedele di ogni altro predecessore, pronto a gesti eclatanti (come l’uccisione del generale iraniano Qasem Soleimani per mezzo di un drone americano nel gennaio del 2020): un sodalizio cementato dalla convergenza tra il Partito repubblicano e il Likud maturata in seno alla maggiore organizzazione della cosiddetta “Israel lobby” statunitense, l’American Israel Public Affairs Committee (AIPAC), e da figure come quella di Sheldon Adelson, il magnate dei casinò di Las Vegas, massimo finanziatore allo stesso tempo dei repubblicani e della destra israeliana.

Le decisioni prese dall’amministrazione statunitense in quegli anni furono numerose, dirompenti e dense di conseguenze: alla fine del 2017 Trump decise di riconoscere Gerusalemme capitale di Israele e l’anno dopo l’ambasciata americana fu trasferita da Tel Aviv nella Città Santa. Ancora nel 2018 gli Stati Uniti sospesero il finanziamento dell’UNRWA, l’agenzia per i rifugiati palestinesi. L’anno successivo ci fu il riconoscimento della sovranità israeliana sulle alture del Golan occupate da Tel Aviv dopo la guerra con la Siria nel 1967. Il sostegno esplicito agli insediamenti coloniali nei Territori occupati, secondo Peace Now, portò all’incremento annuo del 28% delle nuove costruzioni tra 2017 e 2021 rispetto al periodo di Obama.

Il 2020 fu intenso: in gennaio, nel corso di una conferenza stampa con Netanyahu, Trump propose un “piano di pace” molto fantasioso, in cui la Palestina si sarebbe costituita in stato frammentato in una molteplicità di enclave territoriali collegate tra loro da tunnel e strade isolate, in modo da garantire la sopravvivenza delle colonie illegali israeliane e con compensazioni economiche ai palestinesi. I palestinesi, non invitati né consultati, respinsero il piano indignati. In maggio Netanyahu, forse percependo un clima favorevole, annunciò l’imminente annessione unilaterale della Valle del Giordano, poi smentito dalla stessa Casa Bianca in cui qualche funzionario era presumibilmente intervenuto per evitare lo scoppio di una guerra. Infine, in estate, la stipula dei cosiddetti “Accordi di Abramo” tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrein – primi paesi arabi a riconoscere Tel Aviv dopo Egitto e Giordania. Da molti decenni i palestinesi si erano abituati a distinguere tra il sostegno delle opinioni pubbliche del mondo arabo e le scelte politiche delle rispettive leadership, mosse soprattutto da un pragmatismo che in molti casi si era rivelato cinico. Gli “Accordi di Abramo”, patrocinati da Jared Kushner e dal governo saudita, spazzavano via quel velo d’ipocrisia che si respirava nelle corti e nelle cancellerie arabe nei confronti della causa palestinese e aprivano la strada a un’ulteriore fase di instabilità rispetto alla questione israelo-palestinese: solo il tempo ci dirà quanto la percezione di una irrecuperabile marginalizzazione della causa palestinese sia stata tra le ragioni più o meno rilevanti della scelta di Hamas di avviare una nuova forma di lotta con l’operazione del 7 ottobre 2023.  

A questi paesi del Golfo se ne aggiunsero poi altri due. In dicembre il Marocco firmò il trattato con Israele, ottenendo in cambio il riconoscimento statunitense della sovranità di Rabat sul territorio occupato del Sahara Occidentale, ancora una volta in aperta violazione del diritto internazionale e dell’ONU. La svolta diplomatica avvenne nelle stesse settimane in cui si era interrotto il cessate il fuoco che durava ormai dal 1991, dopo l’inizio di proteste popolari dei sahrawi contro la costruzione di una strada da parte del governo marocchino che, a loro giudizio, era in violazione della lunga tregua. La crisi, invece di essere contenuta, fu di fatto alimentata dalla nuova forza politica acquisita dal Marocco, che in altre epoche si era trovato diplomaticamente isolato: la novità di questa fase conflittuale era il sostegno attivo di Israele, che divenne un cruciale partner militare di Rabat attraverso accordi di cooperazione molto avanzati, tradottisi in rilevanti acquisti di droni che l’esercito marocchino cominciò a impiegare nel Sahara Occidentale, con un impatto significativo nella guerra coloniale in corso. Il destino dei sahrawi e quello dei palestinesi sembrano oggi sempre più legati anche per le modalità fortemente asimmetriche e ineguali dei rispettivi conflitti. Israele, scommettendo sulla stabilità del Marocco nel lungo periodo, siglò anche un accordo per la costruzione di due impianti industriali per la produzione di droni militari nel paese maghrebino.

