Le Settimane Sociali hanno una storia lunga e gloriosa. Nate per opera di Giuseppe Toniolo con lo scopo di ispirare cristianamente la società, esse si rivelano subito un modo intelligente per reagire alla disciolta esperienza dell’Opera dei congressi e per dare rilievo pubblico all’impegno e al pensiero politico dei cattolici italiani negli anni del Non expedit. Le Settimane vedono la loro prima edizione nel 1907 a Pistoia e la seconda nel 1908 prima a Brescia e poi a Palermo. La scansione annuale dura per le prime otto edizioni, poi si procederà con cadenze meno stringenti. La neonata Università Cattolica di padre Gemelli darà, negli anni Venti, un contributo importante. Il regime fascista non vede di buon occhio questa incontrollata occasione di partecipazione politica. E infatti l’esperienza lentamente vira su temi sempre meno politici e sociali per poi spegnersi definitivamente nel 1934. Bisognerà attendere la fine della Seconda guerra mondiale per una vigorosa ripresa, che avviene giusto nel 1945 a Firenze, in casa di Giorgio La Pira.

Dalla ripresa in poi, l’esperienza procede con cadenza quasi sempre annuale fino al 1970, dove – di nuovo – s’interrompe. Sono gli anni della contestazione, che si accompagneranno presto agli anni del terrorismo, della cosiddetta “notte della repubblica”. Sono anche gli anni in cui la DC entra in una crisi d’identità che la obbligherà a un lungo e periglioso cammino di rinnovamento, che sarà percorso solo in parte. Guarda caso, bisognerà attendere il 1991 – ossia l’anno della Centesimus Annus di Giovanni Paolo II e di una nuova pesante crisi della Dc – per la terza ripresa di questo grande laboratorio politico ed ecclesiale. Attualmente l’esperienza continua – siamo infatti alla cinquantesima edizione – pur senza la rigorosa cadenza annuale o biennale.

La rigorosità, potremmo dire, si gioca su altre dimensioni, a partire dalla rigorosità scientifica. Basta osservare la composizione dei comitati scientifici e organizzatori delle Settimane Sociali di questi anni per rilevare l’alta qualità dei componenti, molti dei quali provenienti proprio dall’Università Cattolica. Sono presenze che hanno conferito alle Settimane una profondità di pensiero davvero apprezzabile. Scorrere i titoli delle edizioni consente di ricostruire la trama dei pensieri politici della Chiesa cattolica e dei cattolici più impegnati – a partire dai movimenti e dalle associazioni per arrivare a chi ha ruoli politici diretti – nelle more delle diverse fasi della storia politica repubblicana. Basti richiamare le elaborazioni nel periodo del “progetto culturale” o dei “valori non negoziabili” o della scoperta – e Trieste è su questa scia – delle buone prassi.

Le buone prassi “dal basso”

Illuminanti sono infatti le parole di due docenti componenti il comitato scientifico e organizzatore delle attuali Settimane Sociali, Giovanni Grandi ed Elena Granata. Giovanni Grandi – nell’intervista ad «Avvenire» del 2 luglio 2024 (ossia pochi giorni prima dell’inizio della Settimana) – assume il tema della democrazia che parte dal basso attraverso la questione della partecipazione, ossia ‘il cuore della democrazia’: “[…] cioè la possibilità che tutte le persone che vivono i territori possano esprimere il loro pensiero sul futuro politico della polis”. Grandi – che insegna Etica pubblica e conflitti, giustizia e pratiche riparative – trova un interessante punto di contatto tra la Settimana di Trieste e il cammino del Sinodo, affermando che “la sinodalità è il nome ecclesiale della partecipazione”: un metodo che fa dell’ascolto, del decentramento da sé, del discernimento, della condivisione, del lavoro di concerto una base essenziale per rispondere alle grandi sfide di una contemporaneità frammentata e di difficile rappresentanza. Grandi trova così “un ponte metodologico […] tra una dimensione ecclesiale e una dimensione civile”.

Elena Granata, in un’intervista ad «Avvenire» il 9 luglio 2024 (dunque il giorno successivo il termine della Settimana), afferma che a Trieste si è cercato di “custodire l’energia genuina di dialogo che abbiamo sperimentato in queste giornate. Abbiamo compreso in modo nuovo che infinite attività nate dal basso hanno bisogno di risalire la filiera politica e intrecciarsi con le politiche locali e nazionali”. Dunque, è necessario accompagnare un processo di costruzione di una democrazia compiuta attraverso la valorizzazione delle buone prassi già presenti nei territori e nelle diocesi. Non ci sono ricette precostituite o l’appello astratto ai valori e ai principi, semmai si punta su “un grande esperimento di apprendimento e di generazione di idee e proposte”.

