Che cosa ci si aspetta che dica un neo-ministro della Cultura nel discorso del suo insediamento? Che parli di musei, libri, biblioteche, teatri, musica e cinema. Che esprima un progetto di offerta e anche possibilmente la sua opinione su come una politica della cultura (e dei beni culturali) possa far bene alla cultura della politica e contribuire alla formazione di una cittadinanza attiva e solidale in una società che ha ridotto la democrazia a uno sbadiglio, come ha rilevato Paolo Rumiz alla recente Buchmesse. E magari ci si aspettiamo pure due parole sull’aumento esponenziale di quelli che le neuroscienze chiamano analfabeti funzionali,  ovvero quei soggetti in grado sì di svolgere azioni definite intelligenti, ma ahinoi ignoranti al di fuori dei compiti che svolgono.  L’uomo umanista è una specie in via di estinzione, dunque da proteggere. Alberto Arbasino già qualche decennio fa ne La maleducazione teatrale metteva in guardia che la specializzazione dei saperi finisce per confondere gli avverbi, lo specialmente con il soltanto con effetti perniciosi. In altre parole e ragion per cui il cosiddetto esperto al pari dell’analfabeta funzionale diventano spesso perfetti ed efficienti strumenti (del potere). come tagliaunghie e lavatrici.

Il neo ministro della Cultura Alessandro Giuli,  profilo orgogliosamente di destra (due nonni, uno monarchico, l’altro che ha fatto la marcia su Roma) e un debole per i tatuaggi (sul petto un’aquila romana imperiale che, dice lui,  non è automaticamente simbolo fascista, però…) è uomo ambizioso e non è detto che l’ambizione sia un difetto.  Ci mancherebbe. L’importante sarebbe “farsi bastare”, non spingersi oltre quel tanto. E invece no.  Alessandro Giuli, uomo pacato che non si nega quel pizzico di grandigia,  ha illustrato le linee guida del suo mandato, coniugando pedanteria e saccenteria. Una prolusione che ha il sapore della lectio magistralis da qui all’eternità. Criptica e incomprensibile? No, solo un po’ pompieristica (ci riferiamo alla pittura enfatica e accademica francese del secondo ‘800, non ai vigili del fuoco). Un timballo di citazioni dotte, di bei paroloni sul red carpet, di macigni concettuali a rilascio semantico lento che affrontano i temi caldi della contemporaneità. La sostanza dell’argomento non si discute, è il modo che lascia perplessi, soprattutto in alcuni passi particolarmente grumosi. A cominciare dall’uso di “paradigma”, lemma ormai ossessivo, onnipresente come un codice a barre, una sorta di marchio fashion, peggio dei prestiti linguistici degli anglomani. E poi quella sequenza additata come squillo di trombe e trobonila “rivoluzione permanente dell’infosfera globale… l’apocalittismo difensivo che rimpiange un’immagine del mondo trascorsa, impugnando un’ideologia della crisi che si percepisce come processo alla tecnica e al futuro”. Le chiose ironiche si sono moltiplicate

Matteo Renzi ha ripescato la memorabile “supercazzola prematurata con doppio scappellamento a destra” del conte Mascetti (Ugo Tognazzi) del film Amici miei di Monicelli. Esempio immortale del nonsense demenziale. Personalmente non mancherei di riservare un posto d’onore anche all’ “ipotiposi del sentimento” di Ettore Petrolini,  una satira del vaniloquio ispirata ai cadavres exquis, ai cadaveri eccellenti, il gioco collettivo dei surrealisti  che consisteva  nel far comporre una frase da più persone senza che nessuno degli aderenti a potesse conoscere l’intervento dell’altra. Risultato:  uno sproloquio demenziale. “Quel che ho capito del discorso di Giuli  – ha commentato lo storico dell’arte Tomaso Montanari  rispondendo a Corrado Formigli su La7 – è che lo scappellamento è  di destra”.  Beh, la bussola ci dà certezze, non è poco, è orientamento politico.  Viene in mente l’arguto canzoniere di Giorgio Gaber, quando  nella lista degli stereotipi ideologici, dice: “pisciare in compagnia è di sinistra, il cesso è in fondo a destra”. Qualcuno ha sottolineato che il pollice contro il discorso di Giuli faccia il paio e nel contempo sia l’antitesi politica all’invettiva fantozziana nei confronti della Corazzata Potemkin. Infine, più velenoso di tutti, Maurizio Crozza fa dire al suo Giuli in effigie: «Il mio è solo machismo filosoficoper dimostrare che ce l’ho molto più lungo io rispetto a Veltroni… il pensiero». Il che rispecchia una verità. La destra italiana cerca disperatamente un sua identità credibile e presentabile per affermare quella caratura identitaria, quella egemonia culturale che, proprio perché carente, denota un complesso di inferiorità innegabile. Giuli ha questo proposito ha citato, per dirne solo alcune, figure come Adriano Olivetti, Pier Paolo Pasolini o Antonio Gramsci, che sicuramente appartengono ad un’altra sponda.

La destra fa maquillage dal chirurgo estetico per esigenze sceniche e cosmetiche. Giuli comincia dalle parole. Riconosciamo che, rispetto al suo predecessore, si è alzata l’asticella. Le parole sono importanti, sono le truppe corazzate che veicolano le idee, ma possono trasformarsi anche in mosche cocchiere, in bolle di sapone scivolose. Chiudo con un aneddoto raccontatomi da un’amica italianista, che sembra una barzelletta, se non fosse che la realtà è una barzelletta. Aula universitaria, giorno di esami. La studentessa  risponde a una domanda su Manzoni. Ad un certo punto riferisce che la bibliografia dell’autore dei Promessi Sposi non esiste. La docente trasale e chiede ragione: è sicura di quello che dice? Certo, risponde quella, sfogliando prontamente il quaderno degli appunti. Io sono molto meticolosa. L’ha detto Lei, e sciorina la data della lezione. Leggo le sue testuali parole: la bibliografia di Manzoni è sterminata.

Cambiare le parole non basta, se non cambiano anche le persone.

  • Nino Dolfo

    Nino Dolfo è stato docente di materie letterarie negli istituti superiori. Dagli anni Settanta è iniziata la sua attività di giornalista pubblicistica, come critico cinematografico e cronista di cultura. Collabora con il Corriere della Sera.