Tra il 2018 e il 2019, a cavallo fra la conferenza sul clima di Katowice e le elezioni europee, il tema dei cambiamenti climatici come sfida mondiale e capace davvero di “cambiare tutto” è esploso per la prima volta con grande forza e in modo davvero globale. In quel periodo sono usciti importantissimi rapporti dell’IPCC, il panel scientifico dell’ONU, che hanno messo sul piatto la gravità della situazione e l’urgenza di agire; e sono emerse anche diverse giovani e meno giovani leader, a partire da Greta Thunberg e i Fridays for Future, che hanno messo al centro del loro impegno la lotta al clima sregolato e ai suoi effetti sempre più evidenti, riuscendo finalmente a trovare un’attenzione mediatica molto ampia. Anche se certamente non in Italia, le elezioni europee del 2019 hanno visto questo tema come un elemento trasversale del dibattito politico. Tanto è vero che la stessa Ursula Von Der Leyen, ministra della Difesa tedesca della CDU, proiettata alla leadership della Commissione europea da un accordo fra Macron e Merkel e dalla maggioranza al Parlamento europeo, ha voluto caratterizzare la sua presidenza con il Green deal europeo. Il Green Deal europeo (o Patto verde) è il vasto programma che sta mettendo in forma di nuove leggi europee l’impegno preso prima di tutti dalla UE di diventare un continente a emissioni nette zero nel 2050; un grande piano per trasformare positivamente il nostro modo di vivere, consumare, produrre e allo stesso tempo affrontare i cambiamenti climatici riducendo le emissioni che lo sconvolgono e investendo su energie rinnovabili, riduzione dei consumi e rispetto della natura; il Green Deal parte da una considerazione di fondo: siamo in estremo ritardo e la scienza ci dice che abbiamo pochissimi anni per invertire la tendenza alla crescita delle emissioni, per investire prioritariamente in tecnologie e soluzioni per l’adattamento e per accelerare l’abbandono dei combustibili fossili, che sono LA causa dei cambiamenti del clima. A differenza del modello americano, la pratica europea è quella di agire attraverso un quadro legale comune che fissa obiettivi numerici e tempi certi, al fine di orientare finanziamenti e risorse sulla base di quelle regole e criteri; le proposte, a differenza di ciò che viene da sempre detto, non sono il frutto di colpi di testa di grigi funzionari europei, ma sono il risultato di un lungo processo legislativo, che parte con consultazioni pubbliche, innumerevoli incontri con gruppi d’interesse, si sostanzia in una proposta che poi è discussa e approvata pubblicamente al Parlamento europeo e in Consigli dei ministri tematici. È più che evidente che la trasformazione ecologica necessita di una enorme convinzione, di mezzi per spiegarla e attuarla, di uno spazio ampio di discussione sulle diverse opzioni in campo, rispondendo in modo efficace agli interessi e alle legittime preoccupazioni di chi ne viene coinvolto. Non è quindi sorprendente che ci siano state e ci siano enormi pressioni da parte di settori legati al vecchio sistema economico e produttivo per rallentare il processo e ostacolarne la realizzazione. La nuova opposizione al Green deal Purtroppo, da alcuni mesi e in vista delle prossime elezioni europee, il Green Deal è diventato ostaggio anche di una battaglia politica che vede una contrapposizione durissima tra la destra ed estrema destra e i settori più convinti della realizzazione del Green Deal. Contrapposizione veramente inedita perché tutte le norme su questi temi, dalle rinnovabili all’efficienza energetica o economia circolare sono state oggetto di un confronto a volte aspro, ma sono quasi sempre state adottate con larghe maggioranze almeno al PE. Non era mai successo, insomma, che il partito di maggioranza relativa si ritirasse del tutto dai negoziati tra i gruppi alleandosi con settori eco-negazionisti fino a quel momento minoritari; né era mai successo che l’Italia si ponesse in  sistematica opposizione di tutti i temi in discussione, e come esplicito sostenitore  di alcuni specifici settori, in particolare agroindustria, industria energivora e produttori e distributori di