Prima di addentrarmi nell’analisi dell’argomento di questo intervento centrato sulla politica del premier Netanyahu nel suo rapporto con il diritto internazionale, vorrei affrontare rapidamente la specificità, proprio sul piano del diritto internazionale, di quella parte del Medio Oriente sconvolta ora da due conflitti a Gaza e in Libano (e non solo).
È certamente vero che il rapporto tra i governi di Israele e il diritto internazionale e le istituzioni internazionali è sempre stato complicato. Le Nazioni Unite hanno prodotto fino ad oggi più di duecento risoluzioni contro Israele. I premier israeliani hanno spesso assunto toni assolutori di fronte alle critiche per il mancato rispetto del diritto internazionale. Inoltre Israele, membro dell’Onu, non riconosce la Corte penale internazionale, e certo è in buona compagnia: Cina, Russia e Stati Uniti hanno la stessa posizione, mentre riconosce la Corte internazionale di giustizia delle Nazioni Unite.
Ma al di là di questo e per rimanere all’interno del conflitto israelo-palestinese (e libanese) attuale, la natura stessa di tale conflitto ha caratteristiche che mettono a dura prova il diritto internazionale. Iniziando, ad esempio, dalla definizione giuridica della Striscia di Gaza, per esempio. La maggior parte degli studiosi sostiene che Gaza sia da considerare un territorio occupato, nonostante l’esercito israeliano si sia ritirato diversi anni fa, però ne controlla i confini terrestri e aerei (e le fonti energetiche, così anche in Cisgiordania). Quindi sul piano del diritto internazionale la sua collocazione è appunto quella di occupazione. Quasi fosse una sorta di protettorato o di mandato come era per la Società delle Nazioni, Gaza rimane parte dello Stato di Israele in qualche modo.
Non credo sia convincente l’accusa di apartheid esercitata da Israele su Gaza, come spesso ha sentenziato Amnesty International, quindi che non ci sia l’oppressione di un gruppo razziale su di un altro. Ricordo che la Democrazia Cristiana e anche il Partito Comunista criticarono la risoluzione dell’Onu n. 3379 del 1975 (revocata nel 1991), che equiparava il sionismo a una dottrina razzista. Tuttavia quella della Striscia è una situazione tragica ed è il portato di molti errori politici di Israele, ma anche delle Nazioni Unite e dei paesi arabi limitrofi (i quali, anche nel contesto attuale, stanno a guardare). E così, con altre caratteristiche, la stessa situazione appartiene anche alla denominata Autorità nazionale palestinese. Quest’ultima rimane un ibrido, a causa degli incompiuti accordi di Oslo.
Tale contesto è certamente il portato della difficoltà storica delle Nazioni Unite su quest’area, capace di grande organizzazione degli aiuti, meno sul piano della risoluzione delle controversie (e in questo possiamo includere anche l’Unione Europea). Inoltre, in tempi più recenti ha contribuito all’aggravamento della situazione la politica di appeasement del premier Netanyahu, e del suo governo, che prevedeva un’autonomia controllata di Hamas (e delle varie milizie), purché non creasse conflitti.
Tale strategia israeliana è crollata, definitivamente, con il massacro del 7 ottobre 2023, la strage antisemita più efferata e più pesante in termini di perdita di vite umane della storia di Israele.
E allora, se la condizione di Gaza è quella brevemente descritta, in quali termini possiamo parlare di resistenza palestinese nella Striscia di Gaza e soprattutto in quali termini possiamo parlare di diritto alla difesa (art. 51 della Carta dell’ONU) da parte di milizie di un partito, Hamas, che si vuole legittimare come Stato?
Difficile da questo punto di vista essere d’accordo con alcuni storici (Enzo Traverso in particolare), che parlano della resistenza di Hamas paragonabile a quella della resistenza italiana o francese durante la seconda guerra mondiale. Troppi sono i caratteri terroristici, in quanto politica più dell’orrore che del terrore, non solo il massacro del 7 ottobre, ma anche l’incitamento al martirio di donne e bambini per la causa, su larga scala, che richiama regimi sanguinari di altri tempi e che sembravano sepolti dalla storia.
