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È possibile ripensare i paradigmi dell’economia? Una rilevante discussione

da Guido Formigoni | Mag 22, 2025 | Dibattiti, Dibattiti - primo, In evidenza | 0 commenti

Su “Avvenire” si è aperto un dibattito attorno al “Manifesto per la rinascita economica” del 2024, promosso da un gruppo di economisti tra cui Leonardo Becchetti e Jeffrey Sachs, che parte da alcune necessità di svolta nella teoria economica. Lo commentiamo qui per la rilevanza dei temi trattati.

Risale all’estate del 2024 un Manifesto «per una rinascita economica», che ha suscitato un certo dibattito, anche nel mondo accademico internazionale. I suoi caposaldi erano sostanzialmente sintetizzabili su cinque punti. Oltre l’homo oeconomicus, così concentrato sui propri interessi personali da non accorgersi della sua miope visione. Oltre la logica della massimizzazione del profitto. Oltre la misurazione tradizionale dell’economia espressa dal Pil, che impedisce di creare indici più sensibili al benessere reale. Oltre la dicotomia Stato-individuo, puntando su strade concrete di sussidiarietà. Oltre i saperi ultraspecializzati, sfoderando il potenziale generativo che solo un approccio interdisciplinare alle grandi questioni può liberare. Si trattava di una tappa importante di una ricerca che il nutrito gruppo di economisti collegati all’orizzonte dell’«economia civile» sta conducendo da anni. Il testo ha raccolto alcune centinaia di firme di autorevoli studiose e studiosi.

Una ricerca globale oltre l’economia neoclassica

            Tale prospettiva non è solo italiana, né isolata nel mondo. Ha un suo corrispettivo in una vivace ondata critica che sta mettendo in discussione negli studi economici il mainstream ortodosso collegato alla stagione del monetarismo, del neoliberismo, dell’economia neoclassica. Un «ordine neoliberale», come l’ha definito Gary Gerstle in un libro affascinante di ricostruzione storica, fatto di teoria, ma anche di istituzioni, centri di interesse, forme politiche, traduzioni operative, assetti giuridici. Un ordine che si è scontrato recentemente con le crisi sistemiche del tracollo finanziario 2007-2008, della pandemia, della deglobalizzazione: è quindi un ordine profondamente in crisi, e non casualmente si stanno affastellando i tentativi di superarlo o correggerlo. Un segnale sono ad esempio gli orientamenti dei Nobel per l’economia, che l’accademia di Stoccolma sta attribuendo negli ultimi anni a studiosi che coltivano campi originali e non consueti. Non siamo certo ancora approdati a un consenso alternativo, o a un nuovo assetto dominante, ma il lavoro ferve in questo senso e le prospettive sembrano in via di allargamento.

            Bene: in questa logica, Leonardo Becchetti e Jeffrey Sachs hanno rilanciato il dibattito con un intervento su «Avvenire» il 13 aprile 2025. L’ipotesi di riprendere e aggiornare il citato Manifesto deriva a loro parere dal fatto che oggi assistiamo a una redistribuzione dell’attività e della ricchezza economica nel mondo, che chiede di attingere anche a saperi non occidentali; constatiamo una crisi climatica che impone uno sviluppo sostenibile; rileviamo una concentrazione di ricchezze e soprattutto di conoscenze tecnologiche che hanno portato a costituire nuclei di potere politico e militare di dimensioni sconosciute in passato; vediamo una morale del potere bruto fondato sull’homo oeconomicus che è inaccettabile e quindi stimola a cercare una nuova etica globale.

Premesse metodologiche e sviluppi necessari

            Per questo, i due autori hanno provato a formalizzare ulteriormente «sei pilastri» della Rinascita economica, così sinteticamente definiti:

  1. Un approccio olistico e interdisciplinare, che colleghi i fenomeni economici ai sistemi naturali e a quelli umani (ingegneristici e sociali).
  2. Una disciplina globale che rispetti la diversità storica, culturale, geografica e biofisica in un mondo interconnesso.
  3. Una visione ampliata fondata sulla natura umana, sostituendo le pericolose semplificazioni dell’homo oeconomicus con la realtà dell’essere umano come zoon politikon (animale sociale).
  4. Una governance che riconosca il ruolo fondamentale dell’azione collettiva a tutti i livelli, dal locale al globale, per fornire beni pubblici e servizi, proteggere i beni comuni e promuovere la giustizia.
  5. Politiche e metriche orientate al bene comune e non solo alla misurazione e alla gestione delle quantità (Pil).
  6. Un’etica del dialogo globale che attinga alle tradizioni culturali di tutto il mondo per guidare individui, aziende e governi verso il bene comune.

