È fuorviante porre la questione della messa fuorilegge di un partito politico estremistico e antisistema in termini di tolleranza e di intolleranza. In una democrazia liberale che sia anche uno Stato costituzionale di diritto non c’è posto per la tolleranza – che trova spazio nell’assolutismo, in quanto prevede la passività e la subalternità di chi è, precariamente e provvisoriamente, “tollerato”. Semmai, si deve parlare del libero esercizio dei diritti civili e politici. Un esercizio che non è soggetto alla benevolenza di alcuno, e che trova i propri limiti dove trova anche il proprio fondamento: nella legge. Che in democrazia si nutre del principio di uguaglianza, non di tolleranza. Davanti alla legge non ci sono gerarchie: chi la rispetta è uguale a ogni altro, e nei limiti della legge ciascuno è libero di dire o fare ciò che vuole.
Legalità e legittimità
Il punto non è la tolleranza. Semmai, il vero problema sta nel fatto che non di sola legalità vive una democrazia (e in generale un ordine politico), ma anche di legittimità. Ovvero, non esiste solo la dimensione orizzontale e neutrale del diritto, ma anche quella verticale, storica, polemica, della sua stessa origine. Gli ordini nascono da conflitti, da decisioni, da inclusioni ed esclusioni. La democrazia repubblicana del nostro Paese nasce da due lacerazioni – dalla resistenza antifascista e dal rifiuto della monarchia – oltre che dal lavoro di tessitura della Costituente. L’ordine nuovo si afferma contro il vecchio, divenuto nemico.
Anche quando tacciono le armi, quando si giunge infine a una vittoria, le ipotesi sconfitte sono fuori gioco: non hanno più agibilità politica. Gli USA non possono più essere una colonia della Corona inglese; l’Antico regime in Francia non è restaurabile; il fascismo non è più all’ordine del giorno. Una esclusione politica prevale sulla inclusione giuridica. L’uguaglianza contiene una disuguaglianza. La nuova libertà si nutre, anche, di un divieto. Ovvero, la legittimità ha ragioni più forti della legalità.
Ciò non significa consegnare i nemici vinti ai plotoni d’esecuzione, alle prigioni, alla privazione dei diritti civili o politici. Significa che l’ordine nuovo si difende dai tentativi di restaurare l’ordine vecchio. Non necessariamente l’ordine nuovo difende sé stesso da ogni altra ipotesi di ordine – la democrazia è anche dibattito sui fini della politica -, ma certo non è disposto a rinnegare o a dimenticare la propria origine concreta. La democrazia italiana è anti-totalitaria per derivazione e per estensione, ma primariamente, strutturalmente, originariamente, è antifascista.
Questa difesa è affidata a procedure giudiziarie, che garantiscono una ragionevole facoltà di difesa, e a norme che non possono criminalizzare pensieri ed espressioni ma soltanto concreti tentativi di sovvertire l’ordinamento costituzionale al fine di ricostituire passati regimi o passati partiti politici. Che è appunto lo spirito della legislazione antifascista italiana.
Il problema della legittimazione quotidiana delle democrazie
Si deve inoltre sottolineare che la legittimità è una nozione complessa. Non è solo il ricordo attivo di un passato conflitto tra valori ultimi, di una fondazione polemica di un ordine specifico. È anche una concreta e quotidiana opera di inclusione materiale e civile, economica e sociale. Il nuovo regime deve funzionare, deve garantire il presente e il futuro, non solo custodire il passato. Se questo funzionamento cessa, o è percepito dalla popolazione come insufficiente e calante – sul fronte economico, della sicurezza, dell’efficienza amministrativa -, la legittimità è messa in discussione, la lealtà verso i valori fondativi è travolta, dilagano la rabbia, il disorientamento, la protesta, la ricerca di protezione. Le élites al potere perdono credibilità e nuove soggettività politiche, nuove parole d’ordine, nuovi capi, nuovi nemici prendono la scena. L’ordine esistente appare vecchio, corrotto, inefficace, da rottamare e da sovvertire. Oppure, si pratica una ritirata familistica e privatistica (qualunquistica) dalla politica.
Questa delegittimazione – sbrigativamente classificata come “populismo” – colpisce, sia pure in modi diversi, tutte le democrazie occidentali e ha molte cause: in primo luogo la globalizzazione, le sue promesse mancate, i suoi fallimenti, le frustrazioni generate dalla fine dello Stato sociale e dal mancato inizio della prosperità individualistica che il neoliberismo aveva fatto balenare, salvo poi costringere le società all’austerità e alla precarietà. Ai motivi materiali si sommano disorientamenti etici e civili, solitudini amplificate dai social, insicurezze generate (secondo supposizioni diffuse) dalle immigrazioni incontrollate. Insomma, tutti gli sviluppi del neoliberismo, delle sue crisi, delle sue contraddizioni. E tutti gli errori dei ceti politici liberal, o anche conservatori, che hanno gestito il potere negli ultimi quarant’anni, dopo la fine dei “Trenta gloriosi”. La delegittimazione non è una crisi ma una “policrisi”.
