La terza guerra mondiale, da decenni combattuta nel mondo “a pezzi e a bocconi” (Francesco), è tornata in Europa. Dopo i terribili anni ’90 nei Balcani, il 2008 in Crimea, il 2014 nel Donbass, nel modo più tragico da dieci mesi in Ucraina. Una guerra che è subito esondata dal contenzioso russo-ucraino, per porsi come un confronto tra la Russia e l’Occidente, categoria lasca, ma che in questo contesto discorsivo sono nei fatti i paesi NATO impegnati a tutto campo in una guerra ibrida al netto del diretto impegno militare sul terreno per non innescare una escalation incontrollabile sul terreno nucleare. Un’esondazione del tutto prevedibile, se il conflitto lo si lega al contesto che ne ha fatto maturare le condizioni, e a quello – ancora più preoccupante – che ne detta tempi e modi di svolgimento, fino alla sperabile (fosse solo perché ineludibile per problemi di sicurezza globale e planetaria) sua cessazione.
Il contesto di maturazione è nella sostanza l’incredibile latitanza europea, nel trentennio successivo alla disarticolazione della statualità sovietica e della area di influenza che all’URSS era stata riconosciuta dagli accordi di Yalta, di fronte alla necessità di una iniziativa internazionale, tipo Helsinki 2, che mettesse in sicurezza sostenibile il Continente. Il contesto che del conflitto sta dettando tempi e modi è la ricerca di un nuovo equilibrio mondiale dopo il crollo dell’illusione, con il collasso dell’URSS, di una conduzione unilaterale da parte americana – come arbitraggio e direzionamento – dei processi e delle tensioni della globalizzazione, stante l’emergere della superpotenza cinese, e della resistenza russa al declassamento del suo rango di potenza globale.
In questo nuovo equilibrio a trovarsi si confrontano due istanze: la spinta al multilateralismo, cui puntano i paesi Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica), cui per altro guardava la stessa Turchia, non accettata nel gruppo, da una parte. E a cui dovrebbe puntare la UE, se volesse coltivare l’ambizione di essere un player globale. Dall’altra, la spinta a un bipolarismo Usa-Cina, da un lato prospettato per solleticare le ambizioni cinesi a prendere il posto che fu dell’URSS nell’equilibrio bipolare della guerra fredda, dall’altro dall’amministrazione americana ritenuto lo scenario più favorevole a mantenere il ruolo di vantaggio economico, tecnico, politico, militare, di cui fin qui ha goduto. Scenario sul cui terreno sta portando all’adesione più o meno costretta, tramite la NATO, l’Europa, con un ruolo proconsolare in questo senso svolto dalla Gran Bretagna, dai paesi baltici e dalla Polonia, a detrimento degli interessi “esistenziali” di Germania, Francia, Italia e paesi mediterranei.
In modo colloquiale, ma perentorio, ha argomentato queste evidenze di contesto operanti e operative da un trentennio Papa Francesco, sostenendo che è “un errore pensare che [il conflitto nel cuore dell’Europa] sia un film di cowboys dove ci sono i buoni e i cattivi, e che sia una guerra tra Russia e Ucraina e basta”, e che “non si può essere semplicisti nel ragionare sulle cause del conflitto”, che ci sono “imperialismi in conflitto, e quando si sentono minacciati e in decadenza, gli imperialismi reagiscono pensando che la soluzione sia scatenare una guerra per rifarsi, e anche per vendere e provare armi”.
Francesco ha ragione su tutta la linea. È inutile mettere davanti le colpe dello scatenamento della guerra in Ucraina e della sua conduzione, che sono pressoché tutte in capo alla Russia, per evitare un discorso franco sulle colpe molto più distribuite del contesto geopolitico internazionale che questa guerra ha fatto esplodere e mantiene in essere. E queste sono in capo a entrambi gli imperialismi in conflitto, quello russo da un lato, e quello occidentale dall’altro. E hanno una radice “esistenziale”, cioè di interessi incomprimibili alla propria sicurezza per cui si è disposti a correre ogni rischio, da entrambe le parti. Questo è il punto tragico e dirimente. Non c’è solo l’imperialismo russo che si sente minacciato e in decadenza, cioè il suo declassamento a potenza regionale perseguito da alcune cancellerie occidentali. C’è in ballo anche l’insicurezza – la minaccia di decadenza – dell’imperialismo occidentale a guida anglo-americana per la perdita della leadership politico-economica di un mondo globalizzato dove avanzano altre candidature alla guida del supermercato globale che ormai è il pianeta, la Cina innanzi tutto e la sua proiezione attrattiva, in antitesi all’area del dollaro, sui mercati del Brics.