Come commentare queste riflessioni? A modesto parere di chi non è interno alla riflessione specifica di questo campo del sapere, paiono spunti piuttosto interessanti, che servirebbero a mettere in una prospettiva ampia e non tecnicistica la ricerca scientifica. Al contempo, bisogna riconoscere che si tratta in qualche modo di premesse metodologiche importanti di un lavoro tutto da sviluppare, in vista della costruzione di un nuovo «ordine» complessivo pratico e sperimentabile. Occorre cioè ancora tradurre questa impostazione in una serie di regole «sistemiche», su cui creare il consenso necessario per arrivare a riformare le politiche e le scelte economiche, individuali e collettive, in una prospettiva ampia e comprensiva. Non limitandosi a suggerire «buone pratiche» applicabili in sostanza solo da parte di coloro che già abbiano un atteggiamento pregiudizialmente aperto in questa direzione. Questa mi pare la scommessa che sta di fronte a tutta l’interessante mole di riflessioni messa in campo da questi protagonisti e collegata a parecchi vivaci mondi vitali.

Una critica alternativa: visione olistica, concezione dell’umanità, dialogo tra culture

Tali stimolazioni però suscitano osservazioni critiche anche molto diverse.  Il sociologo Luca Diotallevi ha replicato sulle colonne dello stesso giornale, il 30 aprile, con un articolo che prende di petto i sei punti, con una serie di critiche serrate. Le analizziamo con qualche dettaglio, proprio perché colpiscono per il loro orientamento complessivo.

            La prima critica distingue interdisciplinare da olistico, difendendo l’idea che la specializzazione disciplinare sia fondamentale nella cultura moderna. Mi pare però un argomento che sottovaluta fortemente il rischio dell’isolamento di ciascun sapere e ciascuna disciplina. Puntare all’integrazione olistica dei saperi non coincide infatti con l’intenzione di svalutare il contributo tecnico di ogni singola riflessione, ma significa proprio chiedere a ognuna di esse l’apertura necessaria per venir stimolata dal contesto e non cadere nel circuito auto-centrato di un orizzonte che si ritiene l’unico sapere possibile. La cultura della complessità è oggi fondamentale proprio per superare il rischio dell’atomizzazione delle conoscenze. Vedendo la cosa da un altro punto di vista, un non economista che difende la logica delle singole discipline dovrebbe essere forse prudente nella contestazione di una presa di posizione di alcune centinaia di autorevoli studiosi di una materia.

La seconda obiezione è più concettuale. Un sapere scientifico – come quello economico – non potrebbe infatti pronunciarsi in modo univoco sulla natura umana e quindi sul bene comune. Usando un esempio non casuale: se qualche soggetto partisse da una considerazione teologica della natura umana come creata o come parte di un orizzonte divino, questo potrebbe essere non da tutti condivisibile. Queste differenze impedirebbero di raggiungere una definizione storica sull’essere umano e il suo scopo nel mondo.  Anche in questo caso, mi pare che l’obiezione non sia convincente. Si può sostenere una visione dell’essere umano non ristretta all’utilitarismo dell’homo oeconomicus anche partendo da fondazioni – teoriche o metafisiche o addirittura religiose – sensibilmente diverse: basta intendersi sulle concretizzazioni operative di cosa significhi questo per la ricerca economica. E quindi, specularmente e contemporaneamente, l’idea di bene comune – fondamentale ad esempio nella lunga parabola della dottrina sociale della Chiesa – non è affatto necessariamente da intendersi come rappresentazione di una visione ideologica chiusa o tanto meno confessionale dell’umanità. In un lungo dibattito filosofico, che risale a Tommaso e alla Scolastica, di bene comune si è parlato in modi molto diversi. Ma è invalsa nella riflessione sociale recente la sua considerazione come «idea regolativa»: cfr. ad esempio Gaudium et Spes, 26 («l’insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono tanto ai gruppi quanto ai singoli membri di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più speditamente»). Una prospettiva sintetica e orientativa, più che una rappresentazione contenutistica statica, che deve essere arricchita progressivamente di determinazioni tenendo conto del continuo mutamento delle condizioni storiche e può quindi essere definita proprio convergendo su una serie di obiettivi condivisi, a partire da punti di vista e da premesse anche diverse. Le condizioni conoscitive non sono necessariamente uguali a quelle teoriche fondative: le prime possono essere terreno di accordo anche in assenza di convergenza sulle seconde.

