Si discute di Occidente. Anche prima della inattesa seconda vittoria di Trump negli Stati Uniti. Bene, la cosa è positiva, dato che sembra del tutto stucchevole la retorica in cui ci troviamo immersi, che ha rilanciato l’immagine di un Occidente coeso e bellicoso, pronto ad affrontare la sfida del «resto del mondo» in nuove guerre fredde variamente descritte o immaginate. Sono usciti recentemente alcuni volumi che mostrano come le cose siano in realtà molto più complicate.
C’è ad esempio chi parla de La sconfitta dell’Occidente: un intellettuale atipico e originale, a volte provocatorio, come Emmanuel Todd (tradotto da Fazi editore). Non si dimentichi che si tratta di quel sociologo-antropologo francese che già negli anni Settanta iniziò, pressoché isolato, a immaginare la crisi finale della società sovietica e il crollo dell’Urss. Avendo già avanzato in tempi non sospetti analoghe riflessioni pessimiste sul futuro dell’impero americano, Todd ora di fronte alle guerre in Ucraina e a Gaza, identifica un passaggio di crisi decisiva e definitiva del mondo occidentale. Almeno inteso nella sua configurazione liberale a guida americana e protestante, che egli distingue da un’altra tradizione, continentale, autoritaria sotto il profilo antropologico, in cui colloca un po’ arbitrariamente Italia, Germania e Giappone. Quell’Occidente più ristretto a trazione anglosassone sarebbe un mondo finora egemone, ma oggi in crisi profonda sotto il profilo produttivo (come si mostrerebbe nei limiti delle forniture militari agli ucraini), demografico (i dati sono sotto gli occhi di tutti), istruttivo (egli nota una carenza di volontà a perseguire l’istruzione se non nei campi che portano a lavori dal reddito sproporzionato e facile: avvocatura e finanza), politico (le democrazie tanto vantate sono divenuti gusci vuoti oligarchici) e soprattutto morale-religioso (su cui egli parla di un sostanziale nichilismo individualistico ormai raggiunto a livello di massa): tutte queste tendenze sono a suo parere profondamente collegate tra loro.
Forse eccessivo tale giudizio, a fronte soprattutto di una valutazione che appare fin troppo positiva della Russia di Putin, che certo ha potuto resistere alle sanzioni economiche, rinsaldare la statualità, alzare le aspettative di vita della popolazione e addirittura – afferma Todd – ottenere una sostanziale vittoria militare nell’«operazione speciale» messa in campo in Ucraina per consolidare i confini dell’impero e fermare l’espansione della Nato. Anche se tale ragionamento ha un fondamento nella comparazione dell’attuale situazione con i disastri economici, sociali e sanitari degli anni ’80-’90, resta difficile non notare la precarietà del sistema russo sotto tanti profili, compresa l’eccessiva dipendenza economica dall’esportazione di idrocarburi, oltre ai limiti di creatività imposti dell’autoritarismo politico. Fa parte del discorso di Todd anche una non celata profezia sul possibile ritorno del legame tra la Russia e la parte di Occidente «autoritario» a guida tedesca: non a caso la guerra Ucraina è da lui definita come suicida per gli interessi dell’Europa. Fatto sta che Todd nota – in modo qui più convincente – come Putin abbia ottenuto consenso nel mondo afroasiatico, rafforzando i Brics e isolando ulteriormente l’Occidente. Ma passa di molto il segno quando sostiene che la vicenda di Gaza abbia costituito un fronte arabo unito, che si sia riconciliato con l’Iran e l’alleato russo contro l’Occidente: le monarchie del Golfo stanno lavorando diplomaticamente in maniera certamente ambigua, ma non sembrano mostrare nessuna voglia di abbandonare gli «accordi di Abramo» con Israele.
