La passione per le riforme costituzionali è trasversale: non c’è maggioranza, di destra, sinistra, presunto centro che, dalla fine degli anni ‘80 ad oggi, non abbia invocato una revisione della Costituzione repubblicana, tentando di imputare al testo le incapacità e le inefficienze che connotavano e tuttora connotano il contesto politico italiano.

Fu il centrosinistra ad approvare la riforma del Titolo V – nel tentativo (non proprio riuscito) di sottrarre argomenti elettorali all’espansione della Lega di Bossi tutta concentrata nel “ricco Nord” – della quale va qui evidenziato soprattutto l’assetto istituzionale che si volle dare alle regioni. Insomma, fu il centrosinistra a ampliare l’applicazione del meccanismo del simul stabunt, simul cadent, pensato per i comuni e le province e fondato sull’elezione diretta del Presidente regionale, nonché sul premio di maggioranza consegnato alle liste del vincitore nella competizione monocratica.  Questa “conquista” fu in realtà il modesto lascito del lavoro fatto dalla Commissione bicamerale per le riforme istituzionali (cd. Bicamerale D’Alema), che si era invero spinta ad immaginare un profondo riassetto della forma di governo vigente, con l’introduzione dell’elezione diretta del Capo dello Stato, così da dirigere il nostro sistema verso il modello semi-presidenziale in uso in Francia.

Dunque, c’è poco da stupirsi se nell’area culturale del centrosinistra (anche del centrosinistra cattolico) emergono inviti, come quello avanzato da Stefano Ceccanti ed altri, a “dialogare” con la destra meloniana sul premierato. Quello che continua a stupire (e ad amareggiare chi desidera conservare un briciolo di onestà intellettuale) è che si persevera in questa linea di pensiero in nome della forma di governo parlamentare. Qui sta l’equivoco, la contraddizione e anche la contraffazione delle parole e dei concetti.

L’idea del premierato a livello nazionale rispecchia nella sua logica di fondo il sopracitato simul-simul, con qualche aggiustamento dovuto alla permanenza del Presidente della Repubblica (e qui intravediamo un elemento assai problematico, di cui torneremo a parlare più avanti). Per dare l’idea che quanto proposto – non da oggi – non sia altro che una variante di quel che conosciamo e che è sperimentato nella stragrande maggioranza delle democrazie occidentali, si è ricorsi alla suggestiva etichetta della forma di governo “neo-parlamentare”. Un’etichetta che, però, nasconde un mondo completamente diverso da quello che dovrebbe essere vetero-parlamentare o parlamentare tout court.

Tratto distintivo della forma di governo parlamentare è che il Governo, vertice del potere esecutivo, nasce e muore per una scelta del Parlamento, detentore del potere legislativo ed unico organo dotato di una capacità rappresentativa pluralistica che gli proviene dall’essere eletto a suffragio universale e diretto dal popolo sovrano. La catena della legittimazione democratica è molto lineare: i cittadini votano per il Parlamento, il Parlamento acconsente alla nascita di un governo che sia espressione di una maggioranza nel suo seno e può rimuoverlo.

Questa linearità teorica è ovviamente condizionata, in pratica, dai risultati elettorali. E vivaddio che ciò accade: è la dimostrazione che si celebrano elezioni libere, nelle quali può emergere la diversità di opzioni e tendenze culturali, sociali e politiche. Gli scenari che si dipanano a seguito di questi risultati sono essenzialmente due: o emerge una maggioranza chiara all’interno del Parlamento (sia essa di un solo partito o di più partiti fra loro alleati durante le elezioni o disponibili sin da subito a collaborare) oppure è necessario un lasso di tempo (a volte anche significativo) affinché partiti avversari negozino fra loro un patto di governo, con concessioni reciproche. Se ben ragionato, un siffatto patto di governo consente ai singoli partiti sottoscrittori, che non possono corrispondere integralmente ai programmi presentati in campagna elettorale, di portarne avanti almeno alcuni punti, quelli più “qualificanti” per loro e per i loro elettorati.

Il prototipo del governo parlamentare è il sistema britannico: è da qui che viene tratta la parola premier, storpiatura anglofona del francese premier ministre. Pure il sistema britannico, malgrado una vulgata che ne ha sempre voluto cogliere l’andamento fortemente incentrato sul ruolo primo-ministeriale, ha mostrato che le dinamiche sopra ricordate sono inestricabilmente connesse al parlamentarismo. Nei tempi recenti, infatti, i due principali partiti che si contendono la guida del governo (i Laburisti ed i Conservatori) non sono sempre stati in grado di governare da soli. Persino il sistema elettorale a collegi uninominali a turno unico ha dato talvolta risultati frammentati, obbligando i partiti di maggioranza relativa a stringere accordi (di coalizione veri e propri, o di supporto esterno) con forze minori.