Una terza obiezione insiste sul riferimento di Becchetti e Sachs al dialogo tra culture diverse, imposto dal pluralismo contemporaneo. Diotallevi sostiene che non si possa dialogare tra visione libere e visioni autoritarie: esistono «fratture valoriali assolutamente non integrabili». Ancora una volta, se il dialogo è sui massimi sistemi, allora è certo che non ci sono possibilità di convergere totalmente, in presenza di forti divergenze sulle concezioni dell’umanità e del mondo. Ma se il dialogo è sui contenuti del sapere economico relativo all’allocazione delle risorse, si può assolutamente discutere anche tra forze politiche o tra operatori economici che abbiano diverse visioni ideologiche o metafisiche. E l’economia può essere un terreno di riconoscimento anche tra Stati governati in modo diverso, dato che la convivenza nel sistema internazionale è una dimensione sempre possibile, una volta che si rispettino le regole del riconoscimento reciproco. A meno di intendere le diversità valoriali come strumenti per contrapporre bene e male, rettitudine e bricconeria, Stati virtuosi e Stati canaglia: ci abbiamo già provato e non siamo andati molto lontani in questa direzione.

Il tema cruciale: il peso della politica e la giustificazione dell’esistente

Un quarto punto tocca la concezione della politica e della sua estensione. Val la pena riportare per esteso la critica: «Se invece non abbiamo conoscenza scientifica esauriente della natura umana e certezza di cosa in ogni momento sia bene comune, allora alla politica, come ad ogni altro potere sociale, possiamo chiedere secondo le proprie limitate competenze, di sanzionare il male, di correggere gli errori, di dare altre opportunità a chi, senza esserne la causa, se ne trova troppo poche». Questo sarebbe il punto di convergenza tra teologia cattolica e liberalismo: infatti sarebbe «dal mix di cristianesimo e liberalismo che è nato il meno peggio di quello che si è riusciti a costruire al livello globale in termini di integrazione e di libertà». Questa riflessione nasce da una concezione di «politica minima» che è del tutto discutibile, assumendo propriamente un presupposto liberale, che non è da dar per scontato. Sul limite della politica il pensiero cattolico ha insistito molto, ma senza che questo conduca a svalutare i paralleli compiti positivi della politica. Senza assolutizzare la possibilità di salvezza ed emancipazione per via politica, senza costruire ipotesi rivoluzionarie, si può senz’altro concepire la politica come strumento capace di incidere in modo incisivo sulle modalità della convivenza tra gli esseri umani. Tutt’altra cosa rispetto alla visione neoliberale. È stata la politica, e in particolare la politica democratica, a costruire quel compromesso tra capitalismo e democrazia che – prima della stagione neoliberista – ha mostrato come fosse possibile conciliare libertà ed eguaglianza a livelli più elevati, senza perdere né competitività economica né capacità di sviluppo sociale libero degli esseri umani.

Comprendiamo a questo punto la conclusione del discorso nell’articolo di Diotallevi: «Tornare a cercare ‘terze vie’ rischia di renderci complici dei nemici delle società libere». Non è affatto questione di «terze vie», mi par di capire. Non siamo cioè nelle condizioni di immaginare modelli compiutamente alternativi a quelli economico-politici dominanti in Occidente. Anche in passato le vagheggiate terze vie hanno mostrato la loro strumentalità o la loro astrattezza: si pensi alla stagione blairiana-clintoniana… con le note ricadute nostrane. Ma la decisa condanna di ipotetiche terze vie non può essere usata per giustificare l’assetto reale del mondo d’oggi, cioè un modello storico di economia e di rapporto politica-economia palesemente in crisi, devastato dalle conseguenze della grande crisi finanziaria, condizionato da una pericolosa stagnazione, segnato da eccessi di finanziarizzazione e da diseguaglianze sempre più problematiche per le stesse basi della convivenza democratica.  Non c’è bisogno di inseguire fumose terze vie per scegliere un riformismo forte, strutturato dalla volontà di cambiare le cose in modo incisivo. Deve restare aperta la ricerca di un nuovo assetto dei rapporti tra persone, società, economia, statualità, capace di correggere e integrare il capitalismo nella stagione delle Big Tech, della crisi climatica e dello strapotere della finanza. Qui sta la scommessa: altrimenti tutti i ragionamenti sopra esposti assomigliano troppo a una mesta resa all’esistente. Siamo forse tornati all’indimenticato «there is no alternative» della Margaret Thatcher del 1979? Dobbiamo accontentarci di «un paradigma economico che sfrutta le risorse della Terra ed emargina i più poveri», come ha detto Leone XIV nella omelia della messa di insediamento?

(Foto di Jakub Żerdzicki su Unsplash)

  • Guido Formigoni
    Guido Formigoni

    Professore di Storia contemporanea e Prorettore vicario, Università IULM - Milano. Coordinatore della rivista web Appunti di cultura e politica.

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