Lettura severa della realtà? Forse. Ma i fatti sembrano raccontarci questa deriva. È l’era dei Trump (che minaccia Canada, Panama, Messico, Groenlandia e impone dazi su larga scala) e dell’imperialista Putin, dell’autocrate Erdoğan, del neocolonialismo cinese. Di Gaza rasa al suolo da un Netanyahu che non ricorda il dramma della Shoah; di un’Africa sempre più povera e in fiamme. E la tragedia di Haiti riassume, nel suo “piccolo”, la nuova era della “guerra mondiale a pezzi” dove vige la legge della giungla.
L’Unione europea… in presa diretta
Capita poi, al cronista, di vivere sentimenti contrastanti. Partecipando a una sessione plenaria dell’Europarlamento, a un briefing della Commissione o a un Consiglio europeo, appunta sul taccuino le linee del Piano ReArm, quelle del Libro bianco sulla difesa e la proposta di Regolamento rimpatri, respirando un’aria cupa. “Se l’Europa vuole evitare la guerra, deve prepararsi alla guerra”, scandisce Ursula von der Leyen. Dichiarazione in linea con la piega che sta assumendo l’Unione europea, con il progetto ReArm, gli 800 miliardi (a debito) per alimentare l’industria bellica, la rinnovata linea della “deterrenza” (altro termine rispolverato dalla presidente della Commissione), la quale rimanda, inutile negarlo, agli anni della guerra fredda. Senza farsi mancare un’altra espressione allarmante: “L’era del dividendo di pace è finita da tempo”.
Ci sono inoltre i rimpatri: il Patto per la migrazione e l’asilo del 2024 è sostanzialmente una scatola vuota, che certo non risolve la questione. Per cui si stralcia il capitolo dei migranti irregolari da rimandare al mittente. La misura che suscita maggiori perplessità nel progetto è costituita dai cosiddetti “return hubs”: la Commissione intende introdurre la possibilità per gli Stati membri di concludere accordi con Paesi terzi nei quali trasferire i migranti in attesa di essere rimpatriati nel loro Paese d’origine. Dietro la proposta sono stati intravisti i modelli delle deportazioni britanniche in Ruanda oppure – pur su un altro piano – l’intesa Italia-Albania per rinchiudere temporaneamente i migranti nel Paese delle Aquile. Uno dei nodi principali riguarda il fatto che, una volta trasferiti in un Paese terzo (spetterà a ogni singolo governo decidere se quello Stato rispetta i diritti fondamentali), i migranti saranno affidati alle giurisdizioni di quei Paesi, senza le necessarie garanzie fornite dal diritto dell’Unione europea. È stato inoltre osservato che si parla di “rimpatri”, dunque di trasferimento nella patria (nel Paese) d’origine: non in altri Stati.
Da piazza del Popolo a Roberto Benigni
Per fortuna al cronista sono concesse salutari boccate d’ossigeno. Ad esempio la partecipazione alla manifestazione per l’Europa, lanciata da Michele Serra e svoltasi a Roma sabato 15 marzo. Una piazza del Popolo gioiosa e colorata, in ascolto di numerose voci che hanno rimarcato la necessità dell’unità europea, del superamento dei muri e dei nazionalismi, della difesa e promozione dei valori fondativi (pace, libertà, democrazia, solidarietà, cultura, apertura al mondo…). Parole, è vero, accompagnate semmai da tanto entusiasmo. Ma con un vocabolario totalmente differente da quello dei premier e dei responsabili delle istituzioni Ue. Sogni e ambizioni che guardano a un futuro pacificato: incontro tra i popoli, mani tese reciproche pur in un tempo accelerato e in un mondo sempre più complesso. In questo senso i discorsi dello stesso Serra e dello scrittore Antonio Scurati, assieme agli altri alternatisi sul palco, hanno commosso e suscitato speranze: per un’altra storia, un altro schema di relazioni tra gli Stati, una reale accettazione delle culture e delle fedi altrui, in un mondo in cui non siano i timori – seminati ad arte da politici interessati alle prossime elezioni – a dettare regole e comportamenti. Una piazza, politicamente variegata e persino frammentata, che ha unanimemente esplicitato le sue distanze da Trump, Putin, dagli armamenti come soluzione al quadro internazionale, senza per questo trascurare le legittime attese di sicurezza misurabili in ogni angolo del globo, compresi i presenti in piazza del Popolo.
Altro bel momento di coscienza collettiva su Europa, storia, democrazia e pace è poi giunto con la serata televisiva del 19 marzo che ha avuto come mattatore Roberto Benigni, un vero controcanto alle infelici (e tattiche) esternazioni della premier Meloni sul Manifesto di Ventotene e sui confinati dal fascismo, cui si deve un testo-simbolo del processo d’integrazione europea.
Punti deboli, nodi da sciogliere
Già, ma i bei momenti non bastano. Neppure le parole. Anche se cominciare a raccogliere uno degli inviti di papa Francesco – quello a “disarmare le parole” – potrebbe essere d’aiuto. In realtà i nodi al pettine sono parecchi.