Anche sul piano del diritto internazionale, il diritto di difesa ha sempre dei limiti, non può arrivare al massacro indiscriminato di civili, agli scudi umani, al non rispetto di tutte le convenzioni internazionali (che sono naturalmente parte del diritto internazionale) sull’ingaggio bellico (lanciare razzi da ospedali, da scuole, da basi dell’ONU e la lista si potrebbe allungare).
Le stesse ambiguità, ma in un contesto diverso, certamente statuale, le abbiamo nel conflitto tra Israele e Hezbollah. Il secondo è una milizia di un partito che contribuisce, secondo la Costituzione libanese, alla vita politica del paese. Quindi, come possiamo intendere il conflitto con Israele scatenato esclusivamente da Hezbollah (e anche in opposizione allo stesso governo libanese), contro civili inermi e soldati israeliani oltre il confine (in passato anche con attentati)? In questo caso il diritto alla difesa come dovrebbe essere inteso?
Ambiguità che sembrano permanere anche nel campo delle risoluzioni internazionali, come nel parere consultivo del 9 luglio 2004 sulla costruzione del muro in Israele, in cui la Corte Internazionale di Giustizia ha chiaramente affermato ai sensi della Carta ONU che il diritto di legittima difesa (sempre il già citato art. 51) non possa essere invocato contro attacchi provenienti dai territori palestinesi, perché non riconosciuti come Stati (paragrafo 139). Questa risoluzione ebbe in realtà più la preoccupazione di non legittimare tutte le potenze occupanti ad invocare la legittima difesa per difendere le loro occupazioni o annessioni.
È del tutto evidente che in questo ginepraio Netanyahu si muove drammaticamente bene, anche per una superiorità militare enorme, che spesso non dà scampo agli avversari, scegliendo, come da tradizione, anche l’arma degli attacchi mirati, contro la dirigenza di questi partiti-milizie. Da un anno, il governo di Netanyahu ha compiuto un salto di qualità in negativo nel rapporto con il diritto internazionale – e ne è una prova il suo duro discorso alle Nazioni Unite – anche rispetto ai suoi predecessori, non parliamo poi nei confronti dei leader laburisti, come Rabin, Barack e Peres.
Questi leader erano pervasi dalla convinzione che la storia dello Stato di Israele, quello di Ben Gurion, fosse la garanzia di moralità politica e per questo anche superiore ai paesi arabi, che invece avevano stretto legami con il nazismo, e questo, detto in breve, li collocasse su un piano privilegiato nel rapporto con il diritto internazionale (per la verità erano anche più costruttori di pace e autorevoli).
Per il premier Netanyahu, il più longevo primo ministro della storia del paese, quella convinzione non funziona più. Il corpo elettorale del paese è cambiato, la politica degli insediamenti dei coloni è cambiata, la controparte palestinese è cambiata: dal marxismo sono passati all’islamismo ed è aumentata di molto la violenza delle numerose milizie, presenti ovunque in Cisgiordania e a Gaza, soprattutto contro gli inermi.
Se a tutto questo aggiungiamo i problemi non solo politici che stava, e sta, incontrando il governo di Netanyahu prima e dopo il 7 ottobre, in termini di sopravvivenza politica ed estremismo di alcuni ministri ultraortodossi, si ottiene la miscela che si vede ogni giorno sui media.
La strategia politica del governo Netanyahu è solo quella militare, senza alternative. In questo momento Israele sta combattendo su sette fronti con un unico indirizzo politico bellico (e in aggiunta anche quello, come sempre, dell’intelligence) e si sta rapidamente isolando dalla comunità internazionale.
Questo forse è il vero salto di qualità, di cui parlavo pocanzi: la sua politica è la necessità bellica, e la guerra è, anche in democrazia, uno Stato di eccezione che rivela l’essenza della sovranità. Non c’è spazio per la mediazione, per la diplomazia, quindi per gli ostaggi che sono ancora in mano ad Hamas (tutto è relegato ai servizi segreti, al Mossad, il braccio destro del governo).