A conferma di questo taglio che passa dall’astrazione alla concretezza – dalla logica top down a quella del bottom up, potremmo dire – mons. Luigi Renna, arcivescovo di Catania e Presidente del comitato scientifico e organizzatore delle Settimane Sociali, nel suo intervento al seminario “Camminare insieme dopo Trieste” del 3 settembre, afferma che da Trieste emergono una visione, una presenza e un metodo.

La visione riprende la Centesimus annus per affermare che la Chiesa apprezza il sistema democratico – qualora qualcuno ancora lo mettesse in dubbio – “possibile solo in uno stato di diritto e sulla base di una retta concezione della persona umana”. La presenza racconta delle straordinarie esperienze di un cattolicesimo italiano che offre cura e promozione umana: “il popolo delle ‘buone pratiche’ ha dimostrato che non c’è angolo del nostro Paese in cui non si viva questa testimonianza di impegno civile […]. Abbiamo sperimentato che la presenza dei cattolici in politica non è tramontata”. E infine il metododell’ascolto reciproco, di una comunicazione che dà la parola a tutti. È una metodologia molto simile a quella che si sta sperimentando nel Cammino sinodale”.

Nello stesso seminario del 3 settembre 2024, mons. Enrico Trevisi, vescovo di Trieste, riprende le parole di Papa Francesco, quando ricorda i “tanti segni dell’azione dello Spirito Santo nella vita delle famiglie e delle comunità. Persino nei campi dell’economia, della ideologia, della politica, della società. Pensiamo a chi ha fatto spazio all’interno di un’attività economica a persone con disabilità; ai lavoratori che hanno rinunciato a un loro diritto per impedire il licenziamento di altri; alle comunità energetiche rinnovabili che promuovono l’ecologia integrale, facendosi carico anche delle famiglie in povertà energetica; agli amministratori che favoriscono la natalità, il lavoro, la scuola, i servizi educativi, le case accessibili, la mobilità per tutti, l’integrazione dei migranti. Tutte queste cose non entrano in una politica senza partecipazione. Il cuore della politica è fare partecipe. E queste sono le cose che fa la partecipazione, un prendersi cura del tutto”. La cura del tutto: questo passaggio è importante perché collega intelligentemente le buone prassi alla necessità di non delegare l’impegno in politica. Infatti mons. Trevisi conclude affermando che “matura la consapevolezza che ci sono responsabilità indelegabili, che appartengono alla testimonianza di ciascun battezzato, anche – lo ripeto – se in modalità diverse e secondo i carismi di ciascuno”. Di fatto è una chiamata all’impegno: una vocazione, perché “si sente il bisogno di allargare modalità e stili di autentica partecipazione, evitando deleghe e anche frustrazioni per la nostra irrilevanza nei confronti di problemi sociali così intricati”.

Accompagnare processi di partecipazione e di responsabilità

Ancora mons. Trevisi ricorda che i contenuti sono chiari, perché sono quelli della Dottrina sociale della Chiesa, così come i temi, ossia l’attenzione alla fragilità in un’ottica di solidarietà e di sussidiarietà, di bene comune universale, di denuncia delle strutture di peccato. Non si sta annunciando l’ennesimo tentativo di ricostruzione di un partito cattolico per occupare degli spazi (peraltro piuttosto congestionati): semmai si sta cercando – grazie a un’etica e a una prassi dell’attenzione – di accompagnare i processi già esistenti – e che verranno da oggi in avanti – di partecipazione e di responsabilità. Non occupare spazi ma animare processi: è la nota declinazione del principio contenuto nella Evangelii gaudium – vero testo programmatico del ministero pontificale del Santo Padre – per cui il tempo è superiore allo spazio. A Trieste – nota di carattere metaforico – Papa Francesco rende questo principio ricordando che è anche la legge della vita: “una donna, quando fa nascere un figlio, incomincia a avviare un processo e lo accompagna. Anche noi nella politica dobbiamo fare lo stesso”.