Tutt’altra l’impostazione di Federico Rampini in Grazie, Occidente (Mondadori), raccolta consueta di suoi interventi e articoli sulla stampa quotidiana organizzati in forma di libro. Figura autorevole del giornalismo, non a caso egli dichiara di venire da una gioventù di sinistra che ha però abbandonato da tempo. Qui c’è un giudizio del tutto positivo sull’Occidente, la sua storia e il suo retaggio, fatti coincidere senz’altro con il progresso, la scienza, la libertà e i diritti. Parole convinte sugli antibiotici e la rivoluzione verde, le vaccinazioni e i diritti delle donne, l’uso dell’energia della natura e i sistemi di istruzione; addirittura la capacità di contrastare gli effetti del proprio stesso inquinamento. Con grande sfoggio di citazioni colte: Ian Morris, Deidre McCloskey, Angus Maddison. E anche scomodando, in un esperimento un po’ ingenuo, l’intelligenza artificiale, che fornisce il suo compitino di sintesi su quanto trova in rete rispetto ai portati della civiltà occidentale. C’è da dire che sul punto egli sfonda una porta aperta. Difficile negare la grande capacità di questa parte dell’umanità di accumulare negli anni saperi e spazi di libertà, anzi saperi migliorati proprio dal continuo confronto interno tra diversità e pluralismi. Bastava forse riconoscere un paio di cose: primo che questo percorso non sarebbe decollato fino a creare divergenze radicali con il resto del mondo senza la rivoluzione industriale di fine ‘700: quindi non è frutto di una qualche originalità nativa, ma di una increspatura non banale della storia (fino a quel momento la civiltà cinese non era affatto sostanzialmente indietro a quella europea). Secondo, che la diffusione successiva di questa superiorità al resto del mondo non è avvenuta «solo» con le virtù spontanee del consenso, ma «anche» con l’imposizione imperiale (che oggi è un problema che si ritorce contro l’Occidente). Diciamo pure che sull’onda di questa giusta riflessione, il volume tende poi a sottovalutare i segni di indebolimento attuale di questo stesso progresso, che abbiamo visto al centro del lavoro di Todd.
Ma lo si capisce, perché il problema di Rampini è proprio che non c’è abbastanza gratitudine per questi risultati, né all’interno né all’esterno. C’è però da notare una certa sottile contraddizione: Il libro si scaglia ripetutamente contro una ideologia (a suo dire dominante) che sta corrompendo la cultura e le giovani generazioni occidentali, ispirata a una logica autocritica e demonizzante, pessimista e sostenitrice di un «punto di vista delle vittime», del tutto fuorviante e assurda, a suo parere. Pagine molto dure sono riservate all’estremismo della sinistra democratica americana della West Coast e alle sue contraddizioni. La stessa collocazione dell’autore nell’establishment statunitense lo porta probabilmente a sopravvalutare il peso e l’influenza della cosiddetta cultura woke (che deriva da wake, svegliarsi, alzarsi), come le destre di tutto il mondo, che da tale spettro sono addirittura ossessionate. Degli eccessi di queste posizioni, a volte assolutamente paradossali, si deve assolutamente convenire con Rampini. Ma il tema è che rappresentare gli estremismi come dominanti non rende ragione di una situazione molto meno lineare. Il discorso peraltro si allarga all’Europa, dove il nostro fustiga una posizione inerte, subalterna o timorosa verso la minaccia russa (quasi che la maggioranzza condividesse lo slogan «meglio russi che morti»). Anche qui, siamo sicuri che questa immagine sia così prevalente? Insomma, dipanandosi la serie di racconti e reportage del libro, un deserto di convinzioni e di determinazione sembra essersi diffuso nell’Occidente reale.
