La designazione di un paese come paese di origine sicura “non è un atto politico, un atto fuori dal diritto e dalla giurisdizione […] La nozione di paese di origine sicuro ha carattere giuridico”, quindi “il giudice ordinario […] può valutare, sulla base delle fonti istituzionali e qualificate,  […] la sussistenza dei presupposti di legittimità ed eventualmente disapplicare […] il decreto ministeriale recante la lista dei paesi di origine sicuri”.

Solo l’irrazionalità che avvolge la discussione politica e la propaganda governativa sul tema dell’immigrazione può trasformare queste parole – contenute nella sentenza di Cassazione n. 4484 del 19 dicembre scorso – in una “vittoria del governo” (come affermato dalla presidente Meloni nelle dichiarazioni del 22 dicembre) e trarne ulteriore avallo all’operazione Albania.

La sentenza ha chiuso la prima delle “scadenze giudiziarie” della complessa vicenda. Mancano ancora due passaggi importanti: la decisione della Cassazione sui ricorsi della presidenza del Consiglio contro le prime “non convalide” dei trattenimenti, attesa per il 27 dicembre prossimo e la decisione della Corte di Giustizia Europea sulla interpretazione della direttiva 2013/32, attesa per la prossima primavera.

Ma un primo tassello è stato posto, nei termini di cui si è detto: in un mondo regolato dalla ragione dovrebbe accadere che politici e giornalisti che avevano sbraitato scompostamente contro “l’invasione di campo” dei giudici-sovversivi-che-tramano- contro-il-governo, chiedano ora scusa per aver detto cose che, come ora si ha conferma, non sono compatibili con il nostro ordinamento: invece  non si intravvedono all’orizzonte né pentimenti, né ripensamenti. Anzi,  la promessa di  attivare  i  centri albanesi, ora deserti, resta al primo posto degli impegni politici del governo.

A ben vedere, una simile testardaggine continua a sorprendere se si considera che il progetto si prospettava  sin dall’inizio di efficacia molto incerta, persino in un’ottica “di destra”: basti pensare ai costi elevatissimi; alla difficoltà di “scremare” in alto mare i migranti fragili e i minorenni (da inviare in Italia) dai non fragili e dai maggiorenni (da inviare in Albania), con il rischio che la sommaria valutazione  si riveli poi errata, con conseguente rientro precipitoso del migrante sul territorio italiano; e ancora basti pensare ai numeri modestissimi di migranti coinvolti nell’intervento: attualmente zero,  ma comunque, nelle ipotesi governative, al massimo 3.000 persone l’anno,  a fronte di arrivi che riguardano inevitabilmente decine di migliaia di persone (la media 2012 – 2022 è 83.000); o all’ovvia considerazione che analogo intervento poteva farsi, con costi enormemente minori, nel territorio italiano;  o al modestissimo effetto di deterrenza su persone che affrontano rischi e sofferenze ben maggiori nel tentare la traversata; o ancora  al fatto che la difficoltà di operare rimpatri di coloro che non hanno diritto alla protezione sono le medesime sia che si parta dall’Albania, sia che si parta dall’Italia; o al fatto, infine, che le stesse risorse avrebbero potuto essere più utilmente investite nella accelerazione dell’esame delle  domande di protezione (in molti Tribunali le udienze di impugnazione dei dinieghi di protezione vengono ancora oggi fissate a due anni di distanza).

Ma tant’è. La bandiera del “ce la faremo ad ogni costo” continua ad essere sventolata come se la questione albanese fosse la madre di tutte le questioni (e in effetti lo è, se viene utilizzata per un attacco alla magistratura che non ha precedenti nella storia repubblicana). Dunque, in attesa degli sviluppi, è bene tornare sul merito, purtroppo assai complicato e purtroppo del tutto trascurato nei rissosi talk-shows che hanno contraddistinto la prima fase della vicenda e probabilmente anche la prossima.

Come si è detto, l’indicazione di un paese come “paese sicuro” non è questione politica, né di discussione da bar sport (come immaginano quelli che “in Egitto ci vanno migliaia di turisti”), ma una questione tecnico-giuridica molto seria. L’Unione europea ha introdotto questa nozione nel 2005 (con la direttiva n. 85 del 2005, poi sostituita dalla direttiva n. 32 del 2013), sul presupposto che vi fosse un sovraccarico di domande di protezione da parte di persone mosse in realtà “soltanto” dal desiderio di ottenere in Europa condizioni di vita più dignitose. E sul presupposto, dunque, che andasse “deflazionato” il carico di valutazione di dette domande, mediante una procedura più sommaria e, possibilmente, svolta senza ingresso sul territorio (alla frontiera o addirittura in un paese terzo).