La condizione di guerra in cui il mondo si trova non può certo frenare ulteriori evoluzioni e approfondimenti di questa delegittimazione. Lo sviluppo a cui stiamo assistendo vede le élites liberali perdere progressivamente potere, e le democrazie evolvere verso la post-democrazia. L’erosione della legittimità democratica avanza. In ciascun Paese con modalità differenti.
Difendere la democrazia con la politica, non con l’azione penale
Ma pensare di invertire il trend mettendo fuori legge i movimenti populisti è semplicemente assurdo. La legislazione presidiale della “democrazia protetta” – che in Germania ha una forte tradizione – può funzionare in presenza di crisi non prolungate, non multidimensionali; crisi, insomma, che non investono tutti i pilastri di un ordine politico. Crisi, insomma, che vedono partiti antisistema prendere quota ma non esplodere numericamente.
In questi contesti un ordine minacciato può avere la tentazione di mettere fuorilegge i partiti antisistema, o di varare leggi discriminatorie anti-estremistiche su basi ideologiche (il Radikalenerlass del 1972). Ma la difesa della democrazia e della sua legittimità può avere successo solo se il regime democratico può e vuole cambiare rotta sui fronti scoperti, e porre concreto rimedio al crollo di fiducia e allo scontento sociale, non ancora dilagati. Ma una cosa è la legislazione d’emergenza, ovvero contrastare (non direttamente col metterli fuori legge, peraltro) la Ndp o i Republikaner, partiti piccoli ed effimeri, in un contesto socio-politico ancora solido, altra cosa è il Berufsverbot (ai limiti della compatibilità con la liberal-democrazia), e altra cosa ancora è escludere dalla politica legale un partito del 20/25% come la Afd, in una situazione interna e internazionale complessa – la riunificazione incompiuta sotto molti profili, il paradigma economico da ricostruire, l’insicurezza avanzante -. Mettere oggi fuori legge la Afd è come spezzare il termometro per non voler avere la febbre. Ed è, oltre che inutile, anche controproducente, perché “martirizza” un partito, che può rinascere con altro nome e con una nuova, più aggressiva e più allettante immagine “antisistema”. Non è un provvedimento d’emergenza, risanatorio, ma un rischioso possibile contributo al precipitare della policrisi in un vero caso d’eccezione, in un ingovernabile collasso di un ordine.
Si ricordi che la Nsdap, il partito nazista, stette fuori legge dal 1923, dopo il fallito putsch di Monaco, al 1924; e dopo qualche ritocco formale si presentò alle elezioni del 1928, dove raccolse il 2,6%; la repubblica di Weimar era al punto più alto della sua efficienza, e il partito antisistema non aveva spazio. Fu la crisi economica e sociale, e infine politica, del 1929, a dare a Hitler percentuali oltre il 30%. E a quel punto mettere fuori legge il partito sarebbe stato assurdo e controproducente, oltre che fattualmente impossibile – il bando governativo posto alle SA e alle SS il 13 aprile 1932 fu tolto il 14 giugno -. Fu la policrisi di legittimità della democrazia di Weimar, e furono gli errori e le miopie dei poteri forti della Germania, a dare la vittoria a Hitler. Il livello della legalità era a quel punto ininfluente e impraticabile per superare la crisi di legittimità. Né la defunta normalità repubblicana né i governi d’emergenza del 1930-1932 né i tentativi di porre limiti giuridici all’azione dei nazisti poterono evitare il crollo totale.
Questo è un esempio storico, non un’analogia. Oggi non c ‘è un Hitler alle porte. Ma c’è in Germania una crisi di legittimità che va verso la formazione di una post-democrazia, se non viene contrastata da una ristrutturazione della stessa legittimità nelle sue varie forme e configurazioni – anche economiche, ma anche culturali e sociali -. Un provvedimento tutto formalistico, tutto centrato sulla legalità – sia pure per difendere la legittimità – non basterebbe. E del resto quel provvedimento è stato proposto da organi della magistratura suscitando perplessità negli stessi partiti politici democratici. È probabile che piuttosto che un vero progetto debba essere ritenuto un ammonimento a chi dall’esterno (Musk) stava intervenendo negli affari interni tedeschi, con sfacciataggine pari solo alla inadeguatezza politica.
In sintesi. In Germania, in Francia, in Spagna, se non si vuole consegnare la democrazia alle forze della post-democrazia è necessaria la politica, unita a una buona capacità d’analisi del presente e a una coscienza storica ben formata, non certo il codice penale.
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