Il 3 luglio 2023 Israele ha condotto un’ampia operazione militare nel campo palestinese di Jenin, cittadina nel nord dei territori palestinesi occupati della West Bank: l’intervento armato si è concluso dopo due giorni e ha lasciato sul terreno almeno dodici morti e un centinaio di feriti tra i palestinesi. Era convinzione delle autorità di Tel Aviv che il campo desse rifugio ai responsabili di alcuni attacchi a obiettivi israeliani nel corso della recente escalation di violenza. Individuare una causa specifica che muove questa o quell’azione appare sempre complicato in un conflitto interminabile, che proprio quest’anno ha celebrato il settantacinquesimo anniversario dei momenti fondativi delle due parti in causa, ossia l’epopea della guerra d’indipendenza di Israele e la Nakba (catastrofe) dei palestinesi.

Esistono comunque almeno due traiettorie per comprendere la crisi attuale. Nel lungo termine, la fine dell’era post-Oslo ha portato alla diminuzione delle prospettive di uno stato palestinese, mentre la politica israeliana si è spostata a destra, soprattutto dopo il ritorno al potere del Likud di Netanyahu nel 2009, che ha governato finora con varie formule, salvo una breve parentesi tra 2021 e 2022. I suoi governi si sono impegnati in un processo di progressiva emarginazione della consistente minoranza di palestinesi con cittadinanza israeliana, secondo gli intenti delle componenti israeliane più nazionaliste (si vedano la “legge sulla Nakba” del 2011 e la “legge sulla nazionalità” del 2018), che è andata di pari passo con l’inasprimento delle attività contro i palestinesi dei territori occupati. Nel campo dell’Autorità Nazionale Palestinese (Anp), dopo la traumatica rottura tra Hamas e Fatah nel 2007, il quadro politico si è cristallizzato e, con l’incapacità della leadership di Abu Mazen di generare un valido processo di avvicendamento generazionale, si è inaridita la capacità di manovra dell’Anp. Le prospettive dei palestinesi si sono ulteriormente deteriorate dopo la normalizzazione dei rapporti tra Israele e alcuni paesi arabi con gli “accordi di Abramo” del 2020 e i successivi sviluppi: prima con Bahrein ed Emirati Arabi Uniti, poi con Sudan e Marocco – sullo sfondo la benevola accondiscendenza dell’Arabia Saudita, con cui Netanyahu si è ritrovato nell’ossessiva preoccupazione per l’Iran.

Nel breve periodo conta la natura dell’ultimo governo Netanyahu, nato dopo le quinte elezioni in quattro anni. Alla coalizione di governo hanno aderito, oltre al Likud, altri partiti di estrema destra e della destra religiosa, che si sono comportati con notevole assertività su alcuni temi sensibili. Uno di questi è la riforma del sistema giudiziario, con la prospettiva di una riduzione della sua indipendenza dal governo, che ha provocato numerose proteste nel paese. La radicalizzazione si è estesa alle politiche adottate nei territori occupati, con una serie di decisioni che hanno spazzato le residue speranze di pace. Da alcuni passi compiuti si sono rese ben evidenti due tendenze del governo: promuovere l’annessione di fatto della Cisgiordania e instaurare un regime di netta separazione tra israeliani e palestinesi, che in un documento di marzo (Position Paper n. 24) il Forum per la Democrazia che riunisce 120 professori israeliani di Diritto ha definito “apartheid”. L’obiettivo di annessione dei territori ha consolidato il rapporto dell’esecutivo con il movimento dei coloni, la cui voce è sempre più ascoltata.

