Ci risiamo. La vicenda tragica dell’attacco di Hamas in Israele ha innescato ancora una volta il circo mediatico nostrano. Ed è partito un appello allo schieramento «dalla parte giusta», in cui i severi censori della verità del momento cominciano a distribuire patenti di coerenza e correttezza o di illegittimità e biasimo, a seconda del modo con cui ciascun politico, intellettuale, essere umano pensante, prende posizione sul drammatico conflitto in corso. Stare con Israele è diventato non quello che dovrebbe essere: un riflesso immediato di umanità e logica di fronte all’orrore senza limiti dell’attacco crudele e indiscriminato a civili e villaggi. Ma un qualcosa simile a un dogma di fede che non va discusso né articolato, né spiegato. Una delle frasi fatte più diffuse è proprio: «senza se e senza ma». Un effetto immediato di questo tribunale della rispettabilità è che non è più permesso nessun uso della logica, della dialettica, della ricerca, dell’analisi in dettaglio delle situazioni.

Niente di nuovo. Abbiamo alle nostre spalle un anno e mezzo di guerra in Ucraina in cui il meccanismo è stato del tutto analogo. Siamo arrivati ad assistere all’incredibile comportamento di uno dei maggiori quotidiani italiani che ha pubblicato le liste di proscrizione dei «putiniani d’Italia». Cambiano leggermente i protagonisti (alcuni sono immarcescibili al centro di questa scena, dalle loro ben presidiate posizioni televisive o giornalistiche), ma gli schemi mentali e le modalità costruttive sono le stesse. La macchina del linguaggio e l’armamentario delle frasi fatte sono del tutto analoghe. Proviamo a descriverle e ad approfondirle minimamente.