E allora se la necessità è la guerra, e quindi l’indurimento del potere esecutivo, diventa inevitabile tutto quello che ne consegue: il bombardamento indiscriminato e l’invasione via terra, come si è visto in entrambi i casi di Gaza e di quello libanese, che hanno prodotto oltre alla distruzione di parti considerevoli dei centri abitati anche crimini contro l’umanità verso le popolazioni civili inermi (art.8 dello Statuto della Corte penale internazionale) e possiamo anche includere in queste i cosiddetti scudi umani, per cui il premier israeliano e il ministro della difesa sono già stati indagati dalla giustizia internazionale.
Del resto, la prima vittima di tutto ciò è sempre il diritto internazionale e il diritto umanitario internazionale, lo ius in bello. Ne è prova l’aspro conflitto tra il Premier e le Nazioni Unite. Il governo di Netanyahu è stato l’esecutivo forse più rigido nei confronti dei vertici dell’ONU della storia di Israele.
L’operazione militare su Gaza, che si è indurita anche dopo l’indagine della Corte Penale internazionale su Netanyahu e il ministro-generale Gallant, va molto al di là di quella criminale e contro l’umanità, di Hamas, e questo non può essere sottaciuto dalle organizzazioni internazionali, anch’esse ostaggio di Hamas (e delle altre milizie) nella Striscia e assai deboli politicamente, come si vede anche in Libano.
Nel diritto internazionale, in cui si prevede, come è stato detto, il diritto di difesa, conta anche la proporzionalità della risposta militare, e da ciò deriva anche l’attribuzione di una responsabilità del paese che detiene una potenza militare superiore a quella dell’avversario; vale anche e soprattutto per una democrazia. A questo si aggiunge che sono azione lesive del diritto internazionale tutte le operazioni belliche che portano ad una emigrazione della popolazione civile, incidendo sulla stabilità dell’area. E così sono da condannare i blocchi ripetuti dell’ingresso di aiuti umanitari nella Striscia; che hanno l’unico scopo di infiacchire prevalentemente la popolazione civile e forse meno le milizie.
Su questo ci fu perfino uno scontro tra il premier e l’esercito (tradizionalmente in Israele ha una sua autonomia).
Si comprende bene che Hamas abbia ingaggiato una vera e propria guerra e che se i razzi sono lanciati da ospedali o da centri di rifugiati la risposta possa essere complessa, però quella responsabilità di cui si parlava in precedenza, e forse proprio per la storia di Israele, dovrebbe essere garantita anche in questo tipo di guerra. Il numero delle vittime civili è troppo alto per essere accettato dalla comunità internazionale e non bastano le numerose scuse pronunciate dai vertici dell’esercito o il ricorso alle indagini della giustizia israeliana, di cui spesso si perdono le tracce.
Netanyahu ha tenuto lo stesso atteggiamento politico-militare anche contro Hezbollah: invasione di terra e tentativo, in questo caso andato a segno, della decapitazione dell’organizzazione, senza alcun rispetto del diritto internazionale e in questa strategia rientra anche l’assalto alla guarnigione UNIFIL guidata dal contingente italiano.
Questo è certamente un segno, e un avvertimento, dell’atteggiamento dell’esercito israeliano, al quale serve guadagnare terreno strategico in Libano nel breve periodo, ma che fa strame del diritto internazionale, anzi rivendica, in un certo senso, la necessità dell’estensione del conflitto anche attraverso l’invasione, per spianare la strada alla diplomazia, forse.
Proprio l’azione di terra, così largamente utilizzata nell’arco di un anno dall’esercito israeliano, rompe in qualche modo la tradizione politica delle azioni militari rapide e sostanzialmente di contenimento dei confini, soprattutto dopo la pace con l’Egitto.
Ma questo perché ormai la strategia non è più, e non solo, la risposta ai razzi di Hamas o Hezbollah, è qualcosa di diverso e non è neppure la conduzione di un “lavoro sporco” per conto degli americani, come sostengono alcuni settori della sinistra più radicale, dimenticando che storicamente le guerre per procura in sostanza non esistono, perché spingere i cittadini a morire non basta imporlo per decreto o per volontà politica.
Del resto, non credo che nessun precedente premier israeliano avesse potuto pensare ad intitolare un’operazione militare “nuovo ordine”, come invece ha fatto il governo di Netanyahu.