L’elezione alla segreteria del Partito democratico di Elly Schlein è sicuramente un segnale di novità. Si chiude dopo quattro mesi travagliati la vicenda molto complessa e defatigante di un originale forma di «congresso» del partito, apertosi dopo l’insuccesso elettorale bruciante del 25 settembre. In altra parte della rivista ci occupiamo della particolarità formale di questo percorso, delle regole, delle loro conseguenze sulla vicenda elettorale. Non sono temi banali, avendo a che fare con la forma del partito e il modello politico che ne deriva.
Certo è un segnale politico che l’elezione di Schlein sia arrivata al ballottaggio «aperto», mentre Bonaccini era prevalso nella votazione degli iscritti. Al di là di ogni polemica sul percorso, questo fatto mostra che il partito è comunque ancora in qualche modo capace di aprirsi a un’opinione esterna, che in parte se ne era allontanata, come hanno dimostrato le vicende elettorali delle politiche (e anche delle regionali). C’è tato quindi un investimento di energie, che può essere la prima delle risorse della nuova segreteria.
L’elezione ha confermato che un sommo momento politico di decisione e orientamento come un congresso (che per qualche aspetto era stato individuato addirittura come «costituente») si è alla fine molto identificato in un confronto tra due personalità. Il leaderismo è insomma caratteristica formale insuperabile della politica attuale: può piacere di più o di meno, ma bisogna fare i conti con questo elemento. Anche gli orientamenti dei candidati nel dibattito (e ora della segretaria eletta per le sue scelte future), più che essere affidati a un esteso dibattito politico tra mozioni articolate e programmi definiti, si devono molto dedurre dai profili personali e da prese di posizione pubbliche spesso sintetiche, affidate ai social o alle comparsate sui media.
Elly Schlein porta quindi con sé iniziando questo nuovo impegno le sue caratteristiche di essere donna, giovane, con un’esperienza di attivismo politico critico nato ai tempi di Occupy Pd e poi maturata con esperienze anche internazionali, un mandato al parlamento europeo, l’uscita dal Pd ai tempi di Renzi in direzione di «Possibile», l’esperienza amministrativa in Emilia-Romagna dopo il successo elettorale della sua lista autonoma, il riavvicinamento recente al partito.
Cosa ci si può aspettare da lei e che problemi dovrà ora affrontare? Molte voci hanno messo in rilievo la questione dell’unità di un partito singolarmente articolato e talvolta francamente rissoso e diviso. Non si può negare che sia un problema reale: un partito pluralistico fin dalla sua nascita è da conservare nella logica di una sintesi non semplice tra culture, orientamenti, personalità. Qui Schlein, che certamente è meno interna degli altri candidati agli assetti di potere esistenti, dovrà esercitare una capacità di leadership inclusiva se vorrà evitare lacerazioni: vedremo se ne avrà capacità. Al momento, il contraccolpo della sua elezione in questa linea è ancora modesto, ma questo della sintesi unitaria resterà certo un fronte aperto anche in futuro.
Dall’altra parte, però – le due questioni non si elidono, ma nemmeno si intrecciano in modo necessariamente semplice – la segretaria avrà il compito di dare un profilo chiaro al partito, di tracciare una linea che sia meno incerta che in passato. Il problema fondamentale del Pd negli ultimi tempi è che, nell’irresolutezza degli equilibri interni, aveva teso a divenire un partito senza un’identità che non fosse quella di una sorta di vocazione necessaria a rappresentare l’establishment del paese (magari anche nella sua versione più colta, illuminata e benevola), e quindi di rischiare un «governismo» a tutti i costi, vicino all’immagine di una sorta di partito della tecnocrazia, che si poneva soprattutto il problema di gestire gli assetti esistenti più che di innovare.
Il marchio originario della «vocazione maggioritaria» del partito, concepito in una ipotesi di radicalizzazione del bipolarismo, del resto, spingeva in questa direzione. Il veltroniano «ma anche…» aveva costituito un profilo più per accumulo di elementi diversi che per sintesi politica. Tale percorso, se mai avesse avuto una sua pur discutibile logica, appare ormai largamente spazzato via dalla storia. Oggi nessuno immagina il Pd come capace di ottenere un allargamento tale da divenire il partito unico del centrosinistra o del polo progressista. Quindi occorre tornare sul concetto che si tratti di un partito che giustamente ambisce a una leadership, ma si pone con più chiarezza anche i propri limiti e il proprio ruolo specifico.