In Ucraina noi siamo nel pieno di un conflitto, esposto ad ogni pericolo, di due imperialismi (al di là della loro “stazza” economico-politica, per capacità militare distruttiva e autodistruttiva equivalenti) in insicurezza esistenziale. E anche ammesso, inverosimilmente, che la Russia accettasse o fosse costretta ad accettare il proprio declassamento imperiale, questo non toglierebbe all’altro imperialismo in conflitto le ragioni sostanziali della propria insicurezza esistenziale sul suo ruolo nel “nuovo mondo” in cui ci stanno portando le navi della globalizzazione. E quale sarebbe la prossima espressione di questa nostra insicurezza occidentale? E dell’insicurezza degli altri imperialismi oggi alla finestra del conflitto in Ucraina? Queste, credo, sono le domande delle insicurezze esistenziali del pianeta, della famiglia umana dove è sempre la povera gente di tutte le parti (lo ricorda Francesco) a pagare il prezzo più alto agli imperialismi in conflitto.
Avvenire ha titolato “Un incubo si allontana” la stretta di mano tra Xi e Biden a Bali. Una prova plastica di quanto siamo venuti dicendo sui contesti generativi della guerra in Ucraina. Con la stretta di mano di due leader usciti rafforzati dalle dinamiche di politica interna, di tre ore di “franco colloquio”, abbiamo appreso che viene sotterrata l’ascia di guerra e che Usa e Cina si impegnano a ripudiare, e far ripudiare agli altri, l’uso del nucleare per dirimere le tensioni della globalizzazione e della loro competizione per la sua guida. Che la globalizzazione più che cooperativa resterà competitiva, ma almeno non sarà una guerra fredda, a condizione che non si varchino le rispettive linee rosse. In questo quadro di agibilità del supermercato globale per la competizione sino-americana è bene che non ci siano eccessive turbolenze. Preso atto che la globalizzazione porta da sé conflitti, assunto che essa va gestita in modo competitivo – così pare si sia deciso con questa stretta di mano, adeguandosi alla via facilior della Realpolitik – e non cooperativo sì da “generare pace” (la via difficilior che a modesto parere di chi scrive dovremmo nell’interesse della “comunità” umana e della sua “casa comune”, il pianeta intraprendere), entriamo ufficialmente nell’età della “pacificazione” dei conflitti (quando sarà necessario, magari anche armata; per essere realisti fino in fondo). E speriamo bene sia così, almeno.
Insomma, dopo questa stretta di mano tra Biden e Xi, come volevasi dimostrare, per la guerra in Ucraina forse si apre una finestra di pacificazione. Ma chi ci perde da questa stretta di mano a Bali? A spanne, Russia ed Europa. La Russia declassata come potenza politico-militare, l’Europa declassata come potenza politico-economica. Da questo risulta evidente la responsabilità dell’Europa a non essersi data come priorità dopo il crollo dell’URSS un quadro sostenibile di sicurezza europea e a scivolare in una contrapposizione alla Russia che è contro i suoi interessi “esistenziali”. Ma ormai i giochi sono fatti, e c’è solo da sperare che dopo l’età della “pacificazione” che la stretta di mano di Bali sancisce (“hanno fatto un accordo e lo hanno chiamato pace”, verrebbe di dire), emergano nella seconda metà del secolo leader non di “pacificazione”, ma di “pace”, di pace nella giustizia, che conducano i popoli alla pari dignità nel governo del loro destino comune.
Foto di Dea Andreea su Unsplash
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