Le presidenziali americane del novembre 2024 hanno infiammato un dibattito che si era acceso già da qualche tempo intorno al futuro del neoliberismo e, di conseguenza, del capitalismo in quanto tale. Il neoliberismo è finito o resuscita sotto mentite spoglie prese a prestito dai populismi? Il neoliberismo manifesta una perdurante vitalità sua propria oppure la trova ibridandosi con altre forme? In ogni caso dove ci colloca tutto ciò nella parabola delle metamorfosi del capitalismo e delle trasformazioni della democrazia ad esse associate?
Donald Trump che viene rieletto presidente, dopo che nel 2020 aveva rifiutato di accettare il verdetto delle urne con la vittoria di Biden e aveva appoggiato l’insurrezione e l’assalto al Campidoglio, mostra che la democrazia è oggi attraversata da una minaccia eversiva permanente. Al tempo stesso i cittadini americani che hanno votato Trump si manifestano per quel che sono, lavoratori, white e blue collar, in gran parte maschi, bianchi, privi del titolo della laurea, che si sentono feriti e in collera con le élite e l’establishement perché privati dello status che in passato proveniva dal lavoro, un lavoro oggi degradato, dequalificato, sottopagato, con salari falcidiati dall’inflazione. Dunque, ancora una volta, i sussidi sembrano contare ben poco, mentre il lavoro conta a tal punto che al degrado del lavoro corrisponde il degrado della democrazia, così come è presumibile che solo dalla rivitalizzazione del lavoro scaturirà la rivitalizzazione della democrazia.
L’ultimo ventennio di sconquassi finanziari, convulsioni produttive, sofferenze occupazionali e sociali fa emergere caratteri di profonda strutturalità delle crisi[1]: la loro incubazione e la loro alimentazione si debbono al neoliberismo che per più di trent’anni ha guidato il mondo dando vita a un modello di sviluppo che si conferma irrimediabilmente drogato, distorto, alimentato da “bolle” su “bolle”, quella immobiliare, quella azionaria, quella finanziaria, quella bancaria ecc. Anche oggi sono all’opera forze profonde: il rimescolamento di carte avviene in primo luogo sui terreni finanziario e produttivo, a sua volta connesso alla ridefinizione degli assetti geostrategici globali. Al centro della contesa c’è l’energia che non è mai stata così intrecciata alla geopolitica. Le tecnologie sono l’altro fondamentale campo della competizione e dei conflitti: intelligenza artificiale, microchip sempre più piccoli, batterie per la mobilità elettrica e per l’accumulo di energia rinnovabile, nuovi materiali, robotica. Il tutto nell’ambito di mercati globali che si riassestano verso livelli di “globalizzazione selettiva” (cioè per aree continentali e per ambiti più delimitati).
Tutti gli attori in campo sono spinti, paradossalmente, più da fattori di debolezza che non da fattori di forza. In primo luogo gli USA, che con la presidenza Trump cercano di contrastare il declino di lunga data come potenza egemone, anche sfruttando l’autonomia energetica consentita loro dallo shale oil ad altissimo prezzo, ma accentuando il conflitto con la Cina. Per questo hanno la necessità di disimpegnarsi dai fronti di guerra in Ucraina e in Medio Oriente e di ricorrere a un armamentario di dazi e tariffe, che penalizzerà anche l’Unione Europea. Per la Russia e per i paesi ex-socialisti quella avvenuta nei trent’anni trascorsi dal crollo del muro di Berlino appare un “transizione deragliata”[2]. La Cina, colpita nel grande progetto della Via della seta e delle linee di comunicazione conseguenti, punta a fronteggiare il ciclone Trump rafforzando ulteriormente la sua presenza nelle tecnologie emergenti, dalla difesa ai programmi spaziali, fino al nucleare e alla produzione di semiconduttori. Durante la guerra fredda l’Unione Sovietica non era integrata nell’economia mondiale (anche se non mancavano contatti), ora la Cina e l’Occidente sono allo stesso tempo competitori e integrati l’una nell’altro, il che ci ricorda – dice Romano Prodi – che il successo cinese del recente passato non era dovuto solo “alla quantità degli investimenti, ma anche, e soprattutto, al progressivo inserimento della Cina in un contesto economico internazionale che ha reso possibile l’impressionante assorbimento di nuove tecnologie e quindi un aumento di produttività senza precedenti”[3] . Il punto sarebbe di non mirare all’autosufficienza e tanto meno al dominio imperiale, rendendosi conto del valore di questa interdipendenza anche per il futuro, come suggerisce Jeffrey Sachs: “Siamo già entrati in un mondo multipolare in cui ogni regione ha problemi propri e un proprio ruolo nella politica globale… È uno scenario complesso e tumultuoso, in cui nessun Paese, regione o alleanza è in grado di controllare il resto del mondo”[4].