A stare a quello che conosciamo, Schlein sembra portata a una definizione più netta di un profilo del partito su una serie di temi cruciali del dibattito politico. Ha parlato nel confronto di questi mesi di correzione o accentuazione della linea del partito su una serie di questioni (immigrazione e ius soli, lavoro e salario minimo, sanità e istruzione pubblica, conversione ecologica, pace, eguaglianza), tracciando in qualche modo una prospettiva, su cui adesso dovrà misurarsi con approcci concreti e cultura di governo. Fare del Pd un partito che riesca a tornare a parlare alle classi popolari, agli sconfitti della globalizzazione, alle periferie abbandonate del paese, è una scommessa forte, che chiede una linea corrispondentemente marcata, quanto ragionevole. Vogliamo confidare che ne abbia la capacità: di sicuro ci sembra sbrigativa e ingenerosa la rappresentazione dei suoi detrattori per cui ella sarebbe una giovane utopista senza capacità di governo dei problemi.
Poi, si innesterà necessariamente anche un problema di alleanze, ma oggi appare largamente prematuro. immaginare di risolverlo a breve. Tantopiù che non vi sono elezioni alle porte e le europee di qui a un anno, regolate da un sistema proporzionale, non comportano alleanze. Certamente la capacità coalizionale della destra e il fallimento totale del centrosinistra in proposito sono gli elementi essenziali dell’equazione politica del 25 settembre. Ma in qualche modo la sconfitta è troppo vicina per immaginare di uscire da quella stretta, se non con un tentativo di convergenza tra le forze di opposizione, plurali, al governo della destra.
In questo orizzonte, che cosa si può dire dal punto di vista di una rivista che modestamente si ispira al cattolicesimo democratico? Come abbiamo più volte ribadito, siamo consapevoli che lo stesso concetto di cattolicesimo democratico non è univoco: nella nostra accezione, di incrocio di una prospettiva di laicità della politica con una di radicalità sulle scelte di uguaglianza e libertà, che ci sia un profilo più marcato di un partito riformista in direzione di una sinistra di governo liberal, moderna e incisiva, è un’opportunità auspicabile. Il cattolicesimo democratico non è moderazione o centrismo, per principio: è «principio di non appagamento», istanza di cambiamento. Non si tira indietro rispetto alla parola sinistra e al suo contenuto aggiornato.
Qualcuno comincia però a far notare l’importanza dei temi «eticamente sensibili» per inquadrare questo percorso dal punto di vista dell’ispirazione cristiana della politica. Certamente esiste un problema di discussione aperta nel Pd a questo proposito, non da oggi ma da molto tempo. Su questo fronte, è legittimo attendersi che la Schlein temperi certe punte per non contraddire la scommessa originaria dell’Ulivo prima e del PD poi di adoperarsi per propiziare una feconda cooperazione tra laici e cattolici. Peraltro, dal punto di vista credente, fin dai tempi lontani delle fallite battaglie identitarie sul divorzio e sull’aborto, la situazione appare piuttosto chiara. O ci si fida dell’un po’ pelosa e ambigua disponibilità della destra politica a fare il verso ai richiami ecclesiastici (a prezzo di non affrontare problemi che poi si ripresentano puntualmente aggravati). Oppure, sappiamo che il destino del cattolicesimo nella sua minoritarietà sociale è quello di intavolare su questi temi un percorso di mediazione. Non alla ricerca di un astratto modello di presunto rispetto integrale dei valori (il codice che prevedeva l’aborto come reato contro l’integrità e la sanità della stirpe era «cristiano»?), ma alla ricerca del concreto «maggior bene possibile», che colleghi la libertà delle persone con il legame tra di loro e quindi con una concezione non assoluta dell’individuo e delle sue scelte. In questo difficile ma fondamentale lavoro, non necessariamente chi si è mostrato in questi anni più di sinistra sui temi sociali è stato anche più radicale ed irresponsabile sui temi etici, anzi. Le questioni sono aperte: Schlein ha parlato ad esempio nella sua mozione di legge sul fine vita e sull’omofobia: il problema resta quello di farle bene, non tanto di opporsi vanamente alla loro realizzazione.
Il tempo giudicherà su queste prospettive aperte.