Peraltro, i premier britannici hanno mostrato di essere tutto tranne che irremovibili: la loro duplice identità di guide del governo e capi di partito devono permanere simbioticamente. E quando il partito maggioritario ha deciso di cambiare il suo leader, è cambiato anche il primo consigliere di Sua Maestà. Dal 2019 ad oggi ci sono state due elezioni e ben 5 primi ministri. Il partito conservatore dal 2019 ha cambiato 4 leader e inaugurato 4 governi diversi. In uno di questi, il secondo governo di Boris Johnson, il primo ministro è stato obbligato a dimettersi da un vero e proprio ammutinamento interno, con dimissioni a catena di tutti i suoi ministri: una prova evidente del fatto che il Cabinet resta un organo complesso, non dominato in maniera assoluta ed assolutistica dal primo ministro-leader, malgrado il suo potere di nomina e revoca dei ministri. Ministri che, per regola costituzionale, devono essere anche parlamentari: a parte gli sparuti casi di Lords nominati al governo, gli altri sono deputati che godono individualmente dell’investitura ottenuta nel collegio di elezione.

Si tratta di considerazioni che possono sembrare banali, ma che almeno sgombrano il campo dall’equivoco, propalato proprio dai più accaniti riformisti, che nella forma di governo parlamentare il governo avrebbe uno scarso tasso di legittimazione democratica. Niente di più falso, dato che il sistema richiede un alto livello di integrazione politica e rappresentativa se non vi è alcuna maggioranza. Non mi pare necessario spendere molti argomenti per dimostrare come la negoziazione e gli accordi siano la chiave di una convivenza pacifica e democratica.

L’idea soggiacente alla proposta del premierato non ha nulla a che vedere con questa linearità democratica tipica del sistema parlamentare di governo. Anzi, vi è un’inversione strutturale della catena di legittimazione degli organi dello Stato. Il popolo vota – secondo modalità nemmeno troppo chiare – un Presidente del Consiglio e in funzione di questa elezione viene assegnata, tramite congegni complessi e talvolta diabolici, la maggioranza parlamentare. Nell’uno – il capo eletto – stanno i più: è un addio, chiaro e netto, al pluralismo politico: concettualmente non è tanto dissimile da una monarchia elettiva e forse la supera. Se è vero che bisogna essere cauti nell’utilizzare termini dolorosi e storicamente connotati, appiattire tutti gli organi dello Stato attorno ad un’unica figura non è molto diverso dal creare una pseudo-dittatura elettiva, comunque tossica per il Paese e non solo.

Questo appiattimento riguarda evidentemente i due motori del sistema – Governo e Parlamento – ma non lascerà indenni nemmeno gli altri organi di garanzia la cui formazione passa attraverso un voto del Parlamento (penso alla Corte costituzionale o al Consiglio superiore della magistratura). E la consonanza con il dominus o la domina del momento per forza di cose si propagherà al Capo dello Stato, eletto da quello stesso Parlamento formato sulla base dell’elezione premierale.

Qui veniamo ad un’immensa contraddizione dei riformisti nostrani, soprattutto – direi – di quelli di centrosinistra: la difesa del ruolo presidenziale anche nel contesto del premierato. Si tratta di una postura del tutto contraddittoria, perché il ruolo di garanzia presidenziale non gli deriva dal taglio di nastri e da messaggi a questa o quella associazione in occasione dei loro anniversari di fondazione. Il Capo dello Stato può essere garante nella misura in cui dispone di un ventaglio di poteri che gli consentono di “arbitrare” la contesa politica, soprattutto nei momenti più delicati, rappresentando valori unitari ed interessi considerati super partes. Fuori dalle circonlocuzioni, questi poteri sono quelli connessi alla formazione del governo ed allo scioglimento anticipato delle Camere: in altre parole, sono le attribuzioni che gli consentono di essere “commissario delle crisi di governo”, impedendo che tutto si risolva nell’arbitrio e nel calcolo delle forze politiche che, per interessi particolari, preferiscono andare ad elezioni anticipate o evitare le urne per un certo lasso di tempo.

Ora, il centrosinistra sta spendendo assai frequentemente “la difesa delle prerogative del Quirinale” come argomento per contestare la riforma del premierato. Un argomento ben valido, ancorché non unico. Chi, però, nella medesima area culturale, invoca la difesa del Presidente, allo stesso tempo invitando a riflettere sull’elezione diretta del Premier, sta conducendo un’operazione di contraffazione intellettuale non irrilevante, probabilmente condizionata da una certa deferenza per la personalità del Presidente della Repubblica pro tempore (peraltro esponente del medesimo schieramento politico), che camuffa il nucleo duro della propria posizione: la definitiva trasformazione dell’idea di rappresentanza politica, che da pluralista si fa monocratica, se non addirittura monoteista.

Bisognerebbe allora avere il coraggio e l’onestà intellettuale di propugnare una tesi coerente fino in fondo, dichiarandosi pronti e ben felici di abbandonare la forma di governo parlamentare, per dirigersi verso altri lidi. Attenzione, però, perché “il premierato maggioritario” non ci conduce solo fuori dal sistema parlamentare, ma rischia di alterare in maniera così radicale l’idea della rappresentanza politica e della sua dinamica da farci abbandonare anche la forma di Stato democratico e costituzionale instaurato dalla nostra Costituzione e da tutte le Costituzioni occidentali.