  1. «Prendere posizione» è il diktat Sarà evidente a tutti che si tratta di un linguaggio non per caso militare. L’opinione pubblica, l’intellettualità, la politica, vengono riassorbiti in un passaggio che fa entrare simbolicamente tutti, attori e spettatori, nella parte di chi si schiera in un conflitto. È naturalmente comprensibile, spesso ineccepibile: soprattutto di fronte a gesti così chiaramente estremi per cui qualche parte in campo si macchia di comportamenti assolutamente inaccettabili. Nessuno può sentirsi neutrale o superiore rispetto al male. Non c’è possibilità morale della neutralità. Ma la domanda nasce subito dopo: la politica o la cultura possono e devono limitarsi a immedesimarsi nei conflitti, oppure hanno un ruolo – nella storia dell’umanità – che è esattamente quello di inserire e rielaborare i conflitti in una logica di tipo diverso? La politica e la cultura hanno sempre provato a reinventare i conflitti con mezzi diversi, per ridurre la violenza bestiale di cui l’umanità è capace. Fare la guerra con altri mezzi è il compito proprio dell’essere umano pensante. Non si tratta quindi di negare la scelta morale. Quanto piuttosto di chiedere a politica e cultura di assumere le proprie responsabilità proprio nello schierarsi, assieme allo schierarsi, nel medesimo momento in cui ci si schiera. Giudicare nei conflitti è sacrosanto: chiedere di fermarsi allo schieramento è amputare la politica e la cultura del senso umano per cui si sono sviluppate nei secoli.
  2. Tutto è appiattito sull’istante. Quante volte, di fronte ai primi cenni di articolazione del ragionamento, abbiamo sentito il mantra: «stiamo alla questione dell’oggi»! Non può esserci in questa logica sbrigativa la dimensione del passato, è sbagliata qualunque indagine sulle cause, nell’ansia di stare dalla parte giusta e di proclamarlo ad alta voce. La causa di questo divieto è molto semplice: ogni tentativo di indagare sul passato è interpretato come un’attenuazione della riprovazione. Il linguaggio anche qui è chiarissimo: non si può rischiare la «giustificazione» dei criminali, degli aggressori, degli assassini. Ma compito della storia non è giustificare, non è distribuire patenti di verità e giustizia: non si annacquano affatto per principio i crimini se si indaga sulle loro origini. Compito dello studio del passato è propriamente la comprensione, nel senso weberiano o blochiano. La ricerca delle cause aiuta a comprendere (nei limiti del possibile, perché la causalità storica non è mai del tipo «1+1=2»). Studiare le variabili, collocare le vicende nel loro contesto non attenua affatto le responsabilità dei protagonisti di un conflitto, semplicemente aiuta a capire come certe cose sono state possibili, e quindi anche come potrebbero essere evitate, corrette, modificate. Gli esseri umani, sempre purtroppo aperti alla crudeltà abietta, sono anche realtà che cambiano nel tempo.
  3. Ma il punto è proprio questo: nell’ansia di schieramento assoluto si abolisce implicitamente anche il futuro. Non si deve discutere del passato, ma tantomeno del domani, di quello che può avvenire dopo lo schieramento. Chi sta dalla parte giusta approva quello che la propria parte fa, punto e a capo. Non si discute della reazione al male, all’odio, alle ingiustizie. Che è invece propriamente un tema cruciale all’ordine del giorno nella realtà dei fatti, come nel caso israeliano la stessa presa di posizione dell’amministrazione Biden dimostra senza equivoci: l’aiuto ad Israele aggredita è andato assieme a suggerimenti e insistenze sui modi della reazione. Infatti, stando dalla parte giusta della storia è bene che ogni attore della scena globale si ponga sempre anche la domanda: dove dobbiamo andare? Quali solo i prossimi passi? Dove sta la via d’uscita «giusta» dal conflitto, senza dismissione di valori, senza cedimenti al male, ma anche senza aggravamento inutile e controproducente della violenza? Domande difficili, certo, ma ineludibili. Che non coincidono necessariamente con la mera esigenza di fare trionfare la mia parte, ma con la richiesta di affermare la giustizia e i diritti della propria parte nel modo più giusto, più conveniente, più lungimirante, più capace di evitare altri conflitti nel futuro. Tenendo conto che la riduzione della violenza e la volontà di costruire assetti pacifici – dentro e alla fine dei conflitti – non è affatto necessariamente un cedimento rispetto alla giustizia, bensì il faticosissimo e spesso arduo tentativo di una sua più piena realizzazione.
  4. In tutto questo amputare il passato e il futuro, manca insomma la realtà, si isola una certa rappresentazione del conflitto. Che diventa inevitabilmente fissista, schematica, ideologica. Ed è non per caso soggetta alle maggiori semplificazioni, alla propaganda, alle caricature delle infinite variabili umane che sono in gioco in un conflitto. Come si sa, la prima perdita nelle guerre è spesso la verità. Quanto invece ci servirebbe – oggi come sempre – una sostanziale iniezione di «principio di realtà» nel dibattito sulle guerre in corso! Per affermare per esempio un concetto banale: nessuna violenza terroristica nella storia ha mai cambiato strutturalmente le cose, ma nessuna imposizione di un ordine militare che non tenesse conto dell’inclusione dei deboli e degli sconfitti è mai stato duraturo e solido.
  5. Si trascura infine, in questa censura del dibattito, che la democrazia è invece esattamente dialogo, ricerca della verità, confronto continuo di punti di vista. Per difendere i valori più profondi della democrazia, si dà una pessima rappresentazione della democrazia. Ma per fortuna la democrazia spesso si rivela più forte dei suoi dogmatici sedicenti difensori. Come funziona nei casi più veri. Ad esempio in Israele, dove il dibattito interno su come gestire la questione del rapporto con i palestinesi non per caso è stato storicamente (ed è, perfino nei giorni del lutto e del pianto) vivissimo, ricco, complicato. Ma vogliamo parlare dell’opinione pubblica statunitense e delle sue anche forse eccessive polarizzazioni? Il dibattito va ben al di là degli schieramenti iniziali: si può essere tranquillamente convinti di essere dalla parte giusta e intanto discutere quali debbano o possano essere i prossimi passi. Nel caso italiano, invece, l’ansia di allineamento fa premio su ogni raziocinio. L’approccio censorio delle nostre élites, la riduzione consapevole degli spazi del confronto, il fastidio per le opinioni diverse dalle proprie, appare quindi non solo poco democratico, ma provinciale al massimo, fuori dalle grandi correnti vitali del mondo libero. Speriamo di riuscire prima o poi a uscire da questi drammatici limiti.

Foto di Jeremy Bishop su Unsplash)

 

  • Guido Formigoni

    Professore di Storia contemporanea e Prorettore vicario, Università IULM - Milano. Coordinatore della rivista web Appunti di cultura e politica.