L’ultimo periodo politico ha infatti registrato un incremento delle azioni violente dei coloni verso i palestinesi in Cisgiordania e un rafforzamento delle operazioni militari. Nel 2023, le autorità di Tel Aviv hanno intrapreso incursioni in campi profughi palestinesi, come Jenin (26 gennaio), Aqabat Jabr (6 febbraio) e Nablus (22 febbraio), provocando vittime e sfollati tra i civili. Dopo Nablus, un uomo non identificato ha ucciso presso il villaggio palestinese di Huwara due coloni di passaggio: in risposta, il 26 febbraio diversi coloni infuriati hanno attaccato il villaggio, causando ulteriori vittime e danni. L’evento è stato descritto come un “pogrom” dal generale israeliano Yehuda Fox. Mentre i ministri hanno condannato l’azione, alcuni esponenti della maggioranza l’hanno sostenuta: è il caso del deputato Zvika Fogel, su cui il procuratore generale d’Israele ha avviato un’indagine per incitamento al terrorismo. La spirale di violenza è proseguita, con azioni sia da parte dei coloni che dell’esercito israeliano in risposta ad azioni di singoli o di organizzazioni palestinesi – in un attentato a Tel Aviv il 7 aprile ha perso la vita anche un cittadino italiano.

Si sta dunque riproponendo lo stesso schema che affossò il processo di Oslo: gli estremisti di entrambe le parti si legittimano a vicenda radicalizzando il confronto. Resta la sproporzione di forze e tra israeliani e palestinesi. Secondo l’ong israeliana B’tselem, escludendo le vittime dei coloni, nel mese di maggio 2023 si contano 50 palestinesi uccisi dalle forze israeliane e due israeliani uccisi da miliziani palestinesi; rispettivamente 20 e 4 è il dato di giugno. Le quattro vittime israeliane di giugno erano coloni dell’insediamento illegale di Eli, uccisi da un commando di Hamas. La vicenda ha suscitato tanto clamore che la notte successiva un altro pogrom di coloni contro alcuni villaggi palestinesi ha provocato una vittima e numerose abitazioni incendiate. Di lì a poco si è verificata l’incursione a Jenin a cui si è fatto cenno all’inizio, e, il giorno successivo, la risposta di Hamas, con un attacco a Tel Aviv che ha provocato una vittima.

È difficile individuare il punto di caduta di questa crisi che si affastella su più livelli e che dipende da molteplici fattori. Anzitutto bisogna attendere come evolverà la politica palestinese, oggi non in grado di rappresentare la vivacità e la varietà culturale della società: bisogna poi valutare l’interazione tra i palestinesi dell’Anp e quelli di Israele, ciascuna componente con culture politiche e interessi diversi. Molto però dipende dall’attore che in questo conflitto detiene le principali leve del potere economico e militare, Israele. La sua crisi interna è tutt’altro che conclusa e affonda in parte in divisioni profonde che risalgono alla fondazione dello Stato di Israele, nato perlopiù per iniziativa di una componente specifica del movimento sionista (quella socialista di origine europea orientale), mentre nel frattempo la società si è trasformata e ha incluso nuovi protagonisti.

Come ha sottolineato Menachem Klein su “+972 Magazine”, il blocco di destra non ha ancora una base sociale solida per prevalere sul campo avverso, poiché è composto da diverse identità che si manifestano in un comunitarismo esacerbato. Tuttavia, possiede una potente narrazione intrinseca alla sua proposta, fondata sull’idea fondamentale dei nazionalismi: preservare l’identità ebraica dello Stato proteggendola dalle minacce interne ed esterne. Dall’altra parte, c’è un movimento a favore dello stato di diritto, della separazione dei poteri e dei diritti delle minoranze, ma anch’esso manca di unità di intenti: qual è il ruolo dei palestinesi in questo contesto? Alle manifestazioni di difesa dello stato di diritto, i palestinesi cittadini di Israele non partecipano se non in modo individuale (il fronte democratico include componenti delle forze armate, che molti palestinesi vedono come ostili). Tuttavia, l’opposizione non può sperare di prevalere senza il coinvolgimento dei cittadini palestinesi di Israele. Il quadro si complicherà ulteriormente se il processo di annessione dei territori occupati proseguirà, portando a un aumento di abitanti (cittadini?) con identità diverse da quella ufficiale.

(Foto di Gilgit Baltistan su Unsplash)

 

  • Enrico Palumbo

    Storico, collaboratore dell'Università Iulm, assegnista di ricerca presso la Sapienza di Roma.