Per tenere insieme capra e cavoli, occorrerebbe ammettere che l’unico sistema che può in astratto soddisfare le diverse aspirazioni riformistiche è quello del semi-presidenzialismo francese. La conseguenza è che, mettendosi l’animo in pace, bisogna rinunciare a chiare lettere al “Presidente garante” per accettare l’idea del Presidente governante. O almeno governante fino a che glielo consentono gli elettori: le elezioni legislative del 2022 e poi quelle del luglio 2024 a seguito di uno scioglimento anticipato hanno mostrato come il potere presidenziale resti condizionato alla composizione della Assemblea Nazionale. Qui allora sta il difettuccio: in Francia si votano ancora i parlamentari, non ci sono premi, ci sono collegi in cui competere e vincere i seggi. Ecco perché il tanto osannato modello transalpino ha perso fascino per i riformatori italiani, che sono tornati alla vecchia passione “neoparlamentare”, che, giusto per ricordarlo, non esiste in nessun altro sistema al mondo, se non nelle nostre regioni.

Meglio tenere tutto come è? La risposta è positiva se l’alternativa è quella del premierato e della distorsione della democrazia rappresentativa. Ma nessuno dice che la forma di governo è immodificabile: ci sono infinite possibilità per migliorarla, per rendere meno complessa l’investitura dei governi e renderne più difficile una sostituzione. Ad esempio, il superamento ordinato e ragionato del bicameralismo paritario e perfetto può essere un inizio; si può ragionare di sfiducia costruttiva; si può pensare ad un’investitura fiduciaria unica in seduta comune, sino a quando non sarà superato il bicameralismo stesso. È però fondamentale identificare bene i principi ispiratori delle riforme, a partire dal mantenimento schietto di una dinamica rappresentativa lineare.     Questo punto è mancato e continua a mancare in Italia, almeno dal 2005: si è ricorsi a sistemi elettorali, sempre più concettuosi e complessi, per garantire prima e favorire poi l’emersione di maggioranze parlamentari, dandosi ben poca pena di verificare se e come la volontà degli elettori potesse essere rispettata. Abbiamo avuto i due sistemi elettorali bocciati dalla Corte costituzionale (il Porcellum prima e l’Italicum dopo); oggi abbiamo un c.d. Rosatellum che, per quanto alteri meno l’espressione popolare sotto il profilo del consenso su scala nazionale delle forze politiche, è intriso di meccanismi diabolici di difficile comprensione per l’elettore medio, impossibilitato a sapere in quale contesto territoriale produrrà un effetto utile il suo voto nella quota più consistente (ovvero la parte proporzionale organizzata in collegi plurinominali).

Prioritario è dunque il ristabilimento di una relazione diretta (come diretto è il suffragio) fra eletti ed elettori: può essere nei collegi uninominali a turno unico, a doppio turno, in circoscrizioni piccole senza voto di preferenza o con. Su queste possibilità c’è ampio spazio per una discussione, per una valutazione di costi e benefici, per una ponderazione di adeguatezza anche in funzione di risultati che si intendono conseguire (anche la semplificazione tendenziale del quadro politico). Il principio irrinunciabile, però, è che il Parlamento deve continuare ad essere eletto direttamente e che chi vi siede deve rappresentare la nazione (art. 67 Cost.) e non un leader cui deve la candidatura in liste bloccate e l’elezione grazie al premio di maggioranza.

Il premierato nega, senza se e senza ma, questi principi e chi ritiene di poter ragionare su questo modello è pronto a fare una nettissima scelta di campo: rinunciare all’elezione diretta e libera del Parlamento in nome di un Governo forte, non si sa per fare cosa o, meglio, per condurre il Paese dove meglio aggraderà alla quota maggioritaria degli elettori. Il che, nell’attuale situazione di disaffezione al voto politico che, come è noto, perdura e, anzi, aumenta consentirebbe di parlare di una minoranza elettorale attiva che in Italia potrebbe determinare il “blocco di governo”, pur sempre nel nome – in tal caso abusato – della sovranità popolare. Non so se questo rappresenta un problema per il cd. premierato et similia, ma certo lo è per la democrazia tout court che si sarà pure lasciata alle spalle periodi bui della nostra storia, come ha ricordato recentemente il Presidente Barbera, ma che pare abbia rinunciato senza troppe ambasce a partecipazione politica e a un confronto serrato tra forze politiche alternative e riconoscibili ben oltre la loro momentanea leadership.

(Fonte: it.wikipedia.org)

  • Antonio D'Andrea

    Professore ordinario del Dipartimento di Giurisprudenza dell'Università degli Studi di Brescia, dove insegna diritto costituzionale nel corso di laurea magistrale. È membro dell'Associazione italiana dei costituzionalisti (AIC). Allievo di Valerio Onida, è coordinatore scientifico dell'Associazione Passione civile con Valerio Onida, nata in sua memoria.