In base alla nuova governance europea, il Piano strutturale di bilancio (Psb) deve individuare il percorso di crescita annuale della spesa primaria netta (al netto degli interessi e delle variazioni discrezionali delle entrate) necessario a portare il rapporto debito/Pil su un credibile sentiero di riduzione. Un percorso vincolante per tutti gli anni di vigenza del Piano (pari alla durata della legislatura, ma può essere rivisto in caso di cambio di governo) che diventano sette, per i paesi che, come l’Italia, decidono di accompagnarlo con un piano di investimenti e riforme, che concorrano all’obiettivo finale.
Un Piano con questa prospettiva, temporale e di contenuti, avrebbe dovuto essere costruito a partire da una riflessione approfondita, aperta al confronto con le rappresentanze sociali, il Terzo settore, gli enti territoriali e le altre istituzioni, le opposizioni.
Ciò non è avvenuto. Il Psb approvato la settimana scorsa, è una sorta di delega in bianco: definisce gli impegni, vincolanti, circa l’andamento della spesa primaria netta, ma nulla dice sull’entità delle manovre che dovranno essere realizzate anno per anno, per rispettarli, né sulla loro composizione per quanto riguarda la spesa – e la sua articolazione per settori e livelli di governo – e le entrate. Troppo generiche le informazioni sulle riforme e gli investimenti che giustificano l’estensione a 7 anni del Piano, che invece, secondo le Linee guida della Commissione europea, avrebbero dovuto elencare con precisione, come è stato fatto per il Pnrr, gli obiettivi, gli indicatori per misurarli e i tempi della realizzazione. Un esempio per tutti. Il Governo scrive che la spesa sanitaria crescerà a un passo superiore rispetto alla crescita media della spesa netta: un andamento che già emerge dal quadro tendenziale (inerziale) di finanza pubblica, che nulla dice sull’eventuale impegno a evitare un ulteriore calo del rapporto fra spesa sanitaria e Pil, o ad assumere medici e infermieri, o a rifinanziare quelle 500 tra case e ospedali di comunità, cancellati dal Pnrr, perché, si diceva, non c’erano i tempi per costruirli. Mentre non mancano ammiccamenti verso la sanità integrativa e la partnership pubblico-privato, nell’ottica di una privatizzazione progressiva del Servizio sanitario.
Va poi aggiunto che la legge di contabilità pubblica obbliga il Governo a fornire, nella Nota di aggiornamento al documento di economia e finanza, Nadef – riassorbita nel Psb per decisione unilaterale del Governo – informazioni che nel Piano non ci sono. Manca il quadro delle politiche invariate, il quadro cioè delle politiche in essere per quest’anno che saranno finanziate anche per il prossimo. Non ci viene detto cosa il Governo intende fare sul contratto 2022-2024, scaduto, del pubblico impiego, per il quale è stata avanzata, a parole, un’inquietante ipotesi di ristoro pari a solo un terzo dell’inflazione del periodo.
Il Psb non dice neanche in che misura e in base a quali criteri verrà distribuito fra i diversi livelli di governo lo sforzo per il necessario consolidamento delle finanze pubbliche. Per i Comuni, ad es., senza che sia stato aperto alcun confronto, si prospettano tagli in termini di accelerata riduzione dei disavanzi o accantonamento forzoso degli avanzi, senza la garanzia di risorse sufficienti per finanziarne le funzioni fondamentali e, per quanto di competenza, i Livelli essenziali delle prestazioni (Lep). In particolare i Lep sociali, di cui nessuno si interessa perché la loro definizione non è funzionale alla autonomia differenziata, essendo già le politiche sociali potestà esclusiva delle Regioni. Eppure il Governo è stato delegato dal Parlamento ad attuare le riforme della non autosufficienza e delle politiche per la disabilità, che implicano la definizione e il finanziamento di questi livelli.
In questo quadro di miopia e reticenza sulle politiche di medio periodo, l’attenzione viene inesorabilmente posta sulla prossima legge di bilancio, su cui aleggia, alimentata dalle dichiarazioni del ministro Giorgetti, la minaccia di tagli lineari e di sacrifici, prima evocati per tutti, ora per i soli soggetti più ricchi, entro un ragionamento vagamente redistributivo, per ora molto confuso.
Redistribuire è sicuramente fondamentale, a fronte della distribuzione fortemente diseguale dei redditi e dei patrimoni che caratterizza la nostra società. Ma lo è altrettanto attuare politiche volte a evitare che queste diseguaglianze si generino e si approfondiscano.
E allora, mentre si avanza l’ipotesi di un contributo generoso, volontario, da parte delle banche che hanno fatto profitti rilevanti, approfittando del divario fra i tassi di interesse attivi e passivi, non sarebbe giusto operare per cercare di liberare il nostro sistema produttivo dalla schiavitù nei confronti del credito bancario, che dà alle banche un potere enorme nella fissazione delle condizioni del credito? Invece il Governo ha tolto l’unico strumento efficace che permetteva questa emancipazione: l’Aiuto per la crescita economica, che favoriva le imprese, piccole e grandi, che si finanziassero con capitale proprio. E lo ha tolto per fare cassa: 4 miliardi da usare per condoni agli evasori, ritocco di qualche aliquota, prebende di vario genere.
Allo stesso modo, mentre si cercano i “ricchi” su cui fare ricadere i sacrifici, cosa giustifica la chiusura granitica nei confronti di politiche come il salario minimo legale e contro i contratti pirata, che servono a ridurre la distanza fra chi, pur lavorando, si impoverisce e chi continua ad arricchirsi? Invece di provare a garantire equità sul mercato del lavoro, il giorno prima del Psb, il Governo e la sua maggioranza hanno approvato un disegno di legge sul lavoro che spinge ulteriormente verso la precarizzazione e le basse retribuzioni, ridefinendo, in senso sfavorevole al lavoratore: le regole per il lavoro somministrato e stagionale, il falso lavoro autonomo, le dimissioni volontarie.
Scelte che parlano molto di più delle 228 pagine del Psb.
(Foto: www.mef.gov.it)