È un peccato che la sovrapposizione – abbastanza casuale, data la diversa origine delle due iniziative – tra i quattro quesiti referendari in materia di lavoro e quello sulla cittadinanza sia apparsa ai più solo un motivo di confusione e di ulteriore difficoltà a spiegare il contenuto e la portata dei quesiti.

In realtà, a ben vedere, si potrebbe leggere nella coincidenza addirittura un fondamento costituzionale e farne uno specchio dell’art. 1 della nostra Carta costituzionale: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione…”.

Un popolo sovrano di lavoratori

Secondo il costituente il  “popolo-sovrano” è, essenzialmente, il  popolo dei lavoratori o di aspiranti tali perché  il lavoro non è solo il mezzo attraverso il quale la persona si assicura una esistenza libera e dignitosa, ma anche il modo con cui ciascuno adempie il suo dovere di solidarietà verso la collettività,  ai sensi dell’art. 2 Cost. divenendo cosi ad ogni effetto “cittadino” e parte del “popolo sovrano”.

Tra l’altro,  è proprio per questo che quando si affronta, come è ormai frequente, il tema del “lavoro povero” e poco tutelato, occorre tener conto che il diffondersi di un lavoro insufficente  a garantire la dignità personale e la condizione piena di “cittadino”, stravolge il disegno costituzionale e ci precipita in una società diversa, che dovrà ricercare, sempre che sia possibile, un collante diverso,  che esprima tuttavia  il medesimo legame di solidarietà.

Per lo  straniero la situazione è paradossalmente opposta: giunge a noi essenzialmente in quanto lavoratore (questo essendo, nello schema legislativo, il canale principale di accesso al territorio nazionale) ma questa qualificazone non ha quasi alcun significato al fine di farlo entrare a pieno titolo nella comunità: conta il decorso del tempo (cinque anni, dieci anni…), conta la goccia di sangue che tramanda di generazione in generazione la qualità di cittadino (il famoso ius sanguinis),  ma il lavoro conta poco o nulla, a dispetto dell’art. 1 Cost.: gli dà, finchè c’è, diritto a restare sul territorio, ma non gli dà, di per sè solo, diritto a divenire cittadino.

Anzi,  per lo straniero la condizione di non-cittadino e la condizione di lavoratore si avviluppano in una contraddizione che indebolisce costantemente la sua posizione: da un lato la perdita del lavoro lo espone continuamente al rischio di perdere il diritto al soggiorno; dall’altro, il fatto di essere sottoposto alla tagliola del rinnovo del permesso lo espone al rischio di perdere o non accedere al lavoro (si vedano le enormi difficoltà di  trovare o mantenere il lavoro nei lunghi mesi che intercorrono, per mere ragioni burocratiche, tra la scadenza e il rinnovo del permesso).  

Ci sono poi ragioni di sovrapposizione ancora più specifiche: basti pensare al terzo quesito in tema di limitazioni all’uso del contratto a termine e considerare che la quota di lavoratori stranieri con contratto a termine è del 22,5%, contro una media generale del 12,6% (Dossier statistico immigrazione, Idos 2023, p. 270); e basti pensare al quarto quesito che punta a eliminare una iniqua limitazione nella responsabilità dell’appaltante per gli infortuni accaduti ai dipendenti dell’appaltatore e considerare che proprio i lavoratori stranieri sono presenti in grande quantità nei settori soggetti a lunghe catene di appalti (edilizia, logistica, servizi in generale).

Ben venga, dunque, l’occasione per tenere insieme, quantomeno simbolicamente, diritti del lavoratore e diritti di cittadinanza e – sia consentito – ben venga l’occasione di votare contestualmente SI a tutti i quesiti.

Abbreviare i termini non vuol dire cittadinanza automatica

Quanto poi allo specifico quesito, le questioni sono, come quasi sempre in materia di referendum,  inevitabilmente complicate. Gli elettori troveranno infatti sulla scheda il riferimento al maggiorenne “adottato da cittadino italiano” e magari i meno informati si chiederanno perché mai i promotori del referendum dovrebbero avercela con gli adottati, tanto da voler abrogare una norma che li riguarda.

La spiegazione è presto detta: il nostro ordinamento, come noto, ammette solo i referendum abrogativi e dunque era assai difficile ottenere una estensione delle possibilità di acquisizione della cittadinanza mediante la  abrogazione dell’una o dell’altra norma.