Ma non si può non notare che, se si prende sul serio il suo racconto, la rappresentazione di una tale situazione di totale distacco e diffusa sfiducia difficilmente può essere ascritta solo all’influenza di qualche cattivo maestro. Occorrerebbe trarre altre conclusioni: che ci sia insomma un limite nella capacità del mitizzato Occidente di costruire consenso e inclusione tra le proprie stesse giovani generazioni. Anzi, di più, si tratterebbe di prendere atto che un sistema «da ringraziare» produce di fatto ingratitudine e scontento, sega le basi del ramo su cui è seduto. Ci sarà qualche motivo oggettivo di questa condizione problematica? Il libro non si pone la domanda. Questo vale nei campus universitari statunitensi, nelle periferie deindustrializzate delle grandi città, ma anche in molte parti del mondo extra-occidentale. Ha un bell’affermare Rampini che la globalizzazione nata in Occidente e da esso guidata ha portato centinaia di milioni di persone fuori della povertà (vero), ma come può egli sottovalutare il fatto che ci sono ancora enormi folle, milioni di persone, che lavorano per pochi spiccioli in un sistema drammaticamente repressivo, solo per garantire prezzi migliori dei giocattoli, delle t-shirt o delle scarpe da ginnastica dei consumatori occidentali? Quale gratitudine all’Occidente possono esibire queste masse?
Quindi, fatta la tara sulla presa reale delle vituperate minoranze culturali, ci resta l’idea che l’Occidente sia tutt’altro che un monolite ideologico da affermare contro la diversità esterna. E ci resta l’idea che qualche risentimento permanente e qualche opposizione ai successi dell’Occidente sia del tutto comprensibile: occorrerebbe allora lavorare per affrontarli seriamente e per superarli dialetticamente, non per accentuarli con un malcelato e autolesionista imperialismo ideologico (l’esatto e speculare contrario del woke, che Rampini sembra invece auspicare). Il pluralismo delle idee non era una delle forze dell’Occidente?
Un altro libro significativo in materia è quello di Andrea Graziosi, affermato storico del mondo sovietico, intitolato Occidenti e modernità (Il Mulino). Anche in questo testo prevale uno sguardo pessimista su un mondo in declino: l’Occidente moderno «maggiore», sarebbe appunto la versione a guida americana artefice di un grande successo nel secondo dopoguerra. Anche qui il tema demografico è centrale, per dipingere una società invecchiata, dalle aspettative decrescenti, dalle energie calanti, razzialmente e socialmente segmentata, con una spaccatura irreversibile tra élite e popolo, in preda nelle sue correnti di sinistra a un moralismo buonista fuori dalla realtà. La domanda di Graziosi è se questa società può rilanciare un ideale liberaldemocratico che egli sostiene in via di principio (anche in questo caso provenendo dalla critica alle posizioni estremiste assunte in gioventù). La risposta, pur perplessa, è perlomeno più articolata. Egli difende una prospettiva possibile di «apertura» (anche sul tema migratorio), accostata a responsabilità e realismo, che permetta di gestire le difficoltà e accompagnare il declino in chiave più equa e duratura. Nessun trionfalismo, quindi, ma nemmeno rassegnazione.
In conclusione, queste opere offrono spunti per un dibattito che dovrebbe continuare. Riconoscere successi e meriti dell’Occidente non dovrebbe andar disgiunto dal prendere atto seriamente dei suoi limiti. Quelli storici e quelli attuali, dovuti sì a difficili rapporti con «il resto del mondo», ma anche e forse soprattutto alla sensazione di una difficoltà interna che si colloca a diversi livelli e a diversi piani dell’esistenza. Parlare di declino definitivo e di sconfitta è probabilmente ingeneroso e malposto. Ma anche rinverdire una sorta di orgoglio cieco e infondato. Consapevole di sé e della propria eredità, l’Occidente dovrebbe piuttosto valorizzare il suo pluralismo interno. In cui si possano sentire anche voci che costruiscano seriamente ponti con le altre culture e civiltà. Se c’è un elemento positivo nella pretesa di universalismo che l’Occidente ha a volte petulantemente mostrato, è proprio la fiducia nella ragione, terreno comune di potenziale intesa tra gli esseri umani, di ogni latitudine e di ogni longitudine sotto il cielo.
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