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«Bisogna avvicinare le istituzioni ai cittadini». Quante volte lo abbiamo sentito ripetere? Che la questione sia migliorare l’efficienza dell’azione pubblica, aumentare la sensibilità delle istituzioni ai bisogni della popolazione, responsabilizzare gli amministratori, controllare l’impiego delle risorse pubbliche, combattere l’astensionismo elettorale, la soluzione è sempre la stessa: avvicinare le istituzioni ai cittadini.

Alla base vi è una vera e propria costruzione ideologica: quella della sussidiarietà intesa «in senso verticale», tale per cui l’ordine corretto dell’intervento pubblico nelle vicende della società è quello che muove dai comuni e, risalendo per le province e le città metropolitane (per quel che ancora rilevano), arriva dapprima alle regioni e solo in ultimo allo Stato. Emblematica è la nuova versione dell’articolo 114 della Costituzione, riscritto nell’ambito della riforma costituzionale del Titolo V. Un articolo che, nel 1948, recitava: «La Repubblica si riparte in Regioni, Province e Comuni». E che dal 2001 afferma: «La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato».

Rimane da comprendere come l’«avvicinamento» delle istituzioni ai cittadini riesca a produrre i propri taumaturgici effetti. Secondo i suoi fautori, la sussidiarietà agirebbe positivamente lungo tre direttrici principali.

Anzitutto, opererebbe nel senso dell’incremento della democraticità delle istituzioni. La tesi è che la maggiore prossimità ai titolari del potere di governo offra ai cittadini l’opportunità di meglio far udire la propria voce. L’idea retrostante è che nella dinamica politica la domanda sia più virtuosa dell’offerta. Diversamente dai politici, i cittadini conoscono i bisogni della società ed è soltanto a partire da loro che può innescarsi una retta dinamica politica. Lontani dalla voce del popolo, gli amministratori si dedicheranno esclusivamente alla soddisfazione dei propri interessi personali; incalzati dalle domande provenienti dal basso, saranno invece costretti a prendersi cura del bene comune.

È evidente la matrice populista di tale visione. In basso, presso i governati, sta il bene; in alto, presso i governanti, il male. Il solo modo di consentire al bene di prevalere sul male sarebbe costringere i secondi ad ascoltare i primi, altrimenti destinati a rimanere preda dei propri egoismi. Una visione lontanissima dal pensiero democratico più accorto (Hans Kelsen), che argomenta esattamente il contrario: e cioè che, se i rappresentanti non effettuano una sintesi delle istanze di parte espresse dai rappresentati, a dominare saranno gli egoismi di minoranza meglio organizzati, a discapito dell’interesse generale.

La seconda direttrice benefica lungo cui muoverebbe la sussidiarietà è l’aumento della controllabilità dei governanti. A operare, in questo caso, è una matrice di tipo giustizialista. I politici – è il pregiudizio di base – sono di due tipi. Quelli, di cui sopra, che bramano il potere per realizzare al meglio i propri interessi; e quelli che alla conquista del potere aspirano essenzialmente per rubare. Grazie al timore del controllo degli elettori, la maggiore prossimità dei cittadini al potere forzerebbe i politici a contrastare la loro naturale tendenza alla disonestà. Quella tra cittadini onesti e politici corrotti è una contrapposizione che, in tutta evidenza, ricalca quella tra cittadini interessati al bene comune e politici interessati al bene proprio: in entrambi i casi, è dal basso che viene la salvezza contro il male che sta annidato in alto.

Peccato che la realtà non offra conferma di tale edificante visione. In effetti, se davvero la sussidiarietà producesse, sia pure obtorto collo, onestà, nessuno scandalo di un qualche rilievo avrebbe dovuto colpire la politica regionale e locale negli ultimi decenni. E, invece, proprio la dimensione locale o regionale è il tratto distintivo dei più clamorosi casi giudiziari dei nostri tempi: da “Rimborsopoli” alla sanità lombarda, al Mose di Venezia, sino al porto di Genova.

Infine, l’ultimo beneficio a cui condurrebbe la sussidiarietà è l’incremento dell’efficienza della pubblica amministrazione. L’argomento, in questo caso, è che la minore distanza tra amministrati e amministratori esporrebbe questi ultimi a una più incisiva verifica delle proprie azioni, costringendoli a migliorare le prestazioni della “macchina” pubblica. La retorica sottostante ha, questa volta, matrice tecnocratica. La sua versione più diffusa è quella per cui agli eletti spetta governare e agli elettori – soggetti perfettamente razionali – giudicare le loro performance: in caso di giudizio positivo, arriverà in premio la rielezione; in caso di giudizio negativo, scatterà, per punizione, la sconfitta elettorale.

È palese la spoliticizzazione del governo della cosa pubblica che accompagna tale visione. Giudicare buona o cattiva un’amministrazione sembra essere una questione oggettiva, ma ragionare in questi termini significa negare che i problemi dell’esistenza collettiva possano avere più d’una soluzione: vale a dire, che siano problemi politici, suscettibili di interrogare la discrezionalità politica e di ricevere soluzioni politiche. Se c’è una sola soluzione giusta a ogni problema, allora tanto vale abolire le elezioni e affidarsi indefinitamente ai tecnici.

La realtà è che «avvicinare le istituzioni ai cittadini» non produce, di per sé, alcun beneficio per l’attenzione ai bisogni della popolazione, la trasparenza dei governi locali, la qualità della classe politica o l’efficienza dell’amministrazione. E nemmeno incide favorevolmente sulla partecipazione elettorale, come anche spesso si afferma dalla prospettiva della sussidiarietà. È sufficiente considerare i dati sull’affluenza alle urne alle elezioni amministrative del 2023: i numeri si fermano al 41,8 per cento per le regionali nel Lazio e in Lombardia e al 37,5 per cento per il secondo turno delle comunali (contro il 45,4 per cento raggiunto al primo turno). Sono i risultati peggiori dell’intera storia repubblicana, ben al di sotto degli ultimi pur drammatici dati relativi alle elezioni politiche del 2022 (63,9 per cento): a dimostrazione che i cittadini non percepiscono alcuna particolare vicinanza agli enti territoriali che li chiamano al voto.

Se ne deve concludere che assegnare poteri agli enti territoriali sia, di per sé, sbagliato? Ovviamente no. Così come la «sussidiarietà verticale» non è un bene, allo stesso modo non è un male. Dipende dai casi. In materia di assetti istituzionali occorre essere meno ideologici e più realisti: al di là dei nostri desideri, il più delle volte accade che sia la realtà a piegare a sé le regole, non il contrario.

[1] Sintesi rielaborata del capitolo II di F. Pallante, Spezzare l’Italia. Le regioni come minaccia all’unità del Paese, Einaudi, Torino 2024.

  • Francesco Pallante è professore ordinario di Diritto costituzionale presso l'Università di Torino.