Si è quindi dovuto prendere in considerazione una delle ipotesi di  residenza “abbreviata” e proporre la cancellazione delle parole che limitano questa ipotesi ai soli adottati da cittadini italiani (altre ipotesi di abbreviazione sono quelle dei cittadini dell’Unione europea e dei titolari dello status di rifugiato): cancellato il riferimento agli adottati e cancellata anche (con la seconda parte del quesito)  l’altra previsione generale dei 10 anni di residenza,  si ottiene che il termine abbreviato viene esteso a tutti. Una soluzione ingegnosa che, nonostante comporti una certa manipolazione della norma, la Corte costituzionale ha ritenuto ammissibile, sufficientemente chiara e del tutto conforme agli obiettivi dichiarati dai promotori (sentenza 11/2025).

Una precisazione deve però essere subito fatta: l’abbreviazione riguarda solo il periodo dopo il quale è consentito “fare domanda” di cittadinanza, ma non comporta affatto che dopo cinque anni si divenga automaticamente cittadini italiani. La  domanda  rimane comunque sottoposta a una valutazione ministeriale altamente discrezionale (un “atto di alta amministrazione”,  tendenzialmente incensurabile, come ricorda la citata sentenza della Corte costituzionale) e dunque dovrà passare al vaglio del Ministero per quanto riguarda, la sufficienza del reddito, la conoscenza dell’italiano, l’assenza di precedenti penali o di comportamenti ipotizzati come “antisociali” e così via: con un procedimento per il quale, oltrettutto,  la legge attribuisce al Ministero ben 3 anni di tempo (sicchè i cinque  anni diventano automaticamente otto).

Mentono dunque i fautoiri dell’astensione quando equiparano la vittoria del SI a una sorta di  “regalo” della cittadinanza a chiunque la chieda. Quello che accadrebbe è solo che il periodo di residenza sufficiente per proporre domanda si ridurrebbe al medesimo livello previsto dalla gran parte dei paesi europei: il termine di  cinque anni è infatti previsto in Francia, Germania, Paesi Bassi,  Irlanda, Svezia;  in Austria sono 6, in Spagna solo due se si proviene da paesi sudamericani; persino l’Ungheria, paese non certo tenero con i migranti,  prevede un periodo inferiore a quello italiano (8 anni).

Nulla cambierebbe invece per quanto riguarda i casi di acquisizione della cittadinanza “per diritto”   (cioè per il caso di matrimonio, del 18enne nato in Italia che ivi abbia sempre risieduto e pochi altri) e dunque le varie proposte nate per estendere l’accesso alla cittadinanza (per diritto) a coloro che sono nati in Italia (ius scholae, ius culturae ecc.) resterebbero ancora una volta senza risposta.

Dunque una modifica che, purtroppo,  non sconvolgerebbe il sistema (anzi, tornerebbe alla regola vigente prima della L. 91/92, quando appunto il termine era di cinque anni); e tuttavia un esito positivo del referendum avrebbe l’effetto – quasi rivoluzionario nel clima politico attuale – di rendere manifesta la volontà popolare di rompere l’inerzia del legislatore e arrivare a una soluzione ragionevole.

La restrizione governativa dello ius sanguinis

Una soluzione che, paradossalmente, potrebbe trarre spunto anche dal pessimo “pasticcio dello ius sanguinis”. E infatti il governo, risvegliatosi improvvisamente dal suo torpore, ha improvvisamente deciso che il riconoscimento dello status di cittadino solo per discendenza dall’avo italiano (lo ius sanguins, appunto)  stava generando effetti paradossali per l’impennata delle cittadinanze riconosciute a discendenti di italiani. E, tra le divisioni della maggioranza, è corso ai ripari con il decreto legge n.36/2025, già convertito in legge e destinato, per la sua formulazione pasticciata, a generare ulteriore contenzioso:  in sostanza, salve le domande presentate prima del 27 marzo 2024,  ora, per i nati all’estero,  la cittadinanza si trasmette solo avendo riguardo alla condizione di genitori o i nonni e solo se questi sono (o erano) esclusivamente cittadini italiani, con esclusione quindi di coloro che abbiano la doppia cittadinanza.

L’operazione, al di là del contenuto, segnala quantomeno l’indifendibilità del regime vigente e dimostra che, se le modifiche restrittive possono essere fatte in tempi così brevi, anche le modiche estensive potrebbero essere fatte, volendolo,  con la stessa rapidità.