combustibili fossili, sposando anche posizioni particolarmente eco-scettiche. È questo il contesto nel quale si deve inquadrare l’attuale discussione su alcuni degli ultimi provvedimenti ancora da approvare del programma del Green Deal, e in particolare la legge sul ripristino della Natura. Ci sono anche altre normative da approvare in questo ultimo scorcio di legislatura, dalle cosiddette Case Green (Direttiva sulla performance energetica degli edifici o case green) alle emissioni industriali, agli imballaggi, all’inquinamento dell’aria, al consumo di suoli ecc. dei quali si potrebbe parlare. Visto l’acceso dibattito che in Italia e non solo mi pare opportuno concentrarci su questa. La legge europea sul ripristino della natura è stata proposta dalla Commissione europea nel giugno del 2022 e ha l’obiettivo di rispondere al dato incontrovertibile che circa l’80% degli habitat si trova in cattive condizioni, con il 36% in deterioramento e solo il 9% in miglioramento: questo significa che ecosistemi degradati faranno sempre più fatica ad adattarsi al cambiamento climatico ed agli eventi estremi che ne conseguono (alluvioni, esondazioni, frane, siccità etc.); recenti valutazioni di impatto hanno calcolato che per ogni euro speso per il ripristino della natura si producono dagli 8 a 38 € di valore economico aggiunto, a fronte  del degrado del suolo che comporta costi superiori a 50 miliardi di euro l’anno. Secondo la proposta di legge, i paesi dell’UE dovranno presentare piani nazionali di ripristino per dimostrare come intendono raggiungere gli obiettivi. Insieme, questi piani nazionali dovrebbero ripristinare i servizi ecosistemici utili alla società umana in tutta l’UE e favorire il recupero di habitat sensibili come torbiere, praterie, dune e zone umide. La proposta mira inoltre a fissare un obiettivo per il ripristino delle aree terrestri e marine nell’Unione europea entro il 2030 ed il loro ripristino entro il 2050. Non è un caso che a sostegno della legge si siano schierati innumerevoli scienziati e attivisti, ma anche importanti industrie ed esponenti dell’economia green, settore molto importante in Italia anche se costantemente sottovalutato dai media e dal pubblico. Le limitazioni alla legge sul ripristino della Natura L’iter legislativo è stato ed è molto controverso e la proposta della Commissione è stata sconvolta dal passaggio in Consiglio dei ministri UE, che ha adottato la sua posizione comune nel mese di giugno, e soprattutto dalla drammatizzazione intorno al voto sulla posizione del Parlamento europeo lo scorso 12 luglio; il provvedimento è stato approvato con soli 36 voti di scarto (336 contro 300 e 13 astensioni) e dopo una battaglia davvero all’ultimo voto. A questo punto, il regolamento, o quello che ne rimane, dovrà essere discusso tra Parlamento e Consiglio che si devono mettere d’accordo e approvare lo stesso testo per renderlo operativo. I punti cardine della proposta della Commissione sono stati fortemente ridimensionati ed è utile confrontarli con ciò che è uscito dalle prime letture di Parlamento e Consiglio.

  • Per gli Ecosistemi terrestri, costieri e di acqua dolce: la proposta della Commissione prevedeva il ripristino del 30% di ciascun tipo di habitat entro il 2030, il 60% entro il 2040 ed il 90% entro il 2050. Il Consiglio ha emendato la proposta, stabilendo che il ripristino si applichi al 30% della superficie totale e il PE ha eliminato altri target e reso il regolamento applicabile solo alle zone protette dalla rete di Natura 2000.
  • Per gli Ecosistemi marini, la proposta della Commissione prevedeva il ripristino di habitat marini, ivi incluse colture marine, fondali di sedimenti ed habitat di specie marine emblematiche quali squali, delfini, focene ed uccelli marini. La Commissione fissava gli stessi target previsti per gli ecosistemi terrestri. Il Consiglio, pur mantenendo gli obiettivi, ha modificato gli obblighi di ripristino dei fondali riducendone la portata ed eliminando l’obiettivo 2030 e il PE ha introdotto due nuove eccezioni, per impianti di produzione di energie rinnovabili e attività di difesa nazionale.
