La notizia della scomparsa del terzo polo è forse un tantino esagerata, come a suo tempo quella che riguardava Mark Twain. Lo scrittore smentiva la circostanza della sua morte telegrafando dalle Bermude dopo che sulla stampa era stato pubblicato il suo necrologio. Renzi e Calenda sono stati, fin qui, meno assertivi e devono ancora fare i conti con un risultato elettorale molto al di sotto dei loro auspici. Ma non c’è dubbio che nel paese esista tuttora un sentimento politico che pure fatica a districarsi tra la maggioranza della Meloni e l’opposizione della piazza chiamata a raccolta da Elly Schlein. Sentimento strategico, ancorché ridotto ai minimi termini numerici. E tanto più strategico se si considera che a votare questa volta, per la prima volta, non è andata la maggioranza assoluta degli elettori. Segno che nella pancia del paese c’è ancora una larga fascia di persone che non si riconoscono nelle due principali offerte del mercato politico.
S’intende, non è certo realistica l’idea del primato del “centro”. E anche quanti, come il sottoscritto, si sono sbracciati in tutti questi anni a denunciare gli eccessi di un bipolarismo selvatico e muscolare non possono più cullarsi nell’illusione che quel pendolo che oscilla tra destra e sinistra possa fermarsi nel mezzo, riesumando una tradizione che già al tempo della Dc era un po’ diversa e forse più precaria di come amiamo raccontarla. Resta il fatto però che anche la relativa perfezione con la quale si immagina di disegnare due blocchi simmetrici e speculari, chiusi tutti e due nella loro pretesa di autosufficienza, lascia tuttora scoperto un territorio di sensibilità politiche e di potenzialità elettorali che continua a denunciare i limiti di una geografia che si nutre da più di vent’anni dell’illusione di bastare a se stessa.
Il punto cruciale, a mio giudizio, sta proprio nel fatto che lo sciopero del voto ha raggiunto ormai punte drammatiche. Punendo le forze di centro, indubbiamente. Ma disvelando anche le perplessità che accompagnano la marcia apparentemente trionfale delle due coalizioni che ora vanno per la maggiore. Così, forse, di queste cose sarebbe il caso di parlare cercando di guardare alle cose nel loro movimento e nella grande quantità e varietà di conseguenze che ne possono ancora discendere.
Certo, neppure il centro è un monolite. E quando se ne parla occorrerebbe tener conto delle sue molte varianti. Vi sono sensibilità più “centriste” anche dentro il Pd. E perfino dentro la maggioranza di destra, laddove Forza Italia ha conosciuto un successo che solo pochi mesi fa sarebbe stato largamente imprevedibile. Esiti diversi, quasi antitetici, di una sensibilità che resta ancora in attesa di una definizione più rigorosa e meno “comoda” di quelle che stiamo vedendo all’opera.
Insomma, quella del centro non è e non può essere una pura questione di geometria. Resta il fatto, però, che l’attuale formato politico, pur largamente agevolato dalla legge elettorale, condanna alla marginalità un ampio segmento di opinione. Non più quello che si radunava un tempo sotto le bandiere democristiane. Ma neppure quello che qualche anno dopo veniva ridotto alla irridente definizione del cespuglio. E se questo stato d’animo è sopravvissuto al crollo della prima repubblica, alle mitologiche aspettative della seconda e alla celebrazione delle opposte leadership che si sono via via succedute, è segno che forse qualcosa è rimasto nel fondo del paese.
Ora il tema non mi pare tanto quello di celebrare un processo postumo a Renzi o a Calenda per l’uso che hanno fatto di questo piccolo patrimonio. E neppure quello di andare in cerca di un nuovo leader, o portavoce, o federatore che sia, a cui chiedere, in cambio della gloria che gli si offre, di manifestare un carattere più paziente e meno spigoloso dei predecessori più recenti. Il tema semmai è quello di dove si possa cercare di collocare un’iniziativa che non abbia né la velleità di far tutto da soli, né la timidezza di volersi a tutti i costi nascondere in casa d’altri.
Personalmente, credo che l’unico ambito in cui una simile iniziativa possa mettere radici sia quello dell’opposizione. Poiché la destra non sembra avere nessuna intenzione di rinunciare alla radicalizzazione della lotta politica. E non solo perché si illude di trarne il maggior profitto. Ma anche perché l’eccessiva assertività (voglio adoperare le parole più blande) fa parte del suo carattere più profondo. Dunque, da quella parte è davvero difficile immaginare che fiorisca qualcosa. Così, giocoforza, diventa pressoché inesorabile cercare di parlare con quanti cercano di contrastare la deriva di questi ultimissimi anni.
E qui però non c’è da illudersi di aver risolto i problemi. C’è da riconoscere semmai che i problemi proprio lì cominciano. Poiché anche a sinistra la tentazione di giocare specularmente sul terreno della radicalizzazione è assai forte. E trova del resto incoraggiamento nella strategia dell’altra parte, ben contenta che il gioco sia questo. Dunque, se si vuol cercare di intraprendere questa strada occorre considerare tutte le difficoltà che ne fanno parte. Difficoltà che non hanno bisogno di agenti provocatori, sia chiaro. Ma neppure di bravi ragazzi che cantano in coro con diligenza e abnegazione.
Si tratta allora di cercare di definirsi. Il centro non è il custode delle buona maniere. È un’idea del paese. O almeno dovrebbe esserlo. È la convinzione che in momenti di crisi tanto più serva la maggior coesione. È l’idea di una comunità organizzata rispettandone la complessità, il pluralismo, l’articolazione territoriale. È la cultura dei corpi intermedi. È il riconoscimento del valore democratico del proprio avversario. È il pluralismo, come si dice con parola ormai desueta. È un’idea minimalista della leadership. È il girare alla larga dalla sacralità del potere.
Tutte cose di cui il centro non ha l’esclusiva. Ma di cui può vantare il primato. (E poi c’è il fatto, tutt’altro che marginale, che il centro, in tutte le sue varianti, custodisce un’idea della collocazione internazionale del paese priva di ogni ambiguità. Quelle ambiguità che altrove mettono spesso e volentieri in tensione le nostre alleanze. Argomento che non sempre viene tenuto così da conto, ma che in circostanze come quelle che stiamo attraversando appare sempre più cruciale.)
Se c’è tutto questo, non guastano anche le buone maniere. Ma il centrismo, insisto, non si può ridurre al galateo. E il galateo serve solo quando la politica riesce ad essere davvero e fino in fondo un rito di inclusione. Oltre che, per l’appunto, una certezza geopolitica.
Ecco, io credo che per includere oggi serva soprattutto sforzarsi di recuperare milioni e milioni di italiani che non vanno più a votare. Persone che non si arruolano sotto le bandiere che sventolano di qua e di là. E che magari sono in cerca di un’offerta politica più ampia di quella che passa il mercato allestito in questi ultimi tempi. Sarebbe il caso allora di allargare lo spettro dell’offerta politica. E magari anche di smettere di considerare il centro come il luogo di una troppo astuta ambiguità.
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