La scarsa presenza di studi storiografici sulla Lega era forse giustificabile vent’anni fa ma oggi, a quaranta dalla sua fondazione – assumendo come riferimento il suo maggiore “affluente”, la Lega Lombarda – e a trenta dalla sua affermazione nel sistema politico, lo è molto meno. Una delle regioni di questo ritardo è ricordata da Paolo Barcella nell’introduzione al suo La Lega. Una storia, pubblicato nel 2022: le notizie sul partito di Umberto Bossi sono venute molto di più da una straordinaria messe di fonti sindacali, giornalistiche, televisive, radiofoniche, dalle autobiografie dei suoi leader, da quotidiani, volantini, manifesti, dai resoconti delle sue feste che non dagli archivi ufficiali della sede di via Bellerio, rimasti a lungo inaccessibili agli studiosi e ora, a quanto pare, almeno in parte consultabili, come dimostra il prezioso studio di Ciro Dovizio apparso nel 2024 su «Italia contemporanea». Sarà quindi finalmente possibile rileggere la storia di questa protagonista – comunque la si pensi – della Seconda Repubblica in un’ottica diversa.

La Lega Nord nasce tra il 1989 e il 1991 dalla convergenza tra Lega Lombarda, Liga Veneta e altre forze autonomiste del Settentrione; nel 1987 aveva conseguito il suo primo successo nelle urne, portando Umberto Bossi al Senato e Giuseppe Leoni alla Camera. Alle elezioni europee del 1989 l’Alleanza Nord – accordo elettorale prodromico della Lega – ottiene il 3,7% di voti dell’Italia settentrionale e la Lega Lombarda l’8,1% in Lombardia. Il vero trionfo avvenne però alle regionali del 1990 (18,9% alla Lega Lombarda) e alle politiche del 1992, quando la Lega Nord consegue l’8,6% su scala nazionale, il 24,3% in Lombardia, il 17,1% in Veneto, il 17,1% in Piemonte, crescendo anche in Liguria, Emilia-Romagna, Trentino, Friuli Venezia-Giulia e confermando una tendenza che proseguirà fino alla discesa in campo di Silvio Berlusconi nel 1994.

Federalismo contro fascismo

È interessante notare, in questi primissimi anni di vita, l’uso del tutto peculiare che il suo fondatore e leader indiscusso, Bossi, e non solo lui, fa della dicotomia fascismo/antifascismo adattandolo alle mutazioni del quadro politico; interessante anche in relazione all’ultima intervista, dell’aprile 2024, rilasciata dal suo primissimo “Onorevole”, Leoni appunto che, alle domande di «Open», rispondeva così: “Io sono federalista; lui [Salvini, il segretario federale] è fascista. Io voglio l’autonomia, lui i fascisti. Non occorre aggiungere altro. […] La Lega era federalista, si batteva per il Nord, per l’autonomia, per le industrie, per i lavoratori. Adesso è malata di nazionalismo e di fascismo. Per me che, come Bossi, vengo da una famiglia antifascista, è doloroso”.

Nel settembre del 1989, ad esempio, l’organo ufficiale «Lombardia Autonomista» riporta uno scontro avvenuto nell’aula del Senato fra Bossi e Antonio Rastrelli del Movimento sociale, futuro governatore della regione Campania. Figlio di Carlo – uno dei fondatori del fascismo a Napoli, console generale della MVSN e nel dopoguerra vicesindaco della città partenopea nella giunta Lauro – Rastrelli non nasconde l’impronta dichiaratamente fascista della famiglia da cui proviene; Rastrelli, si noti, sarà cinque anni più tardi compagno di governo di Bossi nel governo Berlusconi I. Cosa dice il Senatür per scatenare l’ira del missino? Che l’antifascismo, di cui si fa vanto, è intrinsecamente legato all’autonomia regionale: citando le parole in Assemblea costituente dell’antifascista e repubblicano marchigiano Oliviero Zuccarini, “il problema della regione diventò vivo, vivissimo e fu agitato subito dopo l’avvento del fascismo. […] è un vecchio avvertimento della democrazia ed è una vecchia esperienza: quando in un solo punto si concertano tutti i poteri e tutte le forze – lo diceva anche Cattaneo, sottolinea Bossi – chi riesce a mettere le mani sul potere può stabilire una dittatura. Infatti l’antifascismo si orientò istintivamente verso al soluzione regionale e lo fece valutandola sotto l’aspetto di una soluzione di democrazia e di libertà nello stato”. Aggiunge poi: “la lotta contro la dittatura fu impostata sul terreno delle autonomie. Dirò di più – spaventatevi pure – fu impostato sul terreno del federalismo, persino dai comunisti”. I toni sono concitati e Rastrelli sbotta: “Bossi non faccia il provocatore, lei non può parlare di lotta contro lo Stato che qui rappresenta!”. Interviene un altro senatore missino, Sergio Sanesi, Bossi rilancia; volano parole di fuoco.