Ma l’operazione coincide anche temporalmente con una particolare vicenda giudiziaria.  Nel corso del mese di giugno verrà discussa alla Corte costituzionale una particolare eccezione sollevata dal Tribunale di Bologna (e poi anche da altri tribunali) a fronte della causa promossa da un gruppo di discendenti di una donna italiana emigrata in Brasile all’inzio del secolo scorso.

Il tribunale, nel sollevare l’eccezione di incostituzionalità,  rileva che proprio per la natura dell’Italia come paese storicamente (nei secoli passati) di forte emigrazione,  l’eccessivo peso attribuito al “legame di sangue”  può dar luogo a situazioni anomale, con una espansione del tutto patologica non solo dei diritti del singolo nei confronti dello Stato (prima di tutto, quello di determinare, mediante il voto, la vita di una comunità territoriale alla quale egli non appartiene) ma anche del potere statale su persone appartenenti ad un’altra comunità nazionale. Una dissociazione tra cittadinanza e territorio che è in parte fisiologica (la stessa Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo riconosce a ogni uomo il diritto di emigrare) ma non può acquistare dimensioni patologiche come sarebbe avvenuto, secondo il tribunale, nel caso italiano: l’ordinanza ricorda infatti che l’Italia è , dopo la Cina, il paese con il più alto numero assoluto di emigrati, che ha visto in 120 anni l’emigrazione di 30 milioni di cittadini;  e ricorda che, teoricamente le persone che, risalendo la catena della discendenza, potrebbero vedersi riconosciuti come cittadini son poco meno di 60 milioni, più di quanti risiedono attualmente in Italia.

In questa situazione,  la legge sembra contrastare proprio con il secondo comma dell’art. 1 di cui si è detto all’inizio,   perché finisce per attribuire la sovranità, soprattutto mediante il diritto di voto, a chi non appartiene al “popolo”.

Il “popolo” reale e la cittadinanza formale: ridurre la distanza

Questa ipotesi (e pretesa) di  collegamento tra il “popolo” e la condizione di cittadino, se trovasse conferma anche in sede di Corte costituzionale, avrebbe effetti limitativi sulla disciplina vigente fino al 27 marzo 2025 e dunque sembrerebbe non aver nulla a che fare con i temi sollevati dal  referendum;   ma, a ben vedere,  può invece aprire  prospettive di segno opposto, in partcolare se si fa un breve balzo all’indietro, fino al 2015.

In quell’anno la Corte costituzionale si è  trovata ad esaminare la questione dell’accesso dei giovani stranieri al servizio civile; lo ha fatto prendendo atto che il servizio civile, per come delineato dal legislatore, è una forma di cooperazione, se pure in ambito civile, alla difesa della Patria e che tale difesa costituisce, ai sensi dell’art. 52 della Costituzione “sacro dovere del cittadino”. Si discuteva dunque di come può essere possibile che tale “sacro dovere” possa gravare anche su soggetti che a quella Patria non appartengono.

Ebbene la Corte – dichiarando incostituzionale l’esclusione dei cittadini stranieri – ha ricordato che esiste anche una “seconda cittadinanza” di cui sono titolari coloro che, condividendo le sorti di un territorio, “ricevono diritti e restituiscono doveri” secondo quanto prescritto dall’obbligo di solidarietà imposto dall’art. 2 della Costituzione: come tali,  questi “cittadini” non possono essere esclusi da una così importante opportunità di cooperare al benessere collettivo.

Questa cittadinanza “di residenza”, con la sua dimensione fortemente territoriale e relazionale  (essere qui, condividere, partecipare)  attendeva e attende tuttora  un riconoscimento legale: la “crisi dello ius sanguinis” (sia detto con tutto il rispetto per un percorso che ha avuto un significato fondamentale per gli emigrati italiani) e la rilettura dell’art. 1 Cost. come collegamento ineludibile tra popolo e cittadinanza, possono  contribuire a  questo riconoscimento.

Più ancora contriburebbe, tuttavia, una vittoria del SI  al referendum, favorendo la convinzione che al “popolo sovrano” si appartiene perché se ne condividono  le sorti su un territorio, magari per esservi nato;  perché lì si hanno relazioni sociali  e stabilità di vita, perché lì  si adempie, pur nella diversità di identità,  ai doveri di solidarietà: quando ciò accade,  si è cittadini e l’ordinamento lo deve riconoscere.

(Foto di Oltrepier – www.wikimedia.org)

  • Alberto Guariso

    Avvocato, in precedenza ha lavorato come funzionario sindacale presso la CISL di Milano.