Molti studi, soprattutto economici e demografici, dimostrano come ci avviamo velocemente verso un mondo trainato da USA e Cina, con la popolazione africana in costante aumento e i paesi europei in perenne ricorsa, ogni giorno più piccoli, se presi singolarmente.

Partendo da qui, la maggioranza degli studiosi che si interessano alle sorti dell’Unione Europea, da tempo, si battono per accelerare bruscamente il processo di integrazione secondo l’impostazione che risale, tra gli altri, a Jacques Delors. Delegare più potere verso l’alto, a livello sovranazionale e verso il basso, a livello regionale, con progressivo depotenziamento degli Stati nazionali. Per dirla con uno slogan, si tratta della formula degli “Stati Uniti d’Europa”. Matteo Scotto, autore di un saggio fresco di stampa per Rubettino (La trappola dell’integrazione? Capire l’Europa degli Stati nazionali) non si è fatto catturare, a torto o ragione, da questa narrazione. Con il suo lavoro, mosso da uno sguardo genuinamente europeista (il libro è dedicato a chi contribuisce a costruire l’Europa “fiore fragile e infinitamente bello”), Scotto prova a confutare la tesi federalista sostenendo l’efficacia del metodo decisionale intergovernativo, che non può di per sé essere considerato “causa di disintegrazione europea”. Si tratta di un testo denso, tecnico e appassionato al tempo stesso (impreziosito dalla prefazione di Christiane Liermann Traniello) con cui l’autore, direttore del dipartimento di ricerca di Villa Vigoni, centro italo-tedesco per il dialogo europeo, conduce il lettore a domandarsi se, effettivamente, alcune cessioni di sovranità giuridica degli Stati nazionali all’UE, come in tema di politica estera e di difesa, possano essere mai realizzabili in tempi ragionevoli. Tenuto conto che l’UE non gode di potere costituente, e quando ha tentato di percorrere la strada del costituzionalismo europeo si è arenata assai velocemente. Per ridare prospettiva e unità all’UE meglio sarebbe, sostiene l’autore, concentrarsi sull’affinamento e l’ampliamento dell’intergovernamentalismo, vero e proprio “sinonimo di cooperazione e non di disintegrazione”. La prospettiva è l’aumento della frequenza delle decisioni prese, per consenso, in seno al Consiglio europeo, dove gli Stati condividono volontariamente porzioni della propria sovranità, rinunciandovi in parte, a servizio di un progetto comune. L’idea di fondo è che le competenze degli Stati “non sono statiche e mutano a seconda del contesto storico e politico internazionale”. Per questo non è un male se tali poteri rimangono in parte in capo agli Stati stessi, purché si rendano conto che il loro esercizio è molto più efficace – benché più faticoso – se fatto a valle di un percorso di mediazione democratica intergovernativa svolta sotto la bandiera europea. Al riguardo, probabilmente anche Scotto condividerebbe l’idea di Enrico Letta per cui la nostra Europa “non è divisa tra paesi grandi e paesi piccoli, ma tra paesi piccoli e paesi che non hanno ancora compreso di essere tali” (E. Letta, Ho imparato. In viaggio con i giovani sognando un’Italia mondiale, Il Mulino, 2019). E nemmeno sarebbe contrario al principio per cui tra i compiti dei paesi che si riuniscono a Bruxelles ci sia quello di provare a indirizzare il mondo verso valori (welfare, separazione dei poteri, diritti civili e sociali, libertà di movimento e stabilimento, integrazione di diversità, sostenibilità ambientale) che rendono tutt’oggi l’Europa per certi aspetti un modello.  A tal proposito il libro, che prende le mosse dall’analisi di come l’UE ha risposto alla minaccia del Covid-19, è una miniera di pepite preziose, che si chiude individuando tre possibili percorsi di riforma dell’UE, tutti aventi quale presupposto una base negoziale intergovernativa (da qui, il richiamo di Scotto alla cd. “trappola intergovernativa”, che rimanda anche al titolo del volume). La prima, è la più lineare: revisione dei trattati dell’UE oggi in vigore, consci che qualsiasi procedura – ordinaria o semplificata – richiederebbe un doppio consenso di tutti i 27 Stati membri. La seconda consisterebbe nell’approvare trattati intersettoriali cui aderirebbero i soli Stati membri interessati, su determinate materie, al di fuori dell’ordinamento giuridico dell’UE. Con il rischio non remoto, che lo stesso autore evidenzia, di creare un’Europa “decoupled”, più divisa e più esposta all’influenza delle potenze esterne. La terza, per cui Scotto sembra propendere, è incrementare, in via parallela all’ordinamento dell’UE, trattati bi-trilaterali aventi a oggetto determinate materie, che siano in grado di aumentare il livello di cooperazione tra gli Stati europei che lo desiderano, dando nei fatti vita alla cd. “Europa a due velocità”. Senza escludere nessuno: sarebbero trattati aperti, cui qualsiasi Stato membro potrebbe aderire.

Piaccia o no, la tesi di Scotto non può essere derubricata a mero “sovranismo dotto” o a un surrettizio tentativo di aggiungere sabbia agli ingranaggi europei già in crisi. Coglie bene Liermann Traniello nella prefazione: il libro, in fondo, ci dice che l’Europa fallirà se “sacrificata sull’altare di una sacralizzazione” astratta e, così, sarà svuotata di ogni prospettiva politica e democratica. Prospettiva, quest’ultima, che per Scotto meglio emerge nella negoziazione intergovernativa che non nei meandri dei processi della Commissione e del Parlamento europeo. Il dibattito è aperto.

  • Martino Liva

    Avvocato, consigliere dell’associazione di Città dell’uomo e coordinatore del Comitato dei sostenitori della Fondazione Ambrosianeum.