Le parole di Zuccarini erano state riprese da «Lombardia Autonomista» già il 29 maggio: “Nessuno di noi, che ne facemmo argomento della nostra battaglia, pensò di chiedere la Regione come sé stessa, come organismo separato e indipendente dalla vita della Nazione. Lo vedemmo invece proprio nel periodo del fascismo, come una soluzione democratica”.

Il particolare accordo/non accordo con Alleanza nazionale nel 1994

Passano quasi cinque anni. All’inizio del febbraio 1994, durante un convegno della Lega a Bologna Bossi è categorico: “Non faremo mai un accordo politico con il Msi. Noi siamo quelli che continuano la lotta per la liberazione fatta dai partigiani e tradita dalla partitocrazia. Mai con i fascisti o con i nipoti dei fascisti”. Il sindaco della città emiliana del Pds viene fischiato, Occhetto è dipinto come un “venditore di fustini di detersivo”, si profetizza e ci si augura la sparizione della Dc dallo scenario politico. tre mesi dopo, l’11 maggio, giura davanti al Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro il governo Berlusconi. Vicepresidenti del Consiglio sono il leghista Roberto Maroni e il missino Giuseppe Tatarella. Due settimane prima, il 25 aprile, una imponente manifestazione di 300 mila persone aveva sfilato per le vie di Milano in occasione della Festa della Liberazione. Presenti tutte le maggiori personalità politiche: Occhetto, Veltroni, D’Alema, Martinazzoli, Bindi, Jervolino, Anselmi, Del Turco, Bertinotti, Cossutta, Napolitano, La Malfa, D’Antoni, Trentin e decine di sindaci da tutt’Italia. Alle 15 si era presentato anche Bossi, accompagnato dal neosenatore Massimo Dolazza e da Rosy Mauro, la pasionaria. Secondo quanto riporta la cronaca del «Corriere della Sera», non appena viene riconosciuto i manifestanti gli urlano “venduto, fascista, bugiardo”; in vista di piazza San Babila il coro della contestazione si fa via via più assordante con lancio di monetine e qualche lattina. Bossi, diretto a Palazzo Marino, è intercettato dai giornalisti, contestato ma per nulla turbato: “Noi abbiamo fatto la moderna storia della liberazione, quella della Lega contro la partitocrazia. Ci mancherebbe altro che non venissimo in piazza a manifestare per la Liberazione. C’è un alto valore simbolico perché segna il punto di partenza di una nuova epoca che vede esplodere nella coscienza del popolo l’ideale del federalismo”.

Nell’estate di quel 1994 ricorre il settantesimo dell’omicidio Matteotti. «Lombardia Autonomista» interpella il deputato leghista Luigi Rossi, classe 1910, giornalista a lungo vicino alla Dc diventato poi stretto collaboratore di Bossi. “Per la mia età – dice Rossi – ricordo con estrema chiarezza la grande ripercussione che ebbe in tutto il mondo” e che portò alla “condanna universale del fascismo”. “La guerra di liberazione contro il nazifascismo è stata combattuta anche nel nome di Matteotti”; non bisogna dimenticare, però, che “gli squadristi non furono solo gli scherani del fascismo, ma anche lo strumento di una monarchia complice, squallida e rinunciataria”.

