Donald Trump ha vinto con i finanziamenti di grandi capitalisti (petrolio e armi in prima fila) e con le idee (massima libertà a chi ha soldi e vuole fare) e i moderni sistemi comunicativi di Elon Musk.  Il potere dei capitalisti si rafforza con il voto popolare di quei lavoratori che hanno pagato un caro prezzo alla crescita economica americana accompagnata da alta inflazione che ha falcidiato il loro potere d’acquisto. I produttori di energia dai fossili e i sostenitori del green, delle auto elettriche troveranno un compromesso efficace per contrastare la trasformazione climatica che produce sciagure e danni in tutto il mondo?  

Visti i finanziatori e i sostenitori di Trump, sono convinto che il potere dei capitalisti americani si rafforzerà, portando a una nuova evoluzione dell’economia mondiale. La cosiddetta post-globalizzazione vedrà il formarsi di nuove oligarchie e monopoli. Il sindacato non potrà limitarsi a visioni e analisi concentrate sulla dimensione nazionale, ma dovrà estendere la sua attenzione al livello europeo e mondiale, cercando di cogliere come si svilupperà e in quale direzione andrà l’economia mondiale e con essa il capitalismo.

La prima azione per obiettivi così complessi è ricercare l’unità strategica e d’azione coinvolgendo il CAE – Comitato aziendale europeo – organismo rappresentante dei lavoratori, previsto dalla direttiva europea 94/45/CE, al fine dell’informazione e la consultazione transnazionale dei lavoratori nelle imprese e nei gruppi di dimensioni comunitarie .È obbligato a tenere sotto osservazione i processi economici delle nazioni più attrezzate, poiché da un lato ci mostreranno concretamente il futuro che ci attende e dall’altro possiedono forze, risorse e innovazioni che consentono di esercitare un’influenza diretta, indiretta e spesso occulta su di noi.

La presenza del supermiliardario Elon Musk nell’amministrazione americana non sarà senza conseguenze per i principi della democrazia rappresentativa: il conflitto d’interessi e le antiche teorie dell’antitrust sembrerebbero sepolte!  Inoltre, è impossibile tagliare le tasse per le aziende e i miliardari, introdurre unilateralmente dazi sulle importazioni e perseguire, allo stesso tempo, o estendere programmi di base come il welfare e contenere l’inflazione sul carrello della spesa e sui servizi. Dire che tutto questo riguarda solo gli americani è un’ipocrisia, poiché abbiamo, almeno in Occidente, un livello talmente alto di interdipendenza che i problemi di alcuni diventano rapidamente quelli di molti. Non possiamo dimenticare come il modello Thatcher non rimase isolato in Gran Bretagna, ma dilagò in tutta Europa, affossando il riferimento all’economia sociale di mercato per favorire il modello neoliberista, che giudica positivo favorire un’inflazione del 2% senza garanzie di recupero del potere d’acquisto dei salari, delegando il problema alla contrattazione aziendale.

Sarà in grado il sindacato di resistere all’ondata trumpiana? Se guardo a come si è agito in questi ultimi mesi, devo con rammarico dire di no. Il sindacalismo è stato fin dalla fine del fascismo un soggetto di soluzione dei problemi della società italiana. Oggi, invece, appare non essere più così. Anzi, a volte può rappresentare un problema. Sono convinto che serva uno sforzo perché il sindacato recuperi nella pratica e nell’immaginario delle lavoratrici e dei lavoratori una nuova centralità. Non lo dico da ex nostalgico sindacalista, ma da democratico convinto che non sarà possibile innovare la società italiana se non si innova profondamente il sindacato confederale.

Avendo a lungo militato ed essendo tuttora iscritto, mi rendo conto che non è un’operazione facile. Sta diventando obbligatorio chiederci se l’attuale divisione sindacale serve alle persone del lavoro o ai gruppi dirigenti. Questa è la domanda a cui bisogna rispondere. Da parte mia sostengo che solo introducendo atti di democrazia diretta, sondaggi deliberativi, che ridiano la parola ai lavoratori e agli iscritti, sarà possibile avviare una trasformazione del ruolo conservatore operato oggi da grandi organigrammi di sindacalisti a tempo pieno e “a vita”: un ceto sociale che opera con tacite regole, di fedeltà ai vertici sindacali, lontane dallo spirito degli statuti.

Troppe sono le rivendicazioni di pura facciata, sono “tante buone intenzioni di cui sono lastricate le vie per l’inferno”. Sembra che le confederazioni non riescano a rispondere e a ridare priorità a questa questione, né a mettersi all’opera per ridefinire le priorità sociali, rivendicative e culturali comuni che consentano di ridare base materiale e identità collettive al confronto con il governo, le istituzioni e il padronato. In questi mesi ho avuto l’impressione che, da parte dell’organizzazione cui sono iscritto, la CISL, il tema dell’unità susciti un grande timore, una sorta di rifiuto, e che, più che cercare convergenze con le altre due confederazioni, si preferisca frequentare sindacati autonomi e, diverse volte, la stessa UGL. Non sono mai stato contrario ad avere rapporti con queste organizzazioni ma si devono privilegiare i rapporti con CGIL e UIL, evitando le insidie di richieste neo-corporative categoriali e di norme legislative sui benefit e bonus.