Il tema della stabilità del regime divenne cruciale anche di fronte al quarto paese che aderì agli “Accordi di Abramo”, il Sudan, convinto dagli Stati Uniti alla pacificazione con Israele in cambio della cancellazione del paese africano dalla lista americana dei paesi sponsor del terrorismo e di un cospicuo accordo finanziario. Lo scoppio di una guerra civile, nel 2023, aprì nuovi scenari anche rispetto alla tenuta del nuovo corso diplomatico: da qui è necessario riflettere sul possibile ruolo che in prospettiva potrebbe assumere Israele per evitare che la guerra metta in discussione l’accordo del 2021.

In questo quadro già articolato, ci sono due ulteriori scenari, quello siriano e quello afghano, che sono connessi al tema del ritiro americano dai conflitti promesso d Trump nel corso della campagna elettorale, in entrambi i casi in seguito a un’escalation promossa dallo stesso leader repubblicano. L’esito di queste vicende conferma che la conclusione di una guerra non coincide necessariamente con il ritiro di una delle parti in causa. In Siria Trump ordinò alcuni raid contro i laboratori chimici di Assad, prima di ritirare le truppe americane nel 2018, lasciando il paese mediorientale, tutt’altro che pacificato, alla rivalità russo-turca e abbandonando i curdi, a lungo alleati di Washington nelle guerre locali.

In Afghanistan l’escalation fu più evidente. Qui nel 2017 Trump autorizzò l’uso della GBU-43 MOAB bomb: l’ordigno non era mai stato consentito dalle amministrazioni Bush e Obama perché per la sua potenza esplosiva si riteneva che potesse causare un eccessivo numero di vittime civili. Quell’autunno Trump aumentò la presenza di truppe americane in Afghanistan e favorì l’incremento dell’uso dei droni. Nel complesso, secondo uno studio della Brown University, nel corso del quadriennio il numero di vittime civili afghane crebbe del 330% rispetto al 2016 e parte notevole in ciò ebbero i droni: nel 2019 il leader repubblicano decise anche di revocare un ordine esecutivo di Obama che obbligava il Pentagono a rendere pubblico il numero di vittime civili delle operazioni con i droni. La firma dell’accordo con i talebani a Doha nel 2020 fu un altro fattore di instabilità: non coinvolgendo il governo legittimo che, per quanto debole, era pur sempre originato da un processo elettorale riconosciuto dalla comunità internazionale, Trump pose le basi per una nuova fase di conflittualità, che produsse instabilità e nuovi scontri civili tra afghani (con l’intervento ulteriore della locale branca dello “stato islamico”), dopo il ritiro delle truppe americane nel 2021, a sua volta gestito malamente dal successore Joe Biden.

La storia, si sa, non si ripete uguale a sé stessa e le mutate condizioni favoriscono diverse evoluzioni. Ma l’esperienza trumpiana del 2017-2021 offre un chiaro segnale di come il leader repubblicano consideri il Medio Oriente e gli attori che vi agiscono. Le parole del marzo 2024 di Kushner, secondo cui Gaza sarebbe un luogo adatto a costruire pregevoli proprietà immobiliari con vista mare mentre i palestinesi andrebbero deportati nel deserto, spiegano perché la disastrosa e incerta gestione di Biden, incapace di fermare la lunga scia di sangue prodottasi tra 2023 e 2024, potrebbe non rappresentare il momento più buio della storia della questione israelo-palestinese.

(Foto: The White House from Washington, DC – Cerimonia di firma degli Accordi di Abramo, 13 agosto 2020)

  • Ricercatore di Storia contemporanea presso l’Università Iulm di Milano.