  • Per gli Ecosistemi urbani, l’obiettivo della Commissione era di non registrare alcuna perdita netta di spazi verdi urbani entro il 2030, chiedendo un aumento del 3% entro il 2040. Agli Stati membri è anche richiesto di garantire almeno il 10% di copertura arborea in tutte le città, piccole città e sobborghi entro il 2050 e di aumentare gli spazi verdi integrati in edifici ed infrastrutture. Il Consiglio ha modificato gli obblighi di ripristino sostituendo gli obiettivi quantitativi facendo riferimento solamente a “livelli soddisfacenti” e il Parlamento ha seguito questo approccio.
  • Gli ecosistemi agricoli: l’obiettivo proposto dalla Commissione è quello di aumentare la biodiversità complessiva, oltre al ripristino e la riumidificazione delle torbiere drenate a uso agricolo e nei siti di estrazione della torba. Il Consiglio ha definito successivamente obiettivi meno stringenti per la riumidificazione delle torbiere mentre il Parlamento ha approvato un emendamento che elimina del tutto l’articolo relativo agli ecosistemi agricoli.

Quanto ai Piani nazionali di ripristino, la Commissione aveva inizialmente previsto la presentazione di piani fino al 2050 entro due anni dall’entrata in vigore del Regolamento, ma il Consiglio ha modificato le date e il PE ha introdotto una forte limitazione all’applicazione della norma, permettendo di sospenderla in caso di « condizioni socioeconomiche straordinarie ». Una legge dimezzata Inoltre, sono stati approvati dal PE altri tre emendamenti che potrebbero davvero limitare di molto l’applicabilità di un regolamento già fortemente indebolito; in particolare gli stati membri possono sospenderne l’applicazione nel caso in cui manchino finanziamenti aggiuntivi rispetto ai fondi della Pac e della politica comune della pesca;  se, a causa degli obblighi della legislazione sulla natura, si registrasse una riduzione dei permessi di costruzione e ristrutturazione edilizia, in particolare nel settore delle case popolari, e dei permessi relativi ai progetti per le installazioni di energia rinnovabile; nel caso in cui i prezzi alimentari aumentassero del 10% in un anno, o la produzione agroalimentare si riducesse del 5%, sempre per un periodo minimo di un anno. Questa la situazione alla vigilia dell’apertura dei negoziati per definire il testo finale del regolamento. La campagna per lo smantellamento del provvedimento è dunque parzialmente riuscita e si è basata su un approccio fortemente ideologico, che potremmo definire “meglio l’uovo oggi perché tanto io avrò comunque la gallina domani”. Inoltre, parte del dibattito si è sviluppato su contenuti attribuiti al regolamento ma inesistenti. Per esempio, il regolamento non impone nuove zone protette, ma il ripristino di quelle esistenti; non minaccia la sicurezza alimentare o la produzione agricola (che è comunque in eccesso rispetto ai bisogni), dato che è evidente a tutti che i rischi per l’agricoltura sono proprio il degrado dei suoli e i cambiamenti climatici; rendere più verdi le nostre città non ne riduce lo sviluppo ma al contrario le rende più resistenti a ondate di calore e inquinamento ecc. Non siamo dunque di fronte a un furore ecologista estremista da parte di un oscuro funzionario olandese, Frans Timmermans, definito dal presidente della Coldiretti “un delinquente”. Siamo di fronte a un vero e proprio incendio che si potrebbe ancora domare, se si smettesse di guardare indietro a un mondo e a un’economia insostenibile, che però può ancora cambiare per il meglio e vantaggio di tutti e tutte. (Foto di Markus Spiske su Unsplash)

  • Monica Frassoni

    Parlamentare europeo dal 1999 al 2009, è copresidente del Gruppo dei Verdi al Parlamento europeo. Nel 2010 ha co-fondato la "European Alliance to save Energy", della quale è l’attuale presidente.