Il Papa, peraltro, nel suo intervento a Trieste ha subito rivendicato il contributo determinante dei cattolici italiani nella costruzione dell’ordinamento politico democratico subito dopo la Seconda guerra mondiale. Si noti, di passaggio, che Papa Francesco nel suo discorso triestino cita figure quali Aldo Moro e Giorgio La Pira. E allora, alla luce di questa grande storia, non possiamo limitarci a diagnosticare la malattia che colpisce la nostra democrazia: il Papa parla di una democrazia dal cuore ferito, infartuato, perché immersa in una cultura dello scarto che esclude, che emargina. E allora il contributo determinante dei cattolici contemporanei può ancora esser fecondo, anche “nell’ambito di una corretta relazione fra religione e società” (stoccata contro chi usa la religione per fini politici). Dunque il Papa incoraggia a partecipare per risanare il cuore della democrazia: per fare questo serve anche la creatività dell’amore politico. L’amore politico è un passaggio centrale della Fratelli tutti. L’amore politico non si limita a curare gli effetti dei mali, delle malattie: cerca di affrontare le cause andando oltre le ideologie, che sono come false medicine. Il Papa stigmatizza infatti sia l’ideologia sovranista populista – dove il popolo è una massa – sia l’ideologia dell’individualismo – dove il popolo è semplicemente una somma di individui. La categoria politica di ‘popolo’ va dunque riscoperta nel significato che la dottrina della Chiesa – e, aggiungiamo noi, l’esperienza di Luigi Sturzo – ha ben declinato attraverso il principio personalista. Il popolo, così concepito, e la politica sono come un tutt’uno: con la consueta chiarezza il Papa ci ricorda che “un politico che non abbia il fiuto del popolo, è un teorico. Gli manca il principale”. Come a dire che i principi astratti contano, ma senza la concretezza dell’azione e della relazione la politica non esiste. Ci vuole naso, insomma.

La fine del pre-politico

Queste citazioni del discorso del Santo Padre a Trieste ci permettono di delineare il quadro degli orientamenti e dei sentimenti che la Chiesa e il popolo dei cristiani sta vivendo oggi in Italia, dove la riscoperta della politica appare come un orizzonte da perseguire. Questo potrebbe effettivamente essere considerato un cambio di paradigma. Interessante, per esempio, è la fine del paravento del pre-politico. Lo esprime bene Elena Granata quando afferma che “Trieste ha sancito la fine della retorica del pre-politico: tutto è politica, ogni campo di impegno è campo politico, se sa tenere insieme fare e pensare, se diventa inclusivo e trasformativo della realtà”.

E allora è importante che l’accompagnamento dei processi corra anche lungo il pensiero delle riforme istituzionali, che – proprio sulla scorta della logica delle buone prassi e della democrazia che si rinnova dal basso – avrebbe a disposizione delle attualissime riflessioni sulla poliarchia, sul municipalismo e la riscoperta delle città, su un’architettura istituzionale davvero innovativa capace di fare i conti col superamento degli Stati, anche in chiave europea. Ma non corriamo troppo. Intanto osserviamo che la “voglia di politica” si manifesta anche nella chiarezza di alcuni pronunciamenti, come quello della Cei sull’autonomia differenziata e sul premierato.

Fare i conti con la politica è decisivo, è la scelta giusta. In questa fase serve però essere molto attenti, molto avvertiti, perché vi sono leader – si pensi a Donald Trump – che sanno usarla in chiave pesantemente strumentale, come peraltro hanno fatto anche alcuni politici nostrani col rosario in mano o con l’affermazione di un orgoglio cristiano che poco ha a che fare con la misericordia o la carità cristiana. E pure con la fede.

La fine del pre-politico non sta accompagnando la nascita di un partito: semmai, come affermato da Piano B – ossia da quel gruppo di cattolici che stanno dando luogo a iniziative di crescita democratica dal basso e che hanno recentemente pubblicato un libro dallo stesso titolo – serve scrivere uno spartito, ossia dare armonia alle diverse esperienze generative, senza ambire alla perfetta astrazione di un teorico Piano A. Nello spartito attuale vi è spazio anche per una rete di amministratori locali – attualmente siamo in duecento, in rapida crescita – che sperimenta le fatiche della democrazia municipale, del dialogo con la creatività delle tante voci del sociale o dell’individuale, del tradurre i principi della dottrina sociale in politiche sociali, ambientali, popolari.

Difficile dire cosa uscirà da tutti questi movimenti. Certamente si sta creando l’humus per una nuova stagione di impegno politico e sociale. Le idee ci sono, le persone anche e anche il desiderio e la volontà. Vediamo se – come sempre necessario in politica – si crea l’occasione. Le premesse ci sono tutte.

  • Roberto Rossini

    Già presidente nazionale Acli (2016-2021), ora presidente del consiglio comunale di Brescia