Al fondo c’è, anzitutto, la crisi latente delle democrazie, che potremmo definire “occidentali”, così come le abbiamo conosciute finora. Svariate le ragioni: dal disinteresse per la sfera pubblica alla delega elettorale (per chi ancora vota), dall’appesantimento delle istituzioni elettive alla farraginosità delle macchine legislative e burocratiche che scoraggiano e allontanano i cittadini. Senza trascurare la necessità di sentirsi guidati da una mano forte che rassicuri nell’era delle paure individuali e collettive, o i percorsi comunicativi segnati soprattutto dai social, i quali inducono a chiudersi in sfere assertive dove il dialogo e il dissenso non sono contemplati. Meglio il pugno di ferro di pochi piuttosto che la fatica partecipativa di tutti.
A scavare la terra sotto i piedi delle fragili democrazie contribuiscono i diffusi sentimenti nazionalisti. “Prima ci siamo noi di voi; i nostri interessi anche a scapito dei vostri…”. Nazionalismi che sembrano l’espressione politica e collettiva di un rafforzato individualismo, angosciato e allarmato, alla disperata ricerca di una sponda rassicurante: così hanno buon gioco leader muscolari, apparentemente tutti d’un pezzo, che predicano fattori identitari: tradizionali – e tradizionalisti –, “etnici”, persino religiosi.
Sono gli stessi nazionalismi che mirano, pur senza dichiararlo, a indebolire l’Europa solidale, che ne mettono in discussione a ogni piè sospinto i principi di unità e solidarietà. Cercando amicizie altrove piuttosto che nell’Ue (Salvini e Orbán guardano a Mosca; Meloni si volge verso Washington). D’altronde è difficile ravvisare oggi, su scala europea (Stati membri, istituzioni comunitarie) vere leadership continentali, visionarie al punto giusto con una correlata capacità di “mettere a terra” ideali, valori, intuizioni, strategie.
Nuova consapevolezza, ritrovata unità
Tutto perduto, dunque? Non è detto. E se è vero, come raccontano gli storici, che l’Europa comunitaria sa compiere balzi in avanti di fronte alle grandi sfide imposte dalla storia… può esserci speranza. L’Ue27 deve però serrare i ranghi, necessita di coesione e di una forte leadership politica, non può che accorgersi del pericolo russo e aprire gli occhi rispetto alle accresciute distanze dagli Stati Uniti. In questo clima, l’Ue è più sola – pur ritrovando un filo rosso con il Regno Unito – e, quindi, maggiormente responsabile del proprio futuro, del futuro dei suoi popoli, della sua democrazia, della propria economia, della sicurezza, della tutela dell’ambiente. È tempo di passare dalle parole ai fatti. Perché la Russia è, e rimarrà, una minaccia. Gli Stati Uniti di Trump – avvolti nella nazionalistica difesa di interessi esclusivi – rischiano di non essere più un partner affidabile, se non addirittura diventare un problema per l’Europa.
Dall’Ue c’è da attendersi una rinnovata consapevolezza e una ritrovata unità. Ma queste non potranno miracolosamente essere calate dall’alto. È necessario – partendo “dal basso” – rimettere al centro il tema della cittadinanza europea, che passa dall’educazione scolastica e universitaria, dall’incontro delle culture e delle idee, dal misurare i vantaggi concreti del mercato unico e delle prerogative da questo assicurate (libera circolazione delle persone, delle merci, dei servizi e dei capitali). Cittadinanza che può crescere grazie all’Erasmus e alla conoscenza delle lingue altrui; dalla condivisione dei mercati, della ricerca e dell’innovazione; dall’autonomia Ue nei campi del digitale, dell’energia, delle materie prime. Solo per fare degli esempi.
Si tratta di riscoprire l’unità attorno ai principi espressi dai Trattati Ue. Di rafforzare la coesione economica e politica interna. Di procedere con quelle riforme (emerse dalla Conferenza sul futuro dell’Europa, a suo tempo caldeggiata da David Sassoli) che rendano l’Unione europea capace di decidere e di agire, assegnando maggior peso alle istituzioni “comunitarie” (Parlamento e Commissione) rispetto al Consiglio, dove siedono i governi dei Paesi membri. Una Unione che rimanga aperta al mondo, a un conforto costruttivo con i grandi players planetari, alla cooperazione con i Paesi in via di sviluppo, sulla linea del multipolarismo.
Il cammino da percorrere è notevole, gli ostacoli da superare insidiosi, le ritrosie nazionali e i freni burocratici non mancheranno. Ma nell’epoca dei protagonisti subcontinentali, nella quale i singoli Paesi conteranno sempre meno, occorrerà fare squadra. Almeno con chi, sotto la bandiera blu con le 12 stelle, vorrà rimanere.
(Foto di Oliver Cole su Unsplash)