Va subito detto che in Italia tale “sovraccarico” è assai minore di quanto venga narrato di frequente, posto che, ad esempio, nel 2023, coloro che, dopo essere entrati senza un titolo di soggiorno, hanno ottenuto già dalle commissioni una forma di protezione sono 22.273[1], cui vanno aggiunti i molti che l’hanno ottenuta a seguito di ricorso al Giudice (sul numero di questi ultimi il Ministero mantiene un rigoroso silenzio). La scelta europea è comunque quella della “deflazione” e di ciò occorre prendere atto.

La definizione europea di paese di origine sicuro è quella di paese per il quale “sulla base dello status giuridico, dell’applicazione della legge all’interno di un sistema democratico e della situazione politica generale, si può dimostrare che non ci sono generalmente e costantemente persecuzioni …, né tortura o altre forme di pena o trattamento disumano o degradante, né pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale” (allegato 1 alla direttiva 2013/32).

L’Italia aveva compilato un primo elenco di questi paesi nel 2019 con decreto interministeriale, che poi ha ampliato notevolmente nel 2023 e poi nel maggio 2024.

Le conseguenze, per il migrante, della provenienza da un paese incluso in detto elenco sono molteplici, ma, schematizzando,  possono essere così riassunte. Primo: la sua domanda di protezione, diversamente da quella degli altri richiedenti, è marchiata da una sorta di “presunzione di infondatezza” che il migrante dovrà lui stesso superare riuscendo a dimostrare che, nonostante la condizione generale del paese, egli corre il rischio di subire persecuzioni o di essere esposto a un rischio grave in caso di rientro. Secondo: chi proviene da un paese di origine sicuro è sottoposto alla procedura “di frontiera” e quindi trattenuto, senza ingresso formale nel territorio,   per il tempo necessario all’esame della domanda, in un apposito centro (Hot spot o CPR); e poiché tale è anche il centro di Gjader in Albania, il destino di molti provenienti da paesi sicuri prelevati dalle navi italiane durante la traversata del Mediterraneo dovrebbe appunto essere il trasferimento in Albania[2] (non possono invece essere dirottati in Albania quelli salvati dalle ONG). Terzo: la procedura si deve svolgere in tempi rapidissimi: dopo le ulteriori restrizioni approvate con la l. 187/2024, addirittura 7 giorni per la decisione sulla domanda, 7 per il ricorso al giudice, 5 giorni per la decisione; poi 5 giorni per impugnare e 10 per la decisione (oggi della Corte d’Appello, giudice non specializzato). Nessun diritto fondamentale (anzi, nessun diritto) è sottoposto, nel nostro ordinamento, a tempi di questo genere. Non dovrebbe sfuggire che predisporre una adeguata difesa in sette giorni, stando rinchiusi in Albania, non è facile ed espone il migrante ad un elevato rischio di ineffettività della tutela.

Dunque, come si è detto, un primo punto della vicenda è stato chiarito: è il diritto europeo a contenere la definizione generale (non l’elenco) di paese sicuro; quindi la designazione dell’uno o dell’altro Paese come sicuro, sia essa contenuta in un decreto ministeriale (come nel caso esaminato dalla Cassazione) o in una legge (come ha poi fatto il decreto legge n.145/24), è sempre soggetta alla valutazione del giudice che ne deve verificare la conformità al diritto europeo. Una verifica che deve essere prudente e documentata, ma che resta comunque l’ultima parola sul punto.

Restava aperto (tra i moltissimi) il problema di dare una interpretazione corretta degli avverbi “generalmente e costantemente” contenuti nella direttiva. In particolare: un paese nel quale solo una parte del territorio è libero dal rischio di persecuzioni o di conflitti, può ugualmente essere designato come sicuro? E può essere designato tale se è sicuro per la maggioranza delle persone,  ma non per specifici gruppi?

La risposta alla prima domanda sarebbe stata agevole e non avrebbe dovuto suscitare le incresciose reazioni anti-magistratura che invece ci sono state. Bastava, tra l’altro, considerare che la precedente direttiva n. 85 prevedeva espressamente la facoltà di designare come sicura “una parte” del territorio di uno Stato. Senonché, nel votare, nel 2013, la nuova direttiva, parlamento e consiglio europeo (all’epoca presidente della Commissione era il popolare Barroso e commissario anche il nostro Tajani), hanno espressamente eliminato questa possibilità. Sorprende quindi che proprio Tajani si sia accodato all’aggressione ai giudici italiani, quando questi hanno fatto notare che questa chiarissima modifica non lasciava spazio a una diversa interpretazione.

Comunque, questa prima questione ha trovato poi risposta definitiva con la sentenza della Corte di giustizia europea del 4.10.2024, ove la Corte, depositaria della corretta interpretazione della direttiva, ha affermato che questa non consente la designazione di un paese come sicuro “se talune parti del suo territorio non soddisfano le condizioni di tale designazione”.

A dispetto dell’incredibile uscita del ministro Nordio, secondo il quale i giudici italiani “non avevano letto bene la sentenza”, il Governo è subito corso ai ripari modificando la norma interna (l’art. 2bis dlgs 25/2008) che faceva riferimento a “parti di territorio” e costruendo quindi un nuovo elenco, questa volta inserito nella legge,  che non contiene alcuni paesi, come la Nigeria, notoriamente afflitta dalla presenza di gruppi terroristici in alcune parti del territorio. Nessuno ovviamente si è premurato di chiedere scusa ai richiedenti asilo nigeriani, che nel frattempo erano stati sottoposti a procedura sommaria e a detenzione in seguito a un atto del governo rivelatosi poi “illegale”. Ma tant’è, in politica non si chiede mai scusa.

Restava aperta la seconda domanda, cioè se la direttiva consenta la designazione di un paese come sicuro quando non parte del territorio, ma parte della sua popolazione sia oggetto di persecuzione o di rischi: cioè casi di un paese sicuro “con l’eccezione di categorie di persone”, come in effetti prevedeva e prevede  la normativa italiana (art. 2 bis, comma 2 d.lgs 25/2008).

Il Tribunale di Bologna, anch’esso bollato come sovversivo, si è limitato a chiedere alla Corte di giustizia europea quale sia la corretta interpretazione. Nel farlo, ha peraltro formulato argomentazioni molto logiche, segnalando che “raramente una minoranza è segnata da confini netti e facilmente identificabili”; e che, soprattutto,  “in ipotesi di paesi con fenomeni endemici di violenza di genere, matrimoni imposti, mutilazioni genitali” (come nel caso del Bangladesh, oggetto di esame in quella causa), ben difficilmente i richiedenti asilo possono essere in grado di fornire in un termine brevissimo la prova che il paese, sicuro per la maggioranza, non è comunque sicuro per loro. Tanto più, nota il giudice, che lo stesso Ministero, in una apposita “scheda paese”, redatta pochi mesi prima, aveva dato atto che il Bangladesh deve essere considerato un paese sicuro “ad eccezione di appartenenti alla comunità LGBTQI+, alle vittime di violenza di genere […] alle minoranze etniche e religiose”.  

Chiedere alla Corte – ovviamente precludendo, nel frattempo, la detenzione in Albania – se quell’espressione “generalmente e costantemente” possa consentire all’Italia di agire in questo modo, è il passo più pacato e garantista che si possa immaginare, sicché, ancora una volta, l’attacco smodato al giudice che si è limitato ad assumere questa decisione interlocutoria, deve suscitare serissime preoccupazioni.

Si attende ora la decisione della Corte di giustizia, che tuttavia, paradossalmente, avrà comunque vita breve.

Infatti, il nuovo Regolamento europeo sull’asilo (del 14.5.24 n. 1348) riporta tutto alla casella di partenza e torna alla situazione ante-2013: un paese potrà essere sicuro (e tale verrà designato dall’Unione, non più dai singoli Stati), anche se è insicuro per parti del territorio o per categorie di persone “chiaramente identificabili”. In altre parole, la Nigeria, insicura per aree, o il Bangladesh, insicuro per alcune categorie di persone, potranno tornare ad essere paesi sicuri. E perché no,  magari anche l’Afganistan, che certo, per i rigorosi osservanti della sharia, insicuro non è. Fortunatamente, questa rivoluzione alla rovescia troverà applicazione solo alle domande di protezione presentate dopo il 12 giugno 2026.

La pretesa del governo – contenuta in alcune dichiarazioni – di “conformarsi in anticipo” a quanto previsto dal Regolamento non ha ovviamente alcuna base giuridica, a meno che in sede europea non si decida di modificare la data di entrata in vigore del Regolamento, cosa che pochi giorni fa la presidente Von der Leyen ha dichiarato di voler fare.

All’esito di questa sconcertante altalena resta da chiedersi se davvero una politica dell’asilo, italiana ed europea, può avere come obiettivo solo quello di “deflazionare” le domande di protezione o se, ogni tanto, possa essere almeno sfiorata dalla preoccupazione che anche una sola domanda di protezione ingiustamente respinta perché troppo sommariamente esaminata, sia un vulnus incompatibile con una regola fondante della nostra convivenza civile. Una regola, quella contenuta nella Convenzione di Ginevra, che ci eravamo dati nel 1951, all’uscita da una terribile guerra, proprio perché, in futuro, quella e altre sofferenze potessero essere lenite dal diritto di ottenere, in qualche parte del globo e in forza del nostro comune destino di essere umani, un rifugio dignitoso.


[1] Vedi rapporto della Fondazione Migrantes 2024, pag. 369.

[2] La istituzione di centri extraterritoriali per la detenzione dei richiedenti asilo pone, in se stessa e a prescindere dalla vicenda “paesi sicuri”,  ulteriori problemi giuridici diversi da quelli qui esaminati, sui quali occorrerà tornare.

(foto di Sara Prestianni / Noborder Network – wikimedia.org)

  • Alberto Guariso

    Avvocato, in precedenza ha lavorato come funzionario sindacale presso la CISL di Milano.