Il groviglio più intricato riguarda l’Europa la cui costruzione risulta sempre più difficile, con i paesi mediterranei persistentemente periferici e gli equilibri che si spostano verso Nord e verso Est, come mostra l’allargamento della prospettiva dell’adesione alla UE alla Moldavia, alla Georgia, ai Balcani e alla stessa Ucraina. La Francia, che ha perduto pezzi interi della propria industria e ha visto peggiorare il proprio sistema educativo e ridursi la propria forza lavoro, ha oggi meno margini di manovra. La Germania vive una vera e propria “crisi esistenziale”: il suo modello export-led, fondato sull’industria del carbone e su settori inquinanti come l’auto e la chimica, deve contrastare la sua alta dipendenza dal gas russo e al tempo stesso ricalibrare intere filiere produttive e catene di subforniture – in cui è elevata la presenza dell’Italia – altamente proiettate verso Est e verso la Cina, sulla scia della pur geniale Ostpolitik di Willy Brandt e della combinazione di alleanza energetica con la Russia e alleanza commerciale con la Cina, entrambe oggi rimesse in discussione.
L’intero paradigma economico neoliberista risulta scosso. Tuttavia, esso appare sempre pronto a rinascere dalle sue ceneri, mostrando un’insopprimibile vitalità e una pulsione a combinarsi con altre istanze. In tal senso è molto significativo il ricorrere della parola disruption nei discorsi del duo Donald Trump/Elon Musk. La scommessa è sul futuro. La volontà di “rottura” degli equilibri e delle regole attuali è sempre all’insegna del liberismo economico e dell’iniziativa individuale. Ma, mentre Trump persegue, assieme alla deregolamentazione ambientale e della finanza, un rovesciamento delle strategie globaliste in contraddizione con i principi neoliberisti e annuncia dazi e tariffe a protezione dell’economia nazionale, Musk sposa una visione dell’innovazione demolitrice delle idee sulla concorrenza e della responsabilità verso il pubblico e un’immagine della tecnologia come surrogato dell’umano. La declinazione più audace del neoliberismo “unisce a un ritiro dello Stato un approccio per altri versi autoritario”[5]. In tutti i casi “la vittoria di Trump ‘muskizzato’ non è nel segno del vecchio conservatorismo portato all’estremo”, ma rappresenta qualcosa di drasticamente nuovo.
Il connubio Trump/Musk, oltre a riproporre con un vocabolario limitato e ripetitivo cose da tempo allo studio di filosofi e storici – l’enfasi sull’identità autoctona, il suprematismo bianco, la promozione dei figli, l’ossessione fallica ipermaschilista, la deumanizzazione degli avversari descritti come carogne, parassiti, fecce – incarna la scesa in campo di una nuova “oligarchia tecnologica” al fianco dei fondamentalisti evangelici, di cui Emmanuel Todd, che è un antropologo e storico hegeliano e weberiano, dice che non hanno nulla a che fare con il protestantesimo classico perché il loro boom, oltre ad aver consentito ai suoi ispiratori di fare molti soldi, ha fatto emergere una lettura letterale della Bibbia, una mentalità genericamente antiscientifica e, soprattutto, un narcisismo patologico. “Apocalittici” e “tecno-utopisti” stringono una sorta di alleanza tecno-integralista, i primi in nome della “dottrina del ‘domininionism’ che considera dovere cristiano uniformare le istituzioni laiche all’‘ordine biblico”, i secondi in nome dello spostamento della Silicon Valley – la serpe, “ebbra di denaro e di potere”[6], cresciuta nel seno dai democratici – su “una generazione di disruptor che assieme alle fortune vertiginose hanno accumulato un senso di onnipotenza”[7] infinito.
Emmanuel Todd attribuisce un decadimento democratico, culturale, industriale all’intero Occidente, afflitto da una crisi endogena, assai più che minacciato da aggressori esterni (come la Russia che, “con la sua popolazione di 144 milioni di individui in calo e che fatica a occupare tutti i suoi 17 milioni di chilometri quadrati di territorio”, solo degli “squilibrati” possono pensare che “voglia realmente espandersi a ovest”, pp. 14 e 49). La crisi, secondo Todd, è determinata dalla “completa scomparsa del substrato cristiano protestante”. Come il protestantesimo aveva generato la forza economica dell’Occidente – attraverso l’alfabetizzazione delle popolazioni indotte alla lettura diretta delle Sacre Scritture e allo spirito critico e rese capaci di progredire tanto a livello tecnologico che economico, oltre che reattive a tutta una serie di mutamenti culturali, come la questione eguaglianza/disuguaglianza, la vocazione alla libertà, l’adattamento all’autorità – la sua scomparsa genera un nichilismo distruttivo. Il nichilismo è una “deificazione del vuoto”, con due dimensioni fondamentali: “una pulsione alla distruzione di cose e persone; e una dimensione di natura concettuale che tende irresistibilmente a distruggere la nozione stessa di verità, a vietare qualsiasi descrizione ragionevole del mondo (un cinismo e ‘una amoralità derivante dall’assenza di valori’, p. 146)”.
C’è qualcosa che ci riporta a uno specifico requisito con cui il neoliberismo ha coniugato le sue idee e i suoi principi: quello della pervasività, della voracità, della illimitatezza, requisito che ne spiega sia il carattere di rottura e di discontinuità rispetto al liberalismo (teoria e prassi dell’esplorazione del limite e della ricerca dell’equilibrio), sia la vocazione alla generalizzazione, dunque alla “resilienza”, e, al tempo stesso, alla catastrofe e all’abisso, dunque alla contraddizione e alla crisi. Rispunta la tendenza strutturale profondamente irrazionale del capitalismo a tagliare l’albero su cui è seduto minando le disposizioni materiali, cognitive, valoriali, psichiche di cui ha vitale bisogno per riprodursi, con una pulsione all’autodistruzione. A fronte di tutto ciò possiamo davvero parlare di fine del neoliberismo? E se sì, dove ci colloca questa fine nella parabola del capitalismo?
Innanzitutto l’impiego che fa Streeck del pensiero di Keynes a sostegno della propria tesi “nazionalistica” è capzioso, poiché la ricchezza di Keynes consiste anche nella sua multiformità, tale che da essa possono essere tratte tesi divergenti, e correttezza vorrebbe che ci si attenga ai testi e agli atti più impegnativi e più impegnati, anche politicamente, come la Teoria Generale del 1936 – che tratta la contraddittorietà del capitalismo come un sistema mondiale – e il contributo dato agli accordi di Bretton Woods del 1944, anche nelle parti che non vi furono recepite, come la proposta internazionalista del Bancor per garantire la pace e gli equilibri commerciali ed economici mondiali. inoltre, anche coloro che hanno sottoposto a forti critiche la globalizzazione non hanno mai sostenuto una “deglobalizzazione drastica”. Dani Rodrik, che definì il “trilemma” della globalizzazione (secondo cui è impossibile la coesistenza di “iperglobalizzazione/Stato nazionale/democrazia” e per questo bisogna ridurre l’”iperglobalizzazione” in modo da rendere compatibile la democrazia e lo Stato nazionale con un maggior ruolo regolativo di quest’ultimo), chiama “globalizzazione intelligente” quella che scaturirebbe da un tale processo di contrazione.
Nell’analisi odierna Streeck sembra non sostenere più rigidamente la sua precedente convinzione della “convergenza” di tutte le economie occidentali verso un modello unico, quello neoliberistico anglosassone, il che restituirebbe spazio a una più proficua riflessione sui “tipi di capitalismo”, piuttosto che su una forma unica di capitalismo. In un panorama mondiale contrassegnato da guerre, dazi e rivalità commerciali, inversioni della globalizzazione, drammatici cambiamenti ambientali, accentuata transizione tecnologica e sociale, è questa la riflessione che ci può interessare, altrimenti finiamo con il procedere come ciechi. Vengono, infatti, al pettine nodi cruciali. Si profila una ridefinizione congiunta della globalizzazione e del capitalismo, il quale sembra sempre meno animato da deterministiche “leggi di movimento”. La “iperglobalizzazione”, gli andamenti dell’inflazione, la finanziarizzazione sono stati per il capitalismo un modo fondamentale per contrastare la stagnazione e cercare fonti alternative di profitto mediante la repressione della forza lavoro, che era stata la promotrice delle straordinarie conquiste dei “trent’anni gloriosi” del secondo dopoguerra ispirati dalla riflessione keynesiana. Ora, di fronte alle distruzioni e al sangue della guerra, il capitalismo cerca strade diverse. Invece che accettarne la spinta già in atto verso gli armamenti, si può tentare di agire sulle “finestre di opportunità” che si sono aperte, anche grazie a un’evoluzione tecnologica che andrebbe più guidata politicamente e istituzionalmente. È significativo che un ex governatore della Banca di Francia come Jacques De Larosière[8] si dichiari stufo del “catechismo dominante” e individui nell’”azzardo morale” dilagante un chiarissimo “problema morale” non più aggirabile, denunziando che “la finanziarizzazione non è più un mezzo nelle mani dell’economia reale, ma un fine, un obiettivo in sé del capitalismo”. E molte di queste preoccupazioni possono essere estese alle ipotesi di ulteriore finanziarizzazione implicite nel “piano Draghi”.
Diventa lampante che non possiamo più restare alla superficie dei sommovimenti in atto, ma dobbiamo risalire alle strutture profonde che articolano i nostri sistemi di produzione e i nostri ruoli produttivi, vale a dire i nostri doveri, i nostri poteri, il nostro prestigio sociale. È per questo che Stiglitz dedica il suo ultimo libro alla libertà e alla società buona[9]. Egli è colpito che gli economisti non si cimentino con il linguaggio della libertà sostanziale e dei diritti, mostrando che la loro disciplina ha bisogno di essere trasformata in “a more capacious cognitive enterprise” (“una disciplina cognitivamente più ariosa”) e di estendersi oltre i propri confini, forzandola ad applicarsi anche a tematiche estensivamente trattate in filosofia ma non altrettanto attraverso le lenti dell’economia. Egli afferma di sapere dall’inizio della sua (prestigiosa) carriera che l’assunto che i mercati competitivi siano efficienti fosse semplicemente falso, ma ora si è convinto che le deficienze dell’economia siano più profonde. Poiché the words we use matter (“le parole che usiamo contano”), Stiglitz sostiene che l’uso che si fa oggi – in particolare da parte delle destre – della parola libertà inibisce una libertà sociale fondamentale: quella di immaginare una società migliore, che possa elevare la libertà e il “buon vivere” per tutti.
[1] Si veda R. Bellofiore, La crisi globale, l’Europa, l’euro, la Sinistra, Asterios Editore, Trieste 2012.
[2] F. Strazzari, Frontiera ucraina, il Mulino, Bologna 2022.
[3] R. Prodi , Xi e la sfida di tornare a crescere senza gli Usa, “Il Messaggero”, 16 ottobre 2022.
[4] J. D. Sachs, Lula uscirà rafforzato. Ora la vera sfida è salvare l’Amazzonia, “La Repubblica”, 10 gennaio 2023.
[5] A. Lavazza, Una rottura strutturale, “Avvenire”, 7 novembre 2024.
[6] G. Riotta, Silicon Valley. In fondo a Destra, “La Repubblica”, 22 settembre 2024.
[7] L. Celada, American Fascism? in “DINAMOpress”, 1° Novembre 2024.
[8] J. De Larosière, Siamo in una crisi del capitalismo sconcertante e c’è un problema morale serio, “Il Sole 24 Ore”, 8 gennaio 2023.
[9] J. E. Stiglitz, The Road to Freedom. Economics and the Good Society, Allen Lane, London 2024.
(Foto di fikry anshor su Unsplash)