Le accuse di Rossi a casa Savoia si legano alla ripresa in grande stile dei propositi autonomisti, sfocianti poi in apertamente secessionisti, favoriti dalla frattura con Berlusconi del dicembre 1994, divenuto ormai alleato-concorrente troppo pericoloso. Ha il via quindi in rifiuto di tutto ciò che rappresentava lo stato italiano – a cominciare dal Tricolore come ha evidenziato Giorgio Vecchio – in un peculiare calderone che riuniva, secondo le parole di Bossi, “camaleonti, voltagabbana, riciclati, protetti del piduismo e della restaurazione fascista”. Confermando la fiducia al governo Dini, Bossi accosta il disegno politico del Cavaliere e di Gianfranco Fini a quello di Joseph Goebbels; il 14 febbraio 1995 «Lombardia Autonomista» svela dalle proprie pagine qual è lo strumento di cui, liberatosi da “alamari e camice nere”, questo “nuovo fascismo” si servirebbe per “manifestare la sua natura violenta”: Fininvest e la rete di televisioni commerciali di proprietà dell’ormai ex presidente del Consiglio. L’azione politica della Lega diventa allora “La nuova Resistenza”; il 28 marzo «Lombardia Autonomista» titola 1945-1995: la Resistenza continua!, spiegando che al partito “non restava altro che recidere subito un cordone ombelicale che aveva tutta l’intenzione di continuare a nutrire il Paese con la politica dell’aggiustamento, della consorteria massonica, mafiosa, tenuta insieme dalla malta del nazionalismo fascista”. La Lega “ha detto no […] ha fatto muro […] questa nuova Resistenza al prepotente che avanzava, che non intendeva e non intende ancora separare i propri interessi economici da quelli politici”. La Resistenza dunque “continua, i cappucci neri come le camicie nere non devono trovare cittadinanza nella nostra Repubblica”.

Il 28 maggio all’Assemblea federale che si svolge a Torino, Bossi annuncia la nascita del Parlamento della Padania. Il 7 giugno successivo, in provincia di Mantova, esso si riunisce per la prima volta. Nello stesso mese, in Parlamento i leghisti presentano un disegno di legge per l’abolizione del Tricolore, giudicato simbolo dell’unificazione imposta dalla spinta egemonica dei Savoia.

Salvini e Vannacci: una storia diversa Un salto in avanti di trenta anni ci porta alle elezioni europee del 2024. La Lega Nord ora è Lega per Salvini Premier; il nord è sparito dal nome, e dai radar, mentre è comparso quello del suo “capitano”, Matteo Salvini, segretario dall’aprile 2012. Il generale Roberto Vannacci – candidato “forte” voluto con determinazione da Salvini stesso nelle liste leghiste – a «La Stampa» dice: “Io fascista? Non mi offendo”. Recordman di preferenze personali, l’ex militare condurrà la sua intera campagna elettorale nel terreno di gioco del politicamente scorretto, cercando in modo a volte ambiguo ma spesso esplicito – mantenendosi sempre in un gioco con la soglia del dicibile – il voto dei nostalgici del regime. Per la Lega di Salvini si tratta di un’operazione che ha un senso strategico, nota David Allegranti su «Le Grand Continent»: si tratta di rivolgersi a un elettorato rimasto deluso dal “tecnosovranismo” di Giorgia Meloni, erede della tradizione missina già ritenuta però una “traditrice” da alcuni neofascisti prima di diventare capo del governo. Con la scelta di Vannacci, l’obiettivo di Salvini è di fare della Lega il collettore del risentimento anti-meloniano da parte dell’elettorato di estrema destra offrendo la possibilità di non scegliere partiti minoritari ma partiti di governo, come appunto la nuova Lega nazionale, non più autonomista ormai da anni. Insomma, il regime fascista è senz’altro finito tanti anni fa, ma in giro i nostalgici si trovano. E votano.

Crediti foto Lo Sky, CC0, via Wikimedia Commons

  • Andrea Montanari

    Dottore di ricerca in Storia contemporanea, assegnista di ricerca presso UniNettuno.