Mi inquieta vedere che, mentre la CGIL sceglie, come è nella sua storia, la strada della centralizzazione e del conflitto con il governo, scelta condivisa anche dalla UIL, la CISL s’incammina sull’improduttivo sentiero del semplice dialogo con l’attuale governo, illudendosi che da questa conflittualità ne possano derivare dei vantaggi. Per dare credibilità allo stravagante messaggio cislino dei nostri giorni “..se sono previsti tavoli di confronto, se si va a Palazzo Chigi,  non si va in piazza”  si finisce di esaltare il valore di piccole conquiste, dimenticando il poco che si ottiene per le principali richieste sindacali come ad esempio: il potenziamento del SSN, il finanziamento per la legge della non autosufficienza, il sostegno delle filiere produttive dove sono operati addirittura grandi tagli.

È necessario il dialogo con il Governo su temi che interessano le lavoratrici, i lavoratori e i pensionati, ma non può essere usato il termine “responsabilità” per negare l’esistenza del conflitto sociale e la necessità di gestirlo da protagonisti.  Il conflitto sociale non ha nulla di eversivo, come alcuni esponenti della compagine di destra si affannano a voler dire; esso fa parte della dialettica democratica in particolare in una società in continua trasformazione – non molto tempo fa Cisl era ancora portabandiera nel motivare che il conflitto è il sale della democrazia – e non va confuso con gli atti eversivi ed estremistici di quell’antagonismo che indica e pratica la strada della violenza, che carsicamente riaffiora nella società.

Questa mia riflessione è ben diversa dalle dichiarazioni del segretario generale Luigi Sbarra, che non perde occasione per dire che alcuni provvedimenti del governo corrispondono alle aspettative della CISL. La prassi sindacale insegna che, per provare che un governo risponde alle richieste sindacali, serve una piattaforma rivendicativa e un accordo. In questi ultimi tempi ho registrato solo dichiarazioni del segretario generale e decisioni unilaterali del governo: mi sembra troppo poco. Ho l’impressione che sia in atto una sorta di captatio benevolentiae nei confronti di questo governo, le cui ragioni sembrano essere nel rifugio in politiche neo-corporative, senza accorgersi che le stesse stanno privilegiando il lavoro degli autonomi, le partite Iva, lo strizzare l’occhio all’evasione, all’elusione fiscale. Voglio ricordare che l’Istat recentemente ha segnalato che l’economia sommersa (quella illegale e quella non dichiarata) è salita oltre i 200 miliardi.

Si continua a ripetere che la CISL è solo un sindacato e che non si cura della politica, e si è arrivati perfino a sostenere che l’attuale linea dell’organizzazione sarebbe storicamente riconducibile al “sindacato bianco”, ovvero al sindacato confessionale esistente prima dell’avvento fascista. Il sindacato bianco, la CIL, è sicuramente stata una grande esperienza di impegno, di lotta, di organizzazione e di contrattazione, ma la CISL, già dal primo congresso, non volle esserne erede diretta perché Pastore e Romani volevano e vollero creare il “sindacato nuovo” – voglio ricordare lo storico manifesto che annunciava “Il sindacato sarà dei lavoratori o non sarà” – e tentare in Italia la formazione di un sindacato non ideologico, non confessionale, ma democratico, pluralista, partecipativo e contrattualista, in cui l’autonomia sindacale deve essere un modo di pensare, di analizzare, di decidere, di agire e reagire insieme; un’attitudine che matura nel profondo della coscienza di ciascuno, che si  alimenta della capacità quotidiana di rivivere, e interpretare la condizione operaia, delle condizioni di lavoro e di vita della classe lavoratrice e dei tanti precari e invisibili; si esprime nella sua pienezza quando tale legame si rinsalda, latita quando si decide “dall’alto della piramide”. È un fatto di costume e di cultura.

Così nacque e si sviluppò la CISL che, attraverso la definizione delle incompatibilità tra incarichi di partito e di sindacato, conquistò e praticò la piena autonomia. Un’autonomia che non era pensata come semplice neutralità rispetto alla politica, ma come una chiara soggettività politica, come del resto stabilisce la Costituzione repubblicana: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”.

La CISL fu un sindacato con molti cattolici, ma non fu mai un sindacato cattolico come tanti ve ne erano in Europa e in America Latina. Né fu mai preda delle ideologie ottocentesche assai presenti nel movimento delle lavoratrici e dei lavoratori. La CISL deve rivendicare la sua autonomia senza chiudersi in una sorta di solipsismo organizzativo. Deve essere un’organizzazione aperta e fortemente democratica; le lavoratrici e i lavoratori devono essere incentivati a frequentare le sedi sindacali non solo per poter usufruire dei servizi, ma per partecipare alla vita democratica.

Guardo con apprensione a una prassi sindacale che mi appare troppo ravvicinata all’attuale governo e alla sua maggioranza. Il sindacato vive unitariamente un momento delicato e difficile e sembra soffrire di una sorta di anemia culturale e soprattutto di non essere in grado di aprire le finestre sul “non ancora” e sul “possibile”. Mi sembra che si sia più attenti alle bandierine di organizzazione e alle dinamiche tutte interne alla sua burocrazia, tra cui il rifiuto di avviare un percorso di unità d’azione come propedeutica alla unità.

Personalmente non ho condiviso la manovra del governo, così pure non capisco né condivido le dichiarazioni del segretario della CISL che per un verso esprime il suo giudizio complessivamente positivo e poi rimarca una serie di insufficienze d’investimenti sulla sanità, sulla non autosufficienza, sui tagli per la scuola, l’università, la ricerca e sul taglio per il fondo per le automotive. E altri ancora.

(Foto: wikimedia.org )

  • Savino Pezzotta

    Già Segretario generale della CISL dal 2000 al 2006 e deputato dal 2008 al 2013