Il quasi contestuale proscioglimento e, rispettivamente, assoluzione nei procedimenti intestati ai due Matteo, Renzi e Salvini, come da facile previsione, ha dato ulteriore fiato alla campagna da tempo in corso tesa a gettare discredito sulla magistratura e a propiziare un’accelerazione delle riforme Nordio, in testa alle quali figura la separazione delle carriere. E, di nuovo come da copione collaudato, ha generato un profluvio di reazioni nelle quali si fa confusione tra i profili giudiziari e quelli politici, tra fatti e reati.
Quando le parole traggono in inganno… Secondo il dispositivo della sentenza del tribunale di Palermo, Salvini è andato assolto “perché il fatto non sussiste”. Assoluzione con formula piena, d’accordo. Ma a non sussistere è il reato o, se si vuole, un fatto che configura un reato. Due per la precisione: il sequestro di persona e l’omissione di un dovere d’ufficio (l’autorizzazione allo sbarco in un porto sicuro), che erano i due capi d’imputazione intestati a Salvini. Ma, attenzione, il fatto sussiste eccome: avere trattenuto in mare, anziché fatto sbarcare, per lunghi giorni in condizioni disumane sotto un sole cocente, 147 poveri disgraziati, uomini, donne, bambini ridotti allo stremo. Con una motivazione manifestamente bugiarda: la sicurezza nazionale, la difesa dei confini. Come se quel drappello di disperati potesse rappresentare una minaccia alla sicurezza del paese. Di più: Salvini, a caldo, dopo il verdetto, ha sentenziato, lui (sic), che non si deve fare politica sulla pelle dei migranti. Con una sorta di transfert. Proiettando sui suoi accusatori, politici o magistrati asseritamente politicizzati, la colpa di un comportamento nel quale nessuno più di lui eccelle, ovvero speculare e fare propaganda sul dramma dei migranti. Tre volte preoccupanti gli effetti della sentenza: a) una sorta di avallo a praticare anche in futuro la ricetta adottata per la Open Arms; b) far passare l’idea che le Ong impegnate nel soccorso in mare e nel salvare vite umane siano assimilabili agli scafisti e ai trafficanti di esseri umani; c) la spinta a ostinarsi nella soluzione scriteriata, demagogica e costosissima dei centri in Albania.
Anche l’archiviazione delle accuse a Renzi e ai suoi sodali merita una chiosa. Secondo i giudici, non ci furono reati. Prescindiamo da due elementi che plausibilmente hanno concorso a produrre l’archiviazione: a) la non utilizzabilità delle intercettazioni e delle comunicazioni (chat, mail) tra gli indagati acquisite nel corso delle indagini; b) l’effetto della riforma Cartabia, quello secondo il quale il rinvio a processo deve essere motivato dalla “ragionevole previsione di una condanna”. Formula restrittiva introdotta di recente che, alla lettera, si rinviene nel dispositivo dell’archiviazione: “gli elementi acquisiti non consentono di formulare una ragionevole previsione di condanna”. In precedenza, la norma era più estensiva: quando “gli elementi acquisiti nel corso delle indagini non sono idonei a sostenere l’accusa in giudizio”. Giusto così, intendiamoci, se queste sono le regole processuali. E tuttavia, anche qui, restano i fatti e la loro valenza politica. Renzi si è difeso con l’argomento che la Fondazione Open non è assimilabile a un partito o una corrente di partito, con gli obblighi di legge conseguenti in tema di finanziamenti. A ben vedere, la sua linea di difesa, accolta dai giudici e dunque risultata vincente in sede processuale, è, per converso, un’aggravante sul piano politico. Mi spiego: nel mentre Renzi era alla guida del PD, le cui casse si facevano sempre più vuote al punto da esigere drastici tagli del personale, egli raccoglieva risorse per sé e per i suoi sodali attraverso una fondazione. Raffaele Cantone, al tempo al vertice dell’Autorità anticorruzione, ammoniva circa l’uso appunto opaco e improprio dello schermo rappresentato dalle Fondazioni per aggirare gli obblighi di legge in materia di finanziamento ai partiti. Ancora: come per le imprese, anche per la competizione interna ai partiti, si può parlare di concorrenza sleale di chi dispone di risorse, acquisite addirittura dal leader del partito, a discapito di chi non ne dispone. Ne risulta compromessa la democrazia interna. Requisito dei partiti secondo la Costituzione e tanto più di un partito che si qualifica democratico persino nel nome. Dentro il procedimento, si è fatta valere la circostanza che nella Leopolda renziana non vi fosse traccia della sigla e del logo del PD. Il che, ripeto, era e resta una grave anomalia per chi, in quanto segretario, più di ogni altro, del partito avrebbe dovuto prendersi cura. Di tale distorsione si è poi avuta conferma all’atto in cui Renzi ha rotto con il PD, sottraendogli parlamentari e ministri ed enunciando il proposito di metterne in discussione la stessa esistenza.
Le sentenze si rispettano, ma vanno sottoposte a un vaglio critico le letture che se ne vogliono forzosamente ricavare. E comunque è d’obbligo distinguere con cura il profilo giudiziario che concerne i singoli, dai profili politici che, nei due casi in oggetto, suggeriscono riflessioni e giudizi che non possono essere sbrigativamente archiviati alla stregua dei procedimenti affidati ai tribunali.
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