La Seconda assemblea nazionale del Cammino sinodale delle Chiese in Italia (31 marzo-3 aprile) è stata la cartina tornasole sia dell’efficacia composta della sinodalità, sia delle resistenze istituzionali davanti a questa prassi ecclesiale fortemente voluta da papa Francesco. Una scelta intelligente e sapiente di mons. Erio Castellucci, vescovo di Modena-Carpi e presidente del Comitato nazionale del Cammino sinodale, ha consentito che a prevalere fosse proprio la sinodalità funzionante e non le molte paure della Cei.
La controversia sul documento finale
La collisione di queste due forze si è avuta in merito al testo di 50 proposizioni, prodotto formalmente dalla presidenza del Cammino sinodale, che avrebbe dovuto rappresentare una sorta di indice sintetico delle questioni fondamentali emerse lungo i quattro anni del Cammino sinodale italiano. L’attesa della presidenza e della Cei era quella di un voto sulle singole proposizioni, per le quali erano previste solo leggere modifiche di forma, nella mattinata conclusiva del 3 aprile. Il testo così approvato sarebbe poi stato consegnato alla Cei che, nella sua Assemblea di maggio, avrebbe dovuto provvedere alla redazione del documento finale.
Già questa scelta, ossia di affidare la stesura di questo documento a un soggetto esterno all’Assemblea sinodale stessa, era indice della volontà di controllo da parte della Cei sugli esiti del Cammino sinodale delle Chiese italiane. Ma la pratica della sinodalità, soprattutto quando non recepita dalla responsabilità episcopale, si è rivelata capace di smascherare e resistere a questa dinamica strutturale imposta dalla Cei che, fin dagli inizi, palesava la sua tendenza anti-sinodale.
Martedì primo aprile, nella sessione plenaria della mattinata, l’Assemblea ha mostrato chiaramente di non riconoscersi nelle 50 proposizioni redatte dalla presidenza del Cammino sinodale, dichiarando la propria non recezione di esse – sia nei circa 50 interventi orali, sia in quelli scritti consegnati alla Presidenza stessa.
Ben oltre il contenuto delle proposizioni, questa non ricezione rappresenta il punto chiave di tutto l’accaduto: esse non erano quello che avrebbero dovuto essere – ossia, una recezione della presidenza del Cammino sinodale e, in particolare, della presidenza della Cei, dei lavori, confronti, espressioni, che la pratica sinodale aveva prodotto negli anni.
Il meccanismo di controllo, pensato come esercizio di potere episcopale sulle dinamiche ecclesiali dell’Assemblea sinodale, è saltato proprio perché non ricettivo della sinodalità stessa. Nonostante le spinte a fare come se nulla fosse successo, l’intelligente lucidità di mons. Castellucci ha riconosciuto che non vi era altra via che quella di riconoscere la normatività della sinodalità funzionante. Tanto più che quest’ultima, espressa dalla presa di posizione dell’assemblea, rappresentava un luogo di incontro e di comunità fraterna fra laici, vescovi, preti e religiosi/e. Ossia, faceva saltare quella contrapposizione classica, che ha occupato tutto il post Concilio italiano (e non solo), tra vescovi e laicato cattolico.
A conclusione della plenaria dell’ultimo giorno di lavori (3 aprile) Castellucci ha, infatti, detto che la «Chiesa non è composta da guide che ignorano il “sentire” del popolo di Dio, tirando dritto come se avessero sempre ragione, ma è composta da guide chiamate a discernere la presenza e l’azione dello Spirito nel popolo di Dio, del quale fanno parte».
La scelta di papa Francesco e la titubanza dell’episcopato italiano
In questo modo, ossia riconoscendo che la sinodalità non è una parola alla moda ma una pratica efficace, Castellucci ha salvato in extremis quattro anni di lavoro delle Chiese italiane evitando che si riducessero a una farsa. Rimane però il fatto che quello che ha detto a termine del Cammino sinodale italiano rappresenta la premessa inaggirabile della sinodalità stessa. Ed è quest’ultima che la Cei non ha mai veramente recepito come indicazione magisteriale del papa. Dapprima facendo come se questa indicazione non fosse mai stata data esplicitamente da papa Francesco alla Chiesa italiana; poi tergiversando dopo che le era stata imposta nonostante la riluttanza della presidenza Cei; infine, addomesticando la sinodalità e la sua Assemblea imponendo il controllo (e non il discernimento) episcopale sui suoi esiti.
Di fatto, la presidenza della Cei ha considerato il pontificato di Francesco una meteora – aspettando per un decennio che le cose tornassero come prima. Recependo di questo decennio le esposizioni di prestigio su scala globale, ma resistendo accanitamente al fare le cose concrete che producessero un reale rinnovamento evangelico della Chiesa italiana. Ora tutto si sposta a ottobre – senza papa Francesc0 (morto nella mattinata di lunedì 21 aprile). La sinodalità funzionante, fatta da laici/laiche e vescovi, si è opposta all’essere ridotta a teatrino di un’operazione cosmetica di obbedienza formale al magistero di papa Francesco. Alla Cei rimane da decidere se cedere alla tentazione di fare come se il pontificato di papa Francesco non fosse mai stato, o se abbandonare la tattica di una non-recezione che passerà alla storia come la massima distanza tra il vescovo di Roma e l’episcopato italiano. L’attendismo di Zuppi ha trovato il suo alleato nel corso della natura umana, Francesco assente sarà più facile per la Cei lasciarsi alle spalle quel convitato di pietra che è la sinodalità funzionante. Se così sarà, la volontà di potere e l’ossessione di egemonia della Cei non potrà più nascondersi dietro belle parole svuotate